Capitolo 10
Beth – Prima
Al convitto mi mancava mia madre. All’inizio era una mancanza fisica, che mi faceva male. A letto mi abbracciavo fingendo che fossero le sue braccia a stringermi come faceva quando ero molto piccola, e certe notti, quando spegnevano le luci, tiravo fuori la mia torcia blu dal cassetto del comodino e rileggevo le sue lettere nel buio del dormitorio finché non riuscivo a ripeterle mentalmente, immaginando che fosse la sua voce a leggerle per tranquillizzarmi e farmi dormire.
Ciò che più mi sconvolse non fu tanto rendermi conto di quanto l’amassi (questo già lo sapevo), ma di quanto avessi ancora bisogno di lei. A dodici, tredici anni le madri sono come coperte spesse e pruriginose, utili per tenere caldo, ma inclini a soffocare e irritare. Se si toglie la coperta, le notti possono però diventare terribilmente fredde.
Carol, Sally e io lo imparammo al convitto, e per noi fu quindi una sorpresa, all’inizio del trimestre, vedere altre ragazze accompagnate a scuola non dai genitori, ma dai nonni, dalla governante o, in alcuni rari casi, dall’autista.
All’inizio, ma non per molto, ci colpì anche che quelle stesse ragazze spesso non tornavano a casa per mesi interi perché i loro genitori erano troppo impegnati. Lavori esotici e vite esotiche. Le suore facevano del loro meglio per distrarle. Suor Veronica era particolarmente gentile e organizzava lunghe escursioni sulle colline dei Downs e cacce al tesoro al coperto nei giorni di pioggia. Portavano le ragazze al cinema e a teatro, e permettevano loro di guardare Top of the Pops o di restare sveglie per il film della sera, non nelle stanze comuni ma nel salottino privato delle suore, con le sedie dallo schienale alto e i poggiapiedi ricamati.
Ma i premi e i privilegi non lenivano la tristezza nei loro occhi quando ci vedevano tornare dopo un periodo trascorso in famiglia, con le madri che ci salutavano in lacrime.
Ricordo che Jacqueline Preer ci guardava sempre da una finestra del dormitorio, come un fantasma. Non accendeva mai la luce, se ne stava lì alla finestra, nella penombra della sera, senza alcuna espressione sul viso. Si diceva che Jacqueline fosse la ragazza più ricca della scuola. Aveva tutto ciò che noi sognavamo: un pony, vestiti a volontà e un conto aperto dalla parrucchiera locale. Indossava abiti all’ultima moda, orecchini con veri diamanti e aveva gli occhi più tristi che avessi mai visto.
Il terzo anno fu assegnata al nostro dormitorio e una notte la sentimmo piangere. Cercammo di consolarla, ma lei ci aggredì tirandoci i capelli e, mulinando le braccia, rovesciò tutti gli articoli da toilette nel suo armadietto. Una bottiglia di profumo andò in pezzi, spargendo a terra frammenti di vetro. Mi avvicinai per darle una mano, ma Jacqueline mi fissò e poi calpestò deliberatamente un pezzo di vetro, finché non fu portata via da una suora, lasciandosi dietro sul pavimento una scia di sangue. La rivedemmo soltanto la mattina seguente, quando scese zoppicando a colazione, con il piede bendato e un sandalo fuori misura, e ci fissò con la sua solita aria sprezzante. I suoi occhi erano stanchi e rossi.
Jacqueline andava a tutte le vacanze scolastiche organizzate dalle suore, settimana bianca a Natale e “tour artistico” in Italia a Pasqua. Suo padre, venimmo a sapere, era una sorta di ambasciatore, molto influente e molto generoso. In tutta la scuola c’erano targhe con le scritte “finanziato da Lord Preer” o “donato da Lord Preer”. La madre di Jacqueline, stando alla foto incorniciata accanto al suo letto, era eccezionalmente bella, con un vestito da ballo rosa come una star del cinema. Ma non l’abbiamo mai incontrata.
Cercammo di essere gentili con Jacqueline, ma dopo un po’ preferimmo tenerla a distanza e «farci gli affari nostri», come diceva sempre lei.
Fino alla notte, a metà del trimestre estivo del terzo anno, in cui scoprii l’orribile verità sul suo conto. Era una notte calda e afosa, e non riuscivo a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo nel letto provando tutti i soliti trucchi: contare pecore, rilassare ogni muscolo in successione come ci avevano insegnato a fare dopo le lezioni di danza. Ma nessuno funzionava.
