Capitolo 3

Beth – Prima

Quando ho visto per la prima volta il convento di St Colman, avevo undici anni e non ho mai dimenticato la mia delusione. È stato come scoprire che Babbo Natale non esiste. Un sogno dell’infanzia che viene infranto.

A essere sincera, è a Enid Blyton che do la colpa, perché durante il lungo viaggio attraverso i frutteti e le campagne collinose del Kent e del Sussex avevo immaginato battute argute e feste di mezzanotte, come una versione di Malory Towers nella vita reale. Mi ero costruita nella mente l’immagine di un maestoso palazzo con stucchi color crema, roseti che si arrampicavano sulla facciata e pony che brucano nel prato.

I miei genitori erano gonfi di orgoglio all’idea che la loro figlia sarebbe andata in un collegio e per due settimane mi avevano ricordato quotidianamente che grande prestigio mi avrebbe dato quell’esperienza. Non ci era quindi nemmeno passato per la mente che la scuola potesse essere in rovina.

Quando svoltammo l’angolo e imboccammo lo stretto vialetto verso il grande parcheggio del convento, mi resi conto che mia madre era rimasta scioccata quanto me dalla facciata decrepita. Lo capii dal rapido sguardo che scambiò con mio padre e dal colpetto di tosse con cui si schiarì la gola prima di parlare.

Ma mia madre era uno spin doctor prima ancora che fossero inventati. Ogni problema aveva sempre un risvolto positivo, e guardai i suoi occhi scansionare il convento in cerca di qualche cosa da promuovere.

«Bel giardino, Beth», disse infine, e poi inarcò le sopracciglia nell’espressione che usava per dire a mio padre di aiutarla a tirarmi su il morale. La guardai indicare le piante e ammirare la vista mentre io lottavo con il nodo che mi stringeva lo stomaco – il primo assaggio della nostalgia di casa –, chiedendomi come sarei sopravvissuta lontana dall’incrollabile ottimismo di mia madre.

In seguito avrei ripensato spesso a quel momento, e con grande tenerezza, perché mia madre, come al solito, aveva ragione. Il giardino era la cosa migliore del convento di St Colman e con il tempo avrei finito per amarlo. Era un intrico multicolore di rose e piante in fiore che sgomitavano per conquistarsi il proprio spazio. Anni dopo mi sarei sdraiata sull’erba con Sal e Carol, ripassando per gli esami e guardando le farfalle volteggiare di fiore in fiore. Serena e tranquilla.

Ma quel primo giorno ero cieca a tutto ciò che mi circondava. Non vedevo la magia. Nulla poteva distrarmi dall’orribile verità di quel convitto.

Il convento di St Colman era in rovina. Crollava a pezzi. E puzzava.

La prima cosa che dovetti affrontare fu l’odore, visto che è ciò che ricordo di più di quella prima visita. La scuola era composta da un grande edificio collegato attraverso un decrepito aranceto all’antica casa padronale convertita in convitto. Fu da questo palazzo georgiano con la facciata dipinta in una strana gradazione di salmone che iniziò il nostro giro. L’odore ti colpiva appena varcavi l’ampia porta, una sorta di umidità dolciastra e pungente. La leggenda che circolava tra le allieve, come avrei presto appreso, sosteneva che quello era l’odore del corpo in decomposizione di una suora che il secolo precedente era stata murata viva per avere violato il voto della castità ed essere rimasta incinta.

Mio padre, tuttavia, preferì sempre la spiegazione meno esotica delle infiltrazioni di umidità.

Ma quale che fosse la causa, per mascherare l’olezzo le suore riempivano la vecchia casa di fiori raccolti in giardino. Boccioli freschi in grandi vasi e petali secchi in coppe. Questo espediente dava al convitto un’aria molto casalinga (nonostante l’odore) e mi ero accorta che mia madre approvava quel tocco. E l’aspetto cadente? Una semplice questione contabile. Nonostante l’alto prezzo delle iscrizioni, il convento di St Colman era in perpetua crisi economica. Così, quando un pezzo di intonaco si staccava da una balaustra o uno stucco rinunciava a lottare contro l’umidità, li spazzavano semplicemente via. E quando un’altra crepa si apriva sulla facciata color salmone, le suore piantavano un altro vigoroso rampicante per coprirla.

Il risultato finale era un giardino fantastico, ma una scuola che sembrava essere interamente sostenuta dalle piante. Una potatura troppo radicale dell’edera o della clematide avrebbe rischiato di far crollare il palazzo.

«È orribile», riuscii a sussurrare alla fine mentre seguivamo una suora alta e segaligna lungo un corridoio.

«Non essere sciocca, tesoro. Aspetta di finire la visita».

Mio padre non disse nulla, lasciò che fosse mia madre a incoraggiarmi. Così ci incamminammo dietro di lei, seguendo le frecce rosse sui fogli A4 appiccicati con lo scotch su pannelli di legno. Arrivammo alla sala da pranzo, dove ci divisero in gruppi più piccoli per fare un giro completo; il nostro era guidato dalla stessa suora alta che ci aveva accolti all’ingresso e che ora si presentò come suor Veronica. Era di gran lunga troppo attraente per essere una suora e cominciai a sospettare che fosse stata ingaggiata da una sorta di agenzia di casting per impressionare i genitori e distrarli dalla fatiscenza dei locali. Il giro fu molto rapido. Prima l’ala del convitto. Dormitori, bagni, mensa, sale comuni. E poi, attraverso l’aranceto, l’edificio della scuola. Mi guardai attorno con occhi assenti. Notai soltanto la pittura che si scrostava. E l’odore.

Mi presero le misure per l’uniforme e poi ci diedero degli opuscoli patinati, e soltanto a quel punto mi resi conto del motivo per cui sulla copertina c’era un disegno e non una fotografia della facciata. In macchina, mentre tornavamo a casa, mi augurai per la prima volta di non aver superato l’esame di ammissione.

«Allora, cosa ne pensi?»

«Non è quello che mi aspettavo».

«Mai giudicare un libro dalla copertina». Mio padre trasse un profondo sospiro. «Ma ci pensi! La nostra Beth in collegio!». E lo disse con un tale orgoglio, una tale speranza, convinto che quella sarebbe stata la mia grande chance, che non ebbi il coraggio di ribattere.

E così, due mesi più tardi, rifacemmo il viaggio per il mio primo trimestre. Borse nel bagagliaio. Borse sotto i miei occhi. La mamma, sul sedile davanti, si asciugava le lacrime con un fazzoletto.

Avevo temuto così tanto l’ultimo saluto, che alla fine li lasciai frettolosamente per paura di non riuscire a trattenere le lacrime. Ricordo il profondo rimpianto che provai e la tentazione di correre dietro alla loro auto.

Seguii invece l’ormai familiare suor Veronica nel dormitorio, dove mi indicò il mio posto e mi presentò alle altre ragazze, che stavano già disfacendo le borse. Le tre dall’altra parte della stanza dovevano conoscersi già e stavano chiacchierando animatamente. Mi fecero un sorriso e poi ripresero a parlare delle loro vacanze.

Il mio nome era scritto in inchiostro nero su un’etichetta sulla testiera del mio letto, dall’altra parte della stanza, e le due ragazze dei letti accanto – Carol e Sally, stando alle loro etichette – sembravano impacciate quanto me.

Non avevamo ancora le uniformi e le differenze tra di noi erano evidenti. Le tre che stavano chiacchierando indossavano con indifferenza il loro lusso e i loro privilegi. Le loro valigie avevano visto il mondo, i loro vestiti erano costosi e le loro vacanze estive erano state un incanto.

Dalla nostra parte del dormitorio le cose stavano diversamente. Le nostre valigie erano vergini e anonime, la mia, di plastica azzurra, era stata acquistata in offerta online.

C’erano altre etichette con i nostri nomi sugli armadietti accanto ai letti e sui grandi guardaroba in un angolo del dormitorio. Mentre aprivo la cerniera della mia prima valigia, le tre amiche alzarono il tono della voce, confermando le mie peggiori paure: avevano già frequentato insieme la scuola primaria del convento.

