Alla fine, c’erano un fiume, un ponte e un mulo, ma qui non siamo alla fine, siamo a dopo la fine, e ci sono io, in cucina, una mattina, con il cortile illuminato alle mie spalle. Il sole sta lentamente salendo in cielo.
Non ho molto altro da dire.
Solo quanto tempo ci è voluto.
Quante notti ho trascorso seduto in questa cucina, che ha visto le nostre vite? È stato qui che una donna ci disse che stava per morire, e che un padre tornò per affrontare i suoi figli. Sempre qui, a Clay ardeva il fuoco negli occhi. E queste sono solo alcune cose tra tante. Più di recente, ci siamo stati in quattro. Quattro fratelli Dunbar e il loro padre, tutti in piedi, in attesa, insieme…
Ma adesso manca soltanto questo; seduto, batto sui tasti. Dopo il mio viaggio a Featherton, da cui sono tornato con una macchina da scrivere, un cane e un serpente, sono rimasto qui, notte dopo notte, mentre tutti gli altri dormivano, per scrivere la storia di Clay.
E come posso cominciare?
Come faccio a raccontarvi il dopo, quello che successe nelle nostre vite dopo la costruzione del ponte?
Una volta, nella marea del passato dei Dunbar, Clay tornò da noi, nella casa di Archer Street, e poi ci lasciò – pensammo – per sempre; ma gli anni successivi hanno portato tante cose.
*
Al principio, quando ripartimmo dal fiume, Clay abbracciò nostro padre, e diede un bacio sulla guancia ad Achilles. (Quel farabutto, che aveva vissuto il suo momento di gloria, fu piuttosto restio a tornare da noi.)
Clay provò una sensazione di trionfo assoluto e meraviglia davanti a ciò che aveva visto. Poi sopraggiunse la tristezza, profonda e incurabile. Dove sarebbe andato?
Mentre radunava le sue cose – la vecchia scatola di legno con i suoi ricordi e i libri, incluso Il cavatore –, guardò il ponte dalla finestra. A che serviva l’aver firmato un capolavoro? Era rimasto in piedi per provare la validità del suo lavoro, e non aveva salvato un bel nulla.
Prima di ripartire, lo porse a nostro padre.
Il libro con la copertina chiara e i caratteri bronzo.
«Adesso è ora di restituirtelo.»
Mentre andava verso la mia station wagon, nostro padre ebbe un ultimo sussulto. Lo rincorse, svelto. «Clay…Clay!» lo chiamò.
E Clay intuì che cosa voleva dirgli.
Ma sapeva che stava lasciando tutti noi.
«Clay… il cortile sul retro…» E lui lo interruppe con la mano. Disse esattamente quello che gli aveva detto anni prima, quando era solo un bambino, e non era ancora diventato un ponte.
«Papà, è tutto ok. È tutto ok, pa’.» E subito aveva aggiunto: «Lei era proprio speciale, eh?»
Michael non poté che dirsi d’accordo.
«Sì. Lo era.»
Clay salì in auto, e ci guardò.
Salutammo tutti papà con una stretta di mano.
Parlammo, Tommy chiamò Rosy, e Clay si addormentò subito, con il viso contro il finestrino.
Dormiva, quando attraversammo il ponte.
A casa, per un giorno e una notte, lui e io rimanemmo seduti in cucina. Mio fratello mi raccontò di Penelope e Michael, di tutti noi… di quello che aveva vissuto con Carey. Per due volte fui sul punto di piangere, e una volta credetti di vomitare; ma anche allora lui continuò a raccontare, e mi trasse in salvo. «Matthew, ascolta questo», disse. Mi spiegò come l’aveva sollevata di peso, mi disse che in quel momento lei era tornata la ragazza pallida con i capelli biondi che le scendevano lungo la schiena. Mi rivelò che l’ultima cosa che aveva visto erano state le mollette da bucato. «Adesso tocca a te, Matthew», concluse. «Devi andare a dirglielo. Devi andare a dirlo a papà. Lui non sa che è così che l’ho vista. Lui non sa che lei era così, in quel momento.»
Dopo che ebbe finito, pensai a Penelope, e al materasso, al Surrounds. Se soltanto l’avessimo bruciato quando avremmo dovuto! Dio, pensai a così tante cose. E non c’era da stupirsi. Se ne sarebbe andato, e non sarebbe più tornato. C’era troppo di lui, lì. Il passato pesava troppo. Pensai a Carey e a Abbey Hanley… e a come lei l’aveva definito a Bernborough Park.
Avevamo perso il nostro bel ragazzo.
Quando se ne andò, il giorno dopo, non ci dicemmo granché. Ormai sapete come siamo fatti. Fu soprattutto Clay a parlare, probabilmente perché si era preparato.
A Rory disse: «Mi mancheranno le nostre chiacchierate a cuore aperto», e intorno a lui c’erano ruggine, e fili di ferro. Risero, per lenire il dolore.
Per Henry fu molto semplice.
«Buona fortuna con i numeri del Lotto… so che vincerai.»
E lui, naturalmente, gli fece un mezzo placcaggio.
«Uno a sei», gli rispose.
Quando provò a offrirgli dei soldi un’ultima volta, Clay scosse la testa.
«Dubito che ne avrò mai bisogno.»
E poi Tommy, il piccolo Tommy.
Clay gli mise le mani sulle spalle.
«Tu e lei vi incontrerete al tilacino», gli disse, e fu quella frase a farci quasi crollare… Restavo solo io.
Clay prese tempo.
Passò in mezzo al gruppetto, come spesso fanno i ragazzi. Non è un problema toccarci – spalle, gomiti, nocche, braccia – e si voltò a guardarmi.
Per un attimo sperai mi chiedesse se potevo avvolgergli lo scotch intorno ai piedi. Ma per qualche istante rimase in silenzio. Andò al pianoforte e, senza fare rumore, sollevò il coperchio superiore. Dentro restavano il vestito di lei e i due poemi.
Infilò lentamente una mano, poi mi diede i due volumi.
«Dai, aprili», disse. All’interno c’erano due fogli.
Il primo era la lettera di Waldek.
Il secondo era più recente.
In caso di emergenza
(per esempio, se dovessi rimanere di nuovo a corto di libri)
C’erano il numero e la firma: ck.
Fui quasi sul punto di dirgli che doveva smetterla, dannazione, ma mi batté sul tempo, senza difficoltà.
«Leggi tutto quello che ti dà, ma torna sempre a questi due.» I suoi occhi erano fieri, ardenti. «E un giorno capirai. Andrai a Featherton e dissotterrerai la vecchia MDS, però dovrai prendere bene le misure se non vuoi rischiare di tirar fuori Moon, o il serpente…» La sua voce si ridusse a un sussurro. «Promettimelo, Matthew. Promettimelo.»
E così se ne andò.
Quella sera, tardi.
Lo guardammo attraversare la veranda, il prato e incamminarsi lungo Archer Street, e da quel momento sarebbe scomparso dalle nostre esistenze. A volte scorgevamo un’ombra, o lo vedevamo per le strade del quartiere delle corse… ma sapevamo che non era Clay.
Riguardo agli anni che seguirono, posso dirvi questo.
Tutti noi vivemmo le nostre vite.
Di tanto in tanto arrivava una cartolina da posti in cui doveva aver lavorato – Avignone e Praga, o più tardi Esfahan, in Iran. E naturalmente erano luoghi che avevano dei ponti. La mia preferita era stata spedita dal Pont-du-Gard.
A noi è mancato, ogni minuto di ogni giorno, ma non potevamo non essere noi stessi. Sono trascorsi undici anni, dal giorno in cui papà rimise piede in casa nostra per chiederci se potessimo aiutarlo a costruire un ponte.
Tommy è cresciuto.
È andato all’università… e no, non è veterinario.
È un assistente sociale.
Va al lavoro con un cane che si chiama O (ormai dovreste sapere per che cosa sta), e ha ventiquattro anni. Lavora con bambini tosti, difficili, che però adorano il suo cane. I suoi animali sono vissuti un’eternità o almeno finché non sono morti. Il primo fu il pesce rosso, Agamennon; poi toccò a T, il piccione marciatore, poi a Hector, e infine a Rosy.
Rosy aveva sedici anni quando alla fine non riusciva più a camminare, e la portammo tutti insieme dal veterinario. Che ci crediate o meno, fu Rory a dire: «Credo che abbia tenuto duro… che stesse aspettando, capite?» Guardò il muro e deglutì. Quel cane aveva il nome del cielo roseo dei poemi, in onore di Penelope. «Credo stesse aspettando il ritorno di Clay.»
Solo Achilles è ancora vivo, e sta a Silver.
Quel mulo è immortale.
Tommy vive vicino al museo.
E poi c’è Henry.
Secondo voi, che ne è stato di lui?
Cosa aspettarsi dal fratello numero tre?
È stato il primo di noi a sposarsi, ed è sempre stato sorridente come allora. Naturalmente è entrato nel mercato immobiliare, ma non prima di aver fatto un bel gruzzolo con le scommesse e tutti gli oggetti che aveva collezionato.
Durante una delle sue svendite di libri e musica, era passata per Archer Street una ragazza con un cane. Cleo Fitzpatrick. Per certe persone la vita va così, liscia come l’olio, e Henry fa parte della categoria.
«Ehi!» la chiamò, e all’inizio lei lo ignorò. Indossava una camicetta e un paio di shorts. «Ehi, ragazza con quell’incrocio tra un corgi e uno shih-tzu, o qualunque cosa sia!»
Lei si mise in bocca una gomma da masticare.
«È un cane da pastore australiano, testa di cazzo…» Ma io ero lì, e lo vidi chiaramente. Nei suoi occhi neri come terra. Comprò una copia de L’idiota di Dostoevskij, e tornò la settimana dopo. Si sposarono l’anno seguente.
Rory, per quanto strano possa sembrare, è quello più vicino a papà, e va spesso al ponte. È sempre rude – o ruvido, come diceva qualcuno, tra cui la signora Chilman –, ma gli anni l’hanno smussato un po’. So quanto gli manca Clay.
La nostra vicina se n’era andata da poco, quando lui si trasferì in un’altra zona di periferia: Somerville, una decina di minuti a nord. Ma gli piace tornare qui a farsi una birra, e una risata. Gli piace Claudia, e chiacchierare con lei. Perlopiù, però, siamo io e lui. Parliamo di Clay, di Penny, e ci raccontiamo sempre la stessa storia.
«Le avevano dato sei mesi, centottanta giorni e poco più. Avevano una fottutissima idea di chi gli stava di fronte?»
Come gli altri, adesso sa che cosa accadde nel cortile dietro casa, in quella mattina di sole; sa che nostro padre non riuscì a fare quello che lei gli aveva chiesto, ma che in qualche modo Clay aveva trovato la forza. Sa che cosa successe dopo, con Carey al Surrounds; eppure, inevitabilmente, torniamo sempre a quel momento, a quando lei ci parlò, qui in cucina.
«Che cosa ti disse Clay di quella notte?» mi domanda, e aspetta alcuni istanti per avere la risposta.
«Che tu attizzasti il fuoco nei suoi occhi.»
E Rory sorride ogni volta. «Lo tirai su da quella sedia su cui sei seduto adesso.»
«Lo so. Me lo ricordo.»
E io?
Be’, lo feci.
Mi ci vollero mesi, ma intanto avevo letto i libri di Penelope – le sue colonne portanti di profuga – e aperto la lettera di Waldek. Avevo imparato a memoria il numero di Claudia.
Poi, un martedì, anziché comporlo, andai direttamente a scuola. Lei era nella stessa aula, impegnata a correggere compiti. Bussai, e lei mi vide sulla soglia.
Sorrise. Il sorriso radioso delle persone vive.
«Matthew Dunbar», disse, sollevando lo sguardo su di me. Rimase alla cattedra, e mi disse: «Finalmente».
Come mi aveva chiesto Clay, andai a Silver.
Ci andai molte volte, spesso con Claudia Kirkby.
All’inizio con qualche tentennamento, mio padre e io ci raccontammo delle storie: storie di Clay, come figlio e come fratello… finché non divenne un po’ più facile per entrambi. E poi gli riferii quello che lui mi aveva chiesto di dirgli, riguardo all’ultima volta che aveva visto Penelope… che era tornata la ragazza di un tempo. Papà rimase senza parole.
A un certo punto fui tentato di dirglielo; e quasi lo feci, ma poi mi trattenni.
Adesso lo so perché te ne sei andato.
Ma, come per tante altre cose, possiamo lasciare che venga taciuta.
Il giorno in cui buttarono giù la tribuna di Bernborough Park e sostituirono il vecchio rivestimento rosso della pista, in qualche modo riuscimmo a sbagliare data, e ci perdemmo quel momento poco glorioso.
«Tutti i nostri splendidi ricordi!» esclamò Henry quando arrivammo lì e vedemmo tutto ridotto in pezzi. «Quelle fantastiche scommesse!» E i soprannomi, e i ragazzi alla recinzione. L’odore degli adolescenti non proprio uomini.
Ripensai alle giornate che avevo trascorso lì con Clay, e poi a Rory che lo fermava, alla punizione.
Ma, naturalmente, là ci sono Clay e Carey.
Sono loro quelli che immagino con più nitidezza.
Sono accovacciati, insieme, vicini alla linea del traguardo.
Un altro dei posti a lui sacri, che senza di lui è vuoto.
Ma in cima alla classifica resta lui, il Surrounds.
I Novac hanno lasciato la casa di Archer Street da tempo, ormai, per tornare in campagna. Ma per via delle lungaggini burocratiche, in quel campo non hanno ancora costruito niente; e così, per adesso, appartiene ancora a mio fratello e a Carey. Per me, almeno.
In tutta onestà, devo dire di aver imparato ad amare quel campo, soprattutto quando la mancanza di lui si fa sentire in modo più prepotente. Allora esco sul retro, di solito la sera tardi, e Claudia viene a cercarmi. Mi prende per mano, e andiamo là.
Abbiamo due figlie piccole, e sono bellissime: non conoscono il dolore, né il rimpianto, sono la musica e il colore della vita. Ci credereste? Leggiamo loro brani dell’Iliade e dell’Odissea, e tutte e due stanno imparando a suonare il pianoforte. Sono io che le porto a lezione, e poi ci esercitiamo qui a casa. Ci sediamo insieme davanti ai tasti con la scritta SPOSAMI, e sono io che le osservo, metodico. Mi siedo con un rametto di eucalipto, e resto bloccato quando si fermano per chiedermi: «Ci parli della Sbagliatrice, papà?» E poi, naturalmente: «E di Clay?»
E che altro posso fare, se non abbassare il coperchio della tastiera, mentre andiamo di là ad apparecchiare?
E l’inizio è sempre quello.
«C’era una volta, nella marea del passato dei Dunbar…»
La primogenita si chiama Melissa Penelope.
La sorella Kristin Carey.
E così siamo arrivati a questo punto.
All’ultima storia che posso raccontarvi, prima di lasciarvi in pace. Se devo essere sincero, è anche quella che preferisco. La storia dell’affettuosa Claudia Kirkby.
Ma è anche la storia di mio padre.
E di mio fratello.
E degli altri miei fratelli, e mia.
Vedete, una volta, nella marea del passato dei Dunbar, chiesi a Claudia Kirkby di sposarmi; glielo chiesi regalandole un paio di orecchini e non un anello. Erano due piccole lune d’argento, ma lei le adorò, disse che erano meravigliose. Le scrissi anche una lunga lettera, in cui le raccontavo tutto quello che ricordavo riguardo al nostro primo incontro; e dei libri, e di quanto fosse stata gentile con noi. Le scrissi dei suoi polpacci, e di quella macchia solare al centro della guancia. Gliela lessi sulla porta di casa, e lei si mise a piangere e mi disse di sì… Ma sapeva.
Sapeva che ci sarebbero stati anche dei problemi.
Lo capì dalla mia espressione.
Quando le comunicai che avremmo dovuto aspettare Clay, mi strinse la mano e mi rispose che era giusto, e così passarono gli anni. Passarono, e noi mettemmo al mondo le nostre bambine. Tutto intorno a noi si formava e cambiava e, anche se temevamo che lui non sarebbe mai tornato, aspettandolo credevamo di poterlo riportare a casa. Quando aspetti, inizi a pensare di meritare qualcosa.
Dopo cinque anni, tuttavia, cominciammo a interrogarci.
Parlavamo la sera, in camera nostra, che un tempo era stata di Penny e Michael.
Alla fine prendemmo una decisione, e Claudia mi fece una domanda.
«Perché non al tuo trentesimo compleanno?»
Dissi di sì, e di nuovo passarono gli anni, e lei me ne concesse addirittura uno in più; ma trentuno ci parve il limite. Non arrivavano cartoline da parecchio, e Clay Dunbar poteva essere ovunque… E alla fine mi venne l’idea.
Salii in auto e andai là.
Arrivai a Silver di notte.
Mi sedetti con papà, nella sua cucina.
Come avevano fatto tante volte lui e Clay, bevemmo caffè, e io guardai quel forno, e il display digitale, e rimasi lì, e un po’ urlai e un po’ lo supplicai. Lo fissai, mentre sedeva di fronte a me.
«Devi andare a cercarlo.»
Il giorno dopo, Michael lasciò il Paese.
Prese un aereo per una città, e aspettò.
Ogni mattina usciva all’alba.
Arrivava là all’apertura, e se ne andava con il buio, dopo la chiusura.
Lì nevicava, si gelava, e lui doveva cavarsela con le poche parole d’italiano che aveva imparato. Ammirava il David, e gli Schiavi erano tutto ciò che aveva sognato. Lottavano e si giravano per prendere aria, mentre cercavano di liberarsi dal marmo. Il personale della Galleria ormai lo conosceva, e qualcuno cominciava a chiedersi se fosse svitato. Essendo inverno, i turisti non erano molti, quindi lo notarono già dopo una settimana. A volte gli davano qualcosa per pranzo. Una sera dovettero chiederglielo.
«Oh… sto solo aspettando… Se sono fortunato, forse lui verrà.»
E così accadde.
Ogni giorno, per trentanove giorni di seguito, Michael Dunbar si recò alla galleria, a Firenze. Era incredibile, per lui, poter trascorrere tanto tempo con loro: il David, gli Schiavi, erano di una bellezza oltraggiosa. A volte si appisolava e si appoggiava appena alla pietra, seduto lì accanto. Spesso erano gli addetti alla sicurezza a svegliarlo.
Ma poi, il trentanovesimo giorno, una mano si posò sulla sua spalla, e un uomo si accovacciò sopra di lui. Accanto c’era l’ombra di uno Schiavo, ma le dita erano calde sui suoi vestiti. Il viso era più pallido e segnato, però era lui, il ragazzo. Nonostante avesse ventisette anni, gli parve di tornare a quel momento di tanto tempo prima: Clay e Penelope, il cortile sul retro… perché lo vide com’era allora. Tu sei quello che amava le storie, pensò… e d’un tratto si ritrovò in una cucina, con Clay che dall’oscurità gridava verso la luce, la voce pacata.
Si inginocchiò sul pavimento e disse: «Ciao, papà».
Il giorno delle nozze, non eravamo sicuri che venisse.
Michael Dunbar aveva fatto del suo meglio, ma il nostro era un desiderio disperato, più che una speranza.
Rory mi avrebbe fatto da testimone.
Andammo tutti a comprarci vestito e scarpe eleganti.
C’era anche nostro padre.
La costruzione del ponte non finiva mai.
La cerimonia si sarebbe svolta di sera, e Claudia aveva preso con sé le bambine.
Nel tardo pomeriggio, ci trovammo tutti quanti, dal più vecchio al più giovane: io, Rory, Henry, Tommy. E poco dopo arrivò Michael. Eravamo in Archer Street, già vestiti, ma con le cravatte allentate. Stavamo aspettando, com’era giusto che fosse, in cucina.
In certi momenti ci pareva di sentire dei rumori.
Chi usciva a controllare rientrava.
E ogni volta mormorava: «Niente». Ma poi saltò su Rory, l’ultima speranza. «Quello.»
Disse così.
«Che diavolo è stato?»
Aveva pensato di camminare, ma poi aveva preso treno e autobus. In Poseidon Road era sceso una fermata prima, e aveva sentito il sole caldo, amichevole.
Aveva camminato e si era fermato, appoggiandosi all’aria. E, prima di quanto avesse sperato, o immaginato, si era ritrovato all’imbocco di Archer Street. Nessun senso di sollievo, nessuna paura.
Solo la consapevolezza di essere lì, di avercela fatta.
Come sempre, dovevano esserci i piccioni.
Erano appollaiati sui fili della corrente, quando lui era arrivato nel cortile davanti a casa. E che altro avrebbe potuto fare, se non proseguire?
Lo aveva fatto, e poi si era fermato.
Si era fermato in mezzo al prato, e alle sue spalle, in diagonale, c’era la casa di Carey, dove il filo del tostapane le si era srotolato fino ai piedi. Quasi aveva riso, ricordando la nostra scazzottata lì fuori: la violenza dei ragazzi, di due fratelli. Aveva visto Henry con lui sul tetto, come due ragazzini che aveva conosciuto, e con cui aveva parlato.
Prima di rendersene conto, aveva pronunciato una parola. «Matthew.»
Il mio nome, semplicemente.
Piano, con voce sommessa – ma Rory aveva sentito – e noi, in cucina, ci eravamo alzati.
Non so come spiegarlo, sono senza speranze, Ge-sù Cristo.
Dio, come faccio a raccontarlo nel modo giusto?
Posso solo battere più forte sui tasti, per rendervi la scena.
Prima corremmo tutti nel corridoio, e poi aprimmo la porta a zanzariera scardinandola… e quando fummo fuori, sulla veranda, lo vedemmo. Era giù sul prato, vestito per un matrimonio, con gli occhi colmi di lacrime, ma sorridente. Sì, Clay il sorridente stava sorridendo.
Nessuno gli andò vicino.
Rimanemmo tutti immobili.
Ma poi lo facemmo, e in rapida successione.
Mossi io il primo passo, e da lì ogni cosa fu improvvisamente semplice. «Clay», dissi, e «Clay, è proprio Clay», e mi sentii sorpassare dai miei fratelli; saltarono giù dai gradini, e lo atterrarono sul prato. Una mischia di corpi e risate.
E mi domando che cosa debba aver pensato nostro padre, in lacrime, alla balaustra. Mi domando cosa debba aver visto quando Henry, Tommy e Rory finalmente si rimisero in piedi. Mi domando come sia stato guardare i suoi ragazzi che lo aiutavano a rialzarsi, e lui che si dava una ripulita, e il sottoscritto che percorreva gli ultimi metri per andargli incontro.
«Clay», ripetei, «ehi, Clay…»
Ma non c’era più nulla che potessi dirgli… perché quel ragazzo, che era anche l’uomo di casa, si concesse finalmente di cadere… e io lo tenni tra le mie braccia, come si fa con chi si ama.
«Sei venuto… sei venuto.» E lo strinsi forte, e poi anche gli altri, e tutti noi uomini sorridemmo e piangemmo, piangemmo e sorridemmo. E c’era una cosa che sapevamo da sempre. O almeno, una cosa di cui lui era certo.
Che un Dunbar poteva fare tante cose, ma doveva sempre assicurarsi di tornare a casa.
Il ponte d'argilla
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