Alla fine, verso mezzanotte, mi venne sete e presi il bicchiere di plastica sul comodino per andare in bagno e riempirlo d’acqua.
Indossai la vestaglia e camminai in punta di piedi per non svegliare nessuno. Sul pianerottolo regnava il silenzio e c’era soltanto la luce azzurra della notte.
Sopra la porta del bagno c’era un pannello di vetro e, sempre per non svegliare le altre, decisi di non accendere la luce perché quella del pianerottolo era sufficiente. Nel bagno comune c’erano tre cabine con water e una fila di lavandini di fronte a una vasca da bagno con una tenda da doccia. La tenda era per la privacy, ma era superflua perché, quando faceva la doccia o il bagno, la maggior parte delle ragazze chiudeva semplicemente a chiave la porta principale.
Decisi di andare in uno dei gabinetti prima di riempire il bicchiere, e stavo per tirare lo sciacquone quando all’improvviso udii un rumore.
Un brivido mi corse lungo la schiena nella penombra. Per un istante rimasi come paralizzata. Poi sentii di nuovo il rumore. Oh, mio Dio, no. Un intruso? Mi domandai cosa fare. Scappare? Oppure nascondermi dietro la porta del gabinetto e mettermi a urlare? Cosa sarebbe stato più pericoloso? Attesi, cercando di decidere, con il sangue che mi pulsava nelle orecchie. Ma poi quel rumore riecheggiò di nuovo e mi resi conto che non era un intruso, ma qualcuno che stava soffrendo.
Uscii lentamente dal gabinetto e mi diressi verso la vasca nell’angolo, dove avevo scorto un’ombra dietro la tenda della doccia. Dalla forma capii che era una ragazza, o una donna, con i capelli lunghi. Scostai piano la tenda e vidi Jacqueline Preer coperta di sangue. Era schizzato dappertutto. Sulle sue braccia, sulla camicia da notte, sui capelli e sulle piastrelle della doccia.
Quello che accadde dopo è confuso. Prima di svenire dovevo aver urlato, perché all’improvviso mi ritrovai sul pavimento con due suore chine su di me e rimasi sorpresa dai loro lunghi capelli grigi. Avevo sempre pensato che le suore anziane, che indossavano gli abiti più formali, avessero le teste rasate. Ma non era così.
Mi aiutarono a rialzarmi e, pallida e tremante, le seguii nel loro salottino privato, dove mi diedero un tè e chiamarono i miei genitori. Mi suggerirono di rimanere sul divano finché mio padre non fosse venuto a prendermi, ma io non riuscivo a stare ferma, né tantomeno a riposare. Udii in lontananza la sirena di un’ambulanza e le suore che rassicuravano le ragazze dicendo che andava tutto bene mentre in realtà non era così.
Mio padre arrivò, terreo in volto, nelle prime ore del mattino e mi dissero di restare a casa finché non avessi superato lo shock. Mia madre mi coccolò in ogni modo ma alla fine, dopo appena una settimana, la supplicai di lasciarmi tornare a scuola. Lontana dalle mie amiche mi sentivo ancora peggio. Mi avevano detto che Jacqueline era sopravvissuta grazie a me. Se fosse rimasta più a lungo in quella vasca, sarebbe morta dissanguata. Non ci fornirono mai tutti i particolari. Nelle preghiere, lo chiamavamo sempre «l’incidente di Jacqueline», anche se sapevamo tutte che si era tagliata i polsi. E non tornò mai più a scuola.
Arrivarono invece gli operai, che iniziarono i lavori di ristrutturazione mentre noi seguivamo le lezioni. Demolirono la vasca e la sostituirono con due cabine doccia con porte scorrevoli.
Fu un tentativo encomiabile. Ma io scelsi sempre gli altri bagni, preferendo fare la coda anziché ricordare quello che era successo lì a Jacqueline. Pensavo che trovare Jacqueline in quello stato fosse la cosa peggiore che mi potesse capitare. Con tutto quel sangue. Ma ero giovane. E mi sbagliavo.
Perché ci fu un’altra stanza piena di sangue e dolore. Un’altra bambina con le labbra blu, che questa volta non sarebbe sopravvissuta.