Capitolo 49
Beth – Adesso
In questa lunga notte senz’aria non riesco a dormire.
Rimango sdraiata al buio nella mia camera d’albergo e vado alla deriva nel tempo. Mi sembra di udire il verso di una civetta. Una volta. Due volte. Ma è come un’eco, e non so se sia reale o frutto della mia immaginazione.
Continuo ad alzarmi e a camminare su e giù per la stanza. Voglio aprire di più la finestra per sentire ancora la civetta, ma è bloccata e non si muove.
Spingo più forte, ma non c’è niente da fare. La stanza è soffocante e ho un disperato bisogno di aria fresca. Voglio sentire la civetta. No… Voglio essere quella civetta. Voglio volare via e non tornare mai più. E voglio anche urlare. Ululare al cielo notturno.
Alla fine ci rinuncio. Mi appoggio con le spalle al muro e mi lascio scivolare sul pavimento. Ho pianto così tanto da non avere più lacrime. È come se il mio corpo si fosse prosciugato di tutti i liquidi.
Abbasso lo sguardo e mi accorgo che sono ancora vestita. Mi sento sporca. Sudata. La busta della posta aerea di Jacqueline è scivolata fuori dalla mia borsa e giace sul pavimento. La guardo e vorrei tornare indietro nel tempo, essere la Beth che la teneva in mano nella cucina della scuola. Prima che lo sapessi.
Non voglio essere questa Beth.
Questa nuova Beth che sa quello che io so adesso…
Dopo che l’ho colpita, Carol ha versato del brandy per tutte e due.
Non era mia intenzione schiaffeggiarla, volevo soltanto che non lo dicesse. Come se bastasse impedirle di dirlo per non renderlo vero.
All’inizio ho pensato che si fosse inventata questa abietta e disastrata versione della mia famiglia, ma non riuscivo a capire perché. Per ferirmi? Per minare la mia vita?
Ma poi, appena le lacrime hanno cominciato a rigarle le guance, l’ho guardata negli occhi e mi sono resa conto che non aveva alcuna ragione per inventarsi una cosa simile.
Perché avrebbe dovuto mentire?
Il pensiero successivo è stato che fosse colpa di Michael. E ho temuto che Carol mi dicesse che mio fratello – a sedici o forse diciassette anni – era il padre di sua figlia. La minuscola bambina che era morta in quel bagno in un mare di sangue. E le conchiglie…
Ho cercato di escludere questa possibilità. Michael? Siamo rimaste sedute in silenzio mentre i ricordi e le date affioravano alla mia mente. Ma c’era qualcosa che non tornava e ho scosso ripetutamente la testa. No. Quando era venuta a stare da noi ed eravamo andate alla fattoria senza di lei, mio fratello non c’era, era andato a trovare il suo migliore amico nell’Oxfordshire.
Quindi…
«Non capisco. Quel fine settimana Michael non c’era. Cosa stai dicendo, Carol? Cosa vuoi farmi credere?»
«Non intendevo tuo fratello. Non è stato lui».
«Come?». Avrei voluto scuoterla e ho dovuto stringere i pugni per non schiaffeggiarla di nuovo.
Lei ha sussultato, come se avesse capito cosa avevo in mente, e mi sono vergognata ricordando Ned e i lividi.
«Sei sicura di volere che ti racconti tutto, Beth? Se preferisci posso andarmene. Posso prendere Thomas e togliere il disturbo».
Entro in bagno e apro la doccia al massimo. Mi spoglio, mi infilo sotto il getto d’acqua calda e ripenso a tutto quello che lei mi ha detto la notte scorsa dopo che le ho risposto: «Sì, voglio saperlo, Carol».
Mi ha raccontato che dopo che Sally, la mamma e io eravamo partite per la fattoria, lei aveva preso il suo blocco da disegno e una limonata calda ed era andata nel padiglione in giardino. Faceva molto freddo e la mamma temeva che la lunga camminata avrebbe peggiorato il suo raffreddore. Nel padiglione c’era una piccola stufa a legna, era caldo e confortevole.
Carol ha detto che mio padre l’aveva seguita nel padiglione e che all’inizio la cosa le aveva fatto piacere. Non era passato molto tempo dalla disastrosa seduta con la tavola Ouija.
Io l’ho interrotta dicendole che aveva frainteso il messaggio della tavola Ouija: non era suo padre che voleva contattarla, ma uno scherzo di Melody. E lei ha detto che non aveva importanza.
