Case di carta
E la marea arriva vittoriosa, dopo aver
lottato; perché forse il modo migliore per descrivere Penelope, e
l’inizio della sua nuova vita in questa città, consiste nel dire
quanto fosse lacerata, