Capitolo 33
Beth – Adesso
E poi arriva il botto.
La giornata comincia come tutte le altre. Un trucco per farmi credere che sia un giorno normale. Adam prepara il tè e lo beviamo a letto. Guardo il suo profilo. Il piccolo neo sulla guancia sinistra. Penso che sia ancora un uomo molto affascinante ma, con mio eterno rimpianto, non glielo dico. Non dico più nulla a quest’uomo che amo e al quale tuttavia mento, quest’uomo che è la cosa migliore che mi sia mai successa nella vita.
Corro invece al piano di sotto per preparare i toast e mi distraggo aiutando i ragazzi a vestirsi per andare a scuola. Questo pomeriggio Adam ha un appuntamento dal dentista e dice che lascerà la macchina a scuola e ci andrà a piedi. Ma non gli presto molta attenzione perché Sam non riesce a trovare la borsa da ginnastica.
E adesso, sei ore più tardi, mentre sono su un taxi, sotto shock, mi rendo conto che non ho nemmeno chiesto al poliziotto al telefono quanto è grave Adam. Avvolta in una nebbia, ascolto la voce stridula di una squilibrata che continua a farfugliare al tassista… «Non so neanche se è ferito gravemente. Non l’ho chiesto. Avrei dovuto farlo, vero? Perché non ci ho pensato?».
Riesco a malapena a realizzare che quella voce è la mia. È come se sul taxi ci fossero due Beth. Una che guarda in silenzio e una che parla troppo. Una Beth balbettante, ridicola e isterica seduta accanto a una versione parallela di me, completamente al di fuori del mio corpo, mentre il tassista continua a controllare la mia faccia dallo specchietto retrovisore.
Entrambe le nostre facce?
«Forse al telefono non possono dire più di tanto sulle sue condizioni. Probabilmente c’è qualche regola al riguardo e anche se gliel’avessi chiesto, non me l’avrebbero detto. E appena ha visto il taxi, mia madre mi ha detto di saltarci sopra e farmi portare all’ospedale».
L’espressione del tassista ora è cambiata e pigia il piede sull’acceleratore. «Manca poco», dice. «Si faccia coraggio».
Non mi merito Adam. È questa la verità, ed è a questo che sto pensando… troppo tardi. Ero talmente ossessionata da me stessa, così prigioniera del sanguinoso passato e di tutti i miei stupidi errori, che non ho pensato abbastanza a lui e a tutte quelle fotografie, le immagini che si affollano nella mia mente mentre sono seduta sul taxi.
La prima fotografia di noi due insieme, la notte in cui, all’età di diciannove anni, incontrai Adam, il mio bell’uomo. Nella foto è così giovane. Ha lo stesso piccolo neo sulla guancia sinistra. Pieno di speranza e adorabile… Quella limpida serata d’autunno ai tempi dell’università. Fuori c’era un cielo punteggiato di stelle, dentro, invece, una band mediocre suonava a pieni decibel e mi sentivo soffocare.
Erano i tempi in cui la gente fumava ancora troppo e l’aria era satura di fumo. L’audio era terribile e mi faceva pulsare la testa. Così, mentre le amiche facevano la coda per avere altri drink, io dissi che me ne andavo e mi feci strada attraverso la calca verso l’uscita per respirare un po’ d’aria fresca.
E fu allora che lo incontrai. Il mio Adam.
Era nella hall, addossato a una porta del verde più disgustoso che avessi mai visto. Verde muco. Mi fece rivoltare lo stomaco e volevo che lui si spostasse per lasciarmi uscire.
«Mi scusi…». Ma lui non mi sentì. Era impegnato in una vivace conversazione con uno studente alto e magro con spessi occhiali scuri. Gli toccai piano il braccio per attirare la sua attenzione.
«Scusi. Posso passare?».
E lui si voltò, all’inizio accigliato e irritato, ma poi la sua espressione cambiò. Dopo essere rimasto immobile per qualche secondo mi aiutò a far scostare gli altri e a uscire.
Il sollievo dell’aria fresca e di quel cielo limpido all’inizio fu tale che mi accorsi che mi aveva seguita soltanto quando mi si parò davanti, porgendomi la mano e facendomi trasalire.
«Adam», disse. «Ciao. Scusami… non volevo spaventarti. Sembravi un po’ pallida là dentro. Sei sicura di stare bene? Ti ho vista qualche volta al campus. Era da un po’ che volevo conoscerti».