Il fatto è che l’aveva fatta pensare a suo padre e così, nel padiglione, aveva appoggiato la testa alla spalla del mio. «Come facevo con mio padre quando ero piccola. È stata colpa mia, Beth?».
Gli aveva parlato dei suoi disegni, di quello che stava cercando di fare, copiare le margherite ai piedi di uno dei tre alberi nella radura. Mio padre aveva detto che i suoi disegni erano molto belli, ma poi l’aveva abbracciata stringendola forte. Lei era rimasta molto scioccata e l’aveva respinto e lui all’improvviso l’aveva baciata dicendole che era bellissima.
Parlava come se fosse in trance. Ha detto che due corvi appollaiati sulla staccionata avevano assistito a tutta la scena. Carol aveva lottato per difendersi, ma non era abbastanza forte. Ha detto che lui aveva un orribile odore di birra e di mentine e che i corvi l’avevano fissata con i loro scintillanti occhi neri finché lui non aveva finito.
«Avrei dovuto urlare, Beth. Poi ho pensato che avrei dovuto chiedere aiuto. Ma avevo paura che tu tornassi e lo sentissi. Tu, Sally e tua madre».
Ha fatto una lunga pausa e poi ha guardato Thomas, ancora addormentato nella sua piccola culla di tessuto scozzese.
«Non sapevo cosa fare. Era tuo padre, Beth. Quando sono rimasta incinta, avrei tanto voluto dirlo a qualcuno, ma sapevo quanto lo amavi. E così non ne ho parlato con nessuno. Guardati adesso… ti ha spezzato il cuore. Ho sempre saputo che per te sarebbe stato un colpo terribile…».
Di nuovo in albergo, mi siedo sul letto avvolta in un grande asciugamano bianco. La mia pelle è calda e arrossata. Sto cerando di sgombrarmi la mente e penso ai magneti. Attrarre, respingere. Attrarre, respingere. Non c’è da stupirsi che Carol si sia allontanata da noi. No, non da noi… da me.
Fisso la luce lampeggiante dell’orologio digitale accanto al letto. 5:30. 5:45.
Mi rendo conto di provare un assurdo senso di vergogna. E poi capisco che è perché amo mio padre… Lo amavo…
Adesso devo smettere di amarlo? Cancellare tutti i nostri ricordi?
Con me non ha fatto nessun passo falso, era sempre gentile e amorevole.
Penso a mia madre e mi è insopportabile immaginare quanto questo potrà ferirla. Sento l’eco della confessione che mi aveva fatto quando ero depressa. Il suo racconto su come era andata a stare da mia zia. Sulle difficoltà del suo matrimonio quando mio padre si era invaghito di quella ragazza in ufficio.
All’improvviso sento il bisogno di vestirmi, di scacciare questi pensieri e mettermi a fare qualcosa. Mi alzo e comincio a cercare i vestiti. Devo assolutamente parlare con Adam per chiedergli un consiglio, ma è ancora troppo presto e lui non si è rimesso in forze…
E non riesco ancora ad accettare l’idea di condividere con lui questa cosa. Non sono io la vittima, e mi crogiolo tutta la notte nel dolore.
Penso alla vita di Carol in tutti questi anni.
La notte scorsa mi ha detto che ha confessato a Ned di mio padre e della figlia. Aveva tradito la nostra promessa quando stavano cercando di avere un figlio. Quando tutto sembrava possibile. All’inizio Ned era stato gentile e comprensivo, ma poi si era inspiegabilmente arrabbiato con lei. Perché non l’aveva fermato? Perché non l’aveva detto alla polizia? Perché era stata così irresistibile? E poi la paranoia, la gelosia. L’aveva accusata di flirtare con gli uomini e di incoraggiare le loro avances.
«Ma io non l’ho fatto, Beth. Non ho mai cercato di sedurre nessuno».
Devo aiutare Carol e il suo bambino. All’improvviso mi rendo conto di tutto quello che ha dovuto sopportare da sola per colpa mia. Devo sistemare le cose. Controllo l’orologio. Sono le sei di mattina. È ancora troppo presto…
Accendo il televisore per ammazzare il tempo e per mettere a tacere le voci che riecheggiano nella mia testa distraendomi con le immagini, le facce della gente comune con vite semplici e ordinarie. È ancora troppo presto per telefonare a Adam e così mi sintonizzo sul notiziario.
E rimango paralizzata. Un fermo immagine. Il sonoro è spento, ma l’inquadratura è come un pugno nello stomaco. Il presentatore ha un’espressione grave e in un angolo dello schermo c’è una fotografia della culla in tessuto scozzese.
Non c’è possibilità di errore.
La culla in tessuto scozzese di Carol.
Mentre cerco il pulsante per alzare il suono, in fondo allo schermo scorre silenziosamente il titolo. L’orribile verità…
ULTIME NOTIZIE SUL BAMBINO RAPITO: La polizia ha esteso le ricerche del bambino scomparso all’aeroporto di Heathrow. Gli agenti hanno dichiarato che la culla era rimasta incustodita solo per pochi istanti…
Mi precipito verso la camera di Carol e quando lei non mi risponde, picchio ripetutamente alla porta urlando il suo nome. «Carol… Carol!».
Temendo che abbia già lasciato l’albergo, corro alla reception.
«Devo entrare nella stanza 117. La mia amica non mi risponde!».
«È presto. Mi dispiace, non possiamo disturbare gli ospiti a quest’ora», risponde l’impiegata, digitando 117 sulla tastiera del centralino. Il telefono dà occupato.
Poi controlla sul computer e il suo viso cambia espressione. «Aspetti un attimo… 117? Adesso ricordo. Una quindicina di minuti fa è arrivato suo marito. Sorpresa di compleanno. Con uno splendido mazzo di fiori».
«Suo marito! Oh, mio Dio».
«Cosa c’è? Qual è il problema?», chiede l’impiegata impallidendo. «Gli ho dato la chiave della stanza. Lo so che è contro il regolamento, ma mi ha detto che era una sorpresa. Il suo compleanno. Cosa c’è che non va?»
«Mi dia subito una chiave della stanza e chiami la polizia!».
«Oh, no… adesso perderò il lavoro, vero?»
«SUBITO!».
L’impiegata mi passa una chiave. L’afferro e corro verso le scale urlandole di nuovo: «Chiami la polizia! E la security dell’albergo».
Le mie mosse successive sono dettate dall’istinto. Agisco senza pensare. Non è coraggio ma, come dirà in seguito Adam, stupidità.
Dovrei chiedere aiuto a Matthew e a Sally, ma mentre salgo di corsa le scale non ci penso. E non ci penso nemmeno quando infilo la chiave nella serratura. Mi precipito nella camera e vedo una fotografia incorniciata di una fanciulla e sotto, riflessa nello specchio, la faccia terrorizzata di Carol con il braccio di Ned attorno al collo. Sta soffocando e scalcia cercando di liberarsi. La faccia di lui è livida di rabbia. Irriconoscibile. Accanto al letto c’è la culla con dentro un cuscino. Nessun rumore dal bambino…
Urlo. Ricordo soltanto quello. Urlo invocando aiuto. Ma Ned si mette tra me e il bambino. Mi guardo attorno in cerca di qualcosa con cui colpirlo per liberare Carol e raggiungere il bambino.
Mentre mi volto per afferrare un oggetto qualsiasi, Ned lascia andare Carol e avanza verso di me. Poi mi allunga un pugno alla mascella, talmente forte da farmi barcollare indietro.
Lo shock è irreale. Non riesco a credere che un uomo possa fare questo. Sento uno scricchiolio alla mascella e un atroce dolore alla nuca mentre cado a terra sbattendo contro il comodino. Poi ricordo soltanto dolore in varie parti del corpo: stomaco, gambe, fianco.
Vedo Carol rialzarsi a fatica e nella mia testa le urlo: Corri, Carol, corri!
Ma lei non lo fa.
La vedo indietreggiare vacillando verso la culla. Toglie il cuscino e si china a guardare mentre Ned si volta e comincia a urlarle: «Esci di qui, puttana!».
Per qualche istante cala l’oscurità e poi, come attraverso una nebbia, vedo Ned colpire alla schiena Carol. La trascina a terra, ma lei si rialza e allarga le braccia, come un uccello che vuole proteggere il suo nido.
Non posso fare altro che guardare. All’improvviso vedo un filo penzolare accanto a me. Lo tiro forte, una, due volte, finché non cade una lampada che si frantuma sul pavimento. Tutt’a un tratto ci sono altre voci nella stanza. Riconosco Matthew. Le forme e le voci sono confuse e la testa continua a pulsarmi.
E poi cala di nuovo l’oscurità.