Sal, Carol e io ci scambiammo un sorriso nervoso e cominciammo a disfare le valigie. Presi i vestiti e li sistemai nell’armadio, ma poi provai un’altra fitta allo stomaco rendendomi conto che avremmo dovuto prepararci i letti. Era una cosa che avevo segretamente temuto fin dall’inizio. I piumoni non erano ancora permessi – erano più problematici da lavare – e il corredo includeva due coperte e quattro lenzuola. La settimana prima mia madre aveva tirato fuori due coperte militari di colore grigio e io ero rimasta mortificata. Avevo immaginato (giustamente) che tutte le altre avrebbero avuto morbide coperte colorate bordate di nastri scintillanti, come quelle nelle pubblicità degli alberghi di lusso, e avevo supplicato mia madre di comprarmene qualcuna. Adesso mi imbarazza pensare a quanto fossero importanti per me quelle coperte, ma la mamma, con la sua voce cristallina, mi aveva spiegato che il prestito dell’esercito avrebbe coperto soltanto le spese di iscrizione. Avevano dato fondo agli ultimi risparmi per l’uniforme e non era rimasto più niente per le coperte. «Magari il prossimo trimestre, Beth».

Ero fortunata a poter studiare in un convitto, non dovevo dimenticarlo.

Così lasciai il letto per ultimo, con le imbarazzanti coperte in fondo alla valigia, fingendo di riorganizzare i vestiti, mentre le altre scendevano per il tè. Carol stava ancora svuotando la valigia e rimase nel dormitorio con me. Fu lei a scoprirmi, e fu lei la prima a vedermi piangere.

«Va tutto bene», mi sussurrò. «Ci abitueremo».

«Non è la nostalgia di casa. No, non è questo».

Mi strofinai il naso e la guardai dritta negli occhi, rendendomi conto per la prima volta di quanto era bella. Capelli biondi come la paglia, lunghi e lisci, e occhi azzurro chiaro; aveva un minuscolo neo sotto il sopracciglio, come se la produzione avesse deciso di aggiungerle un piccolo difetto per assicurarsi che sembrasse reale. Mi strofinai di nuovo il naso, troppo infelice persino per essere gelosa.

«Sono le coperte», dissi arrossendo e sentendomi stupida. «Le mie sono orribili e non voglio che le altre le vedano».

Carol mi guardò con aria perplessa e così le mostrai le mie coperte grigie dell’esercito.

Lei rifletté un paio di secondi e poi, con grande spontaneità, fece qualcosa che mi disse tutto di lei. Non cercò di convincermi che le mie coperte non erano orrende, tolse semplicemente la coperta rosa dal suo letto.

«Le condivideremo. Quelle grigie sotto e quelle rosa sopra. Con la trapunta sopra, nessuno se ne accorgerà».

Non riuscivo a crederci. Mi aveva risparmiato un’umiliazione. Una totale estranea mi aveva salvato la vita.

E l’amai all’istante per quello che aveva fatto. Perché mi aveva sorpresa. Perché era stata gentile con me. E mentre scendevamo a bere il tè insieme, grazie al suo radioso incoraggiamento mi sentii risollevata e cominciai a pensare che, nonostante tutto, al convento di St Colman sarei potuta stare bene.

Mentre bevevamo il tè e mangiavamo i pasticcini, Carol mi spiegò che si era potuta iscrivere al collegio soltanto perché sua madre aveva vinto una lotteria. «Non proprio una grossa vincita», aggiunse sgranando gli occhi. «Io avrei voluto spendere i soldi in crociere, auto di lusso e così via, ma la mamma mi ha spiegato l’importanza dell’istruzione e di saper sfruttare le opportunità della vita. E così, eccomi qui».

Sally mi disse che anche lei aveva avuto una borsa di studio dell’esercito; i suoi genitori pensavano, come i miei, che era ora di smetterla di passare da una scuola all’altra a seconda delle assegnazioni militari e di prepararsi per gli esami. Ci disse che sua madre aveva pianto per tutta la durata del viaggio e alzammo gli occhi al cielo, fingendoci esasperate dai nostri genitori, ma sentendone segretamente la mancanza.

Guardai Carol e Sally, e mi resi conto che era iniziato qualcosa di importante.

E quando quella prima notte mi infilai nel letto, annusando il cuscino che sapeva di casa e mi faceva pensare alla mamma che mi sorrideva da dietro l’asse da stiro, passai la mano sulla coperta rosa e ringraziai Dio per avermi fatto incontrare le mie nuove amiche.

E anche oggi, quando vedo il colore rosa mi sento subito bene.

Mi fa pensare a Carol.