Ero confusa. La stretta di mano era stata stranamente formale. E poi, cosa aveva detto? Che mi aveva notata, che voleva presentarsi? Cominciai a squadrarlo con maggiore interesse. Senza lo sfondo color muco non era affatto male. Alto, con i capelli scuri e ricci tagliati corti. La maggior parte della gente non lo definirebbe una bellezza classica, ma aveva un viso caldo, aperto, e lo sguardo dei suoi occhi castani era molto diretto. Poi sorrise e giuro che non avevo mai visto denti così perfetti. Per qualche istante non riuscii a smettere di fissare la sua bocca. Soltanto quando la chiuse mi resi conto che forse lo avevo messo in imbarazzo.
«Scusami. È soltanto perché hai dei denti molto belli».
Lui scoppiò a ridere e io peggiorai le cose farfugliando che i miei denti inferiori erano un po’ sovraffollati («Guarda», dissi, mostrandoglieli) e che avrei voluto che mi avessero costretta a portare l’apparecchio. Era per questo che ero un po’ ossessionata dai denti e guardavo sempre quelli degli altri.
«Camminiamo un po’?», propose lui.
«Come?»
«Un po’ d’aria fresca ti farà bene. È una notte così bella. Dai, andiamo!».
Ricordo di avere pensato a com’era bella la sua voce rispetto ai miei farfugliamenti. Ferma, profonda e sicura.
Così camminammo e parlammo. Ci sedemmo su una panchina e guardammo le stelle. Adam mi confessò che mi aveva vista molte volte ma non aveva mai avuto il coraggio di avvicinarmi perché ero sempre circondata da molte persone.
Mi disse, senza il minimo imbarazzo, che gli piaceva guardarmi da lontano perché sembravo sempre così felice e animata che il mio viso risplendeva. «È la tue pelle che risplende, Beth. Non sto scherzando…».
«Ci siamo quasi», dice il tassista continuando a fissarmi dallo specchietto.
«Pensavo che andandoci con la mia auto ci avrei messo di meno», dico, «ma la mamma ha detto che era una pessima idea. È stata lei a vedere per prima il suo taxi. Scusi, gliel’avevo già detto? Lei è rimasta con i miei figli. Non gli abbiamo ancora detto niente. Non so come dirglielo. Ho lasciato però un messaggio a Sally. Abbiamo avuto qualche contrasto e non so se risponderà. È stupido che queste cose possano accadere anche con le migliori amiche. E poi, quando cominci a dirti che andrà tutto bene…».
«Come ho detto, siamo arrivati. È qui, dietro l’angolo».
«Si pensa sempre che queste cose accadano agli altri, vero? Una telefonata della polizia e un ospedale come questo. Lo shock…».
«A quale ingresso la porto?»
«Non lo so. Non ne ho idea». La voce mi si sta spezzando. «Non me l’hanno detto. L’hanno portato qui in ambulanza».
Adam voleva che il nostro primo appuntamento fosse lontano dal campus e così, con la sua Mini Cooper grigia, eravamo andati in un pub a sette chilometri dall’università. Pioveva e soltanto uno dei tergicristalli funzionava.
Il pub si affacciava su un parco e dentro c’era un grande cane nero accucciato vicino al caminetto. Mi diressi istintivamente verso il calore del fuoco, ma Adam mi fece spostare.
«Il cane scorreggia», mi sussurrò, guidandomi all’altra estremità del bar, verso un piccolo tavolo rotondo in un séparé con vecchi attrezzi agricoli appesi a grossi ganci neri alle pareti, e sedendosi di fronte a me.
«Finalmente ti ho tutta per me», disse con l’aria di trionfo di qualcuno che ha dovuto aspettare a lungo.
E fu a quel punto che mi innamorai di Adam. Come se mi avesse aspettata.
Soltanto tre settimane dopo andammo a vivere insieme. Non ero vergine, ma andai a letto con Adam con le basse aspettative di una ragazza la cui unica esperienza sessuale era stato un rapido e insoddisfacente rapporto con uno studente di Medicina che aveva fatto il cameriere con me durante le vacanze estive. Aveva un profilo da dio greco e confondeva la passione con l’amore. Persi la verginità sulla sua auto una piovosa notte d’estate accanto a un lago. I suoi tergicristalli funzionavano alla perfezione, a differenza dei suoi attributi maschili. Non dimenticherò mai l’atroce delusione che provai, e le sedute successive, sempre accanto al lago, non diedero risultati migliori.
Finché non incontrai Adam.
Ogni notte entrava in camera mia dalla finestra, e con lui il sesso funzionava così bene che a volte non riuscivo a trattenere le urla di piacere. La differenza era così radicale che rimpiangevo di non averla scoperta prima. E poi lui mi baciava le palpebre e mi sorrideva con i suoi denti perfetti, e ci addormentavamo insieme con le labbra ancora incollate e i nostri respiri che si fondevano.
Quando dissi al telefono a Sally che lui era l’uomo giusto per me, lei scoppiò a ridere dicendo che erano soltanto i postumi del mio primo sesso decente. Ma quando venne a trovarci e ci vide insieme, mi prese da parte e, fissandomi così seriamente da innervosirmi, disse: «Ascoltami bene, Beth. Tieniti stretto quel ragazzo. Mi ascolti? Non sto scherzando. Ho visto come ti guarda». Poi mi abbracciò e aggiunse: «Soltanto io ti guardo così. Tienitelo stretto. Promesso?».
Così, dopo il college, ci stabilimmo nell’Essex, dove Adam trovò il suo primo posto di insegnante. La storia era la sua materia e anche la sua grande passione, e all’inizio, durante le vacanze, facevamo dei viaggi di ricerca: Roma, la Grecia, il Vietnam, Cuba. Immaginavo che con lui un giorno sarei andata sulle mie agognate montagne, in Cina. Ma con il passare del tempo Adam cominciò a preoccuparsi per i soldi. Era l’unico argomento su cui litigavamo.
Lui era l’unico figlio di un magazziniere e di una donna delle pulizie e il denaro era sempre stato un problema. Vivevano in un immacolato appartamento di un palazzo fatiscente, in un quartiere dove vandalizzavano anche i vasi dei fiori. Cominciai a capire perché Adam voleva una vita diversa per la sua famiglia.
Benché gli piacesse insegnare, si lamentava dello stipendio e delle possibilità di avanzamento, e quando cominciavamo a parlare del nostro futuro e della prospettiva di mettere su famiglia, si innervosiva. Invece di viaggiare, iniziò a mettere da parte i soldi delle vacanze e a dare lezioni private durante i fine settimana.
«Sono stufo di non avere soldi», diceva, come se fosse colpa sua.
Nel frattempo feci una serie di lavori temporanei: in un museo, un’agenzia di viaggi e alla fine una banca. Erano tutti noiosi, ma con Adam accanto non mi importava. Avevamo la nostra casetta e il nostro sogno. Il nostro futuro.
Adam, però, pensava di avermi delusa. Una volta mi disse che non mi meritava e le sue parole mi ferirono a tal punto che gli feci promettere che non le avrebbe mai ripetute e che non mi avrebbe mai lasciata.
E così ci sposammo.
Facemmo i nostri meravigliosi figli e la notte Adam li cullava tra le braccia, sorridendogli con i suoi denti perfetti, e per molto tempo dimenticai le mie montagne. Il mio sogno di visitare la Cina.
Mi insegnò così tanto, a sentirmi bella nonostante i denti, a giocare a cricket con la serietà di un insegnante nato. A scuola ero un disastro e a cricket non riuscivo mai a colpire la palla. Non sono mai riuscita a capire come una mazza così sottile potesse colpire una palla così piccola.
Ma Adam era paziente. «Rilassati. Smettila di preoccuparti. Devi soltanto tenere lo sguardo fisso sulla palla».
Ricordo quando l’avevo colpita la prima volta, il delizioso rumore che aveva fatto quando l’avevo rispedita in fondo alla spiaggia.
Ricordo l’esultanza e il senso di gioia mentre sorridevo a Adam, che rispondeva con il suo sorriso perfetto e il piccolo sulle sue spalle gli faceva eco con il suo sorriso sdentato.
Arriviamo finalmente all’ospedale di Durndale, salto fuori dal taxi e salgo di corsa gli scalini dell’ingresso senza nemmeno pagare il povero tassista. A metà scalinata inciampo e mi sbuccio un ginocchio. Il tassista mi aiuta ad alzarmi e solo a quel punto mi rendo conto che ho soltanto dieci sterline nel portafoglio.
«Mi dispiace. Non bastano, vero?».
Lui mi guarda negli occhi, che si stanno colmando di lacrime, e scuote la testa. «Va bene. Dieci sono sufficienti. Adesso corra dentro. E buona fortuna».
Sento l’urlo di una sirena che si avvicina, poi tutte le voci diventano ovattate e sono in piedi davanti al banco dell’accettazione, stordita e disperata, circondata da gente che mi spinge.
Chiudo gli occhi e affiora un altro ricordo. Il peggiore di tutti. Sono di nuovo in quell’orribile stanza con Sally e Carol. Ho quattordici anni e sto pensando alla parola ambulanza con l’odore del sangue e del panico che mi si insinua nelle narici…
«Chiamo l’ambulanza, Carol».
Cerco di allontanarmi dal letto, ma Carol mi afferra la giacca del pigiama con una mano e con l’altra si stringe lo stomaco, ancora piegata in due dal dolore.
«No, Beth, ti prego. Andrà tutto bene».
«Tutto bene? Ma guardati, Carol, sembra che stai per morire».
«Oddio, Beth, pensi davvero che stia morendo?», chiede Sally, terrorizzata, stringendo in mano la pezzuola bagnata che abbiamo usato per rinfrescare la fronte di Carol.
«Nessuno sta morendo». La faccia di Carol si contrae in un’altra smorfia di dolore. «Sto per avere un bambino o per perderlo. Non so quale delle due».
Sally comincia a singhiozzare ed è scossa da violenti conati di vomito. Inarca la schiena, sollevando e abbassando le spalle, e ho paura che svenga o si vomiti addosso. È troppo per me, le ginocchia non mi reggono e devo sedermi accanto a Carol. Abbiamo tolto le lenzuola macchiate, ma gli asciugamani non bastano. All’improvviso c’è un altro copioso fiotto di sangue.
«È meglio che andiamo in bagno», dice Carol.
«No, Carol. Non possiamo farlo da sole», dico. «Non qui. Non senza aiuto. Dobbiamo portarti in ospedale. Chiamerò io tua madre».
«No, Beth. Ti prego. Sarò espulsa dalla scuola. Non vi vedrò mai più. E per mia madre sarebbe un colpo mortale. Per favore».
Carol sta sanguinando da due ore. È la fine delle vacanze di Pasqua e siamo a casa mia: l’idea originale era quella di stare insieme lontano dalla scuola per decidere cosa diavolo fare. Carol ha smesso da tempo di parlare di aborto, e comunque è troppo giovane per firmare le carte senza il consenso della madre, e dalla rotondità della pancia sotto i maglioni larghi ci rendiamo conto che è troppo tardi.
Sally sta parlando a vanvera. Propone di lasciare tutte la scuola, trovare un lavoro in qualche negozio, condividere un appartamento e crescere il bambino insieme quando i genitori ci butteranno fuori di casa. Non so cosa suggerire. Abbiamo litigato. Disperate. Terrorizzate. E poi Carol ha cominciato a sanguinare.
Mia madre è già nel suo negozio e dopo andrà alla festa di compleanno di un collega. Papà è andato per qualche giorno nell’Essex per un evento sportivo con mio fratello Michael, che poi riporterà alla sua scuola.
Carol ha calcolato che è all’incirca alla venticinquesima settimana, ma non abbiamo modo di stabilirlo con certezza. Il suo pancione è diventato difficile da nascondere. Per camuffarlo ha indossato un ridicolo corsetto, ma anche i suoi seni sono enormi e, per la prima volta da quando la conosco, ha degli orribili brufoli sul mento. Ricordo che un giorno suor Veronica ha fissato i brufoli e Carol è arrossita, come se quegli sfoghi potessero tradire il suo stato.
«Pensi che stia per nascere, Carol? Adesso? Lo senti spingere?»
«Non ne ho idea. Non lo so, Beth!».
«Tutto bene, tesoro?».
Apro gli occhi e vedo un’infermiera accanto al banco dell’accettazione. Allunga una mano per afferrarmi il braccio proprio quando cominciano a cedermi le gambe.
«Piano. Respiri a fondo», mi sussurra con voce dolce, guidandomi verso una sedia e facendomi sedere piegata in avanti con la testa tra le ginocchia.
Mi offre un tè, ma io prima devo trovare Adam. «Adam Carter? È stato coinvolto in un incidente. Hanno detto che è stato un pirata della strada».
L’infermiera si siede al computer e si collega con il pronto soccorso. Poi mi prende di nuovo per il braccio e mi guida lungo un corridoio. «L’accompagno io. È da questa parte. Cammini piano».
Quando arriviamo al reparto, mi volto verso l’infermiera cercando di leggere la sua espressione.
«Come sta Adam? È grave?»
«Da questa parte, signora Carter», risponde lei. «Tra un istante arriverà il dottore e le spiegherà tutto».
Mi indica un letto su cui è sdraiato un uomo e il terribile errore mi fa provare un momentaneo sollievo. Quello non è Adam. È un impostore. È troppo vecchio. Ha la pelle grigia e malata.
E quando lui apre gli occhi, cercando di rassicurarmi che sta bene, sento il vento sulla spiaggia. Attenta alla palla, Beth! E il sibilo dell’aria quando mi sfreccia accanto, sfuggendo alle mie mani e atterrando dall’altra parte della spiaggia.
«Beth. Sei qui…».
Gli faccio cenno di tacere, per risparmiare le forze, e bacio la grande benda che gli avvolge la testa. Migliaia di rimpianti si affollano nella mia mente.
Per avergli mentito. Per non avere condiviso con lui la verità. Le minacce. Per non avergli rivelato il mio lato oscuro e quello che avevamo fatto.
Per non avergli prestato attenzione.
Per essermi lasciata sfuggire la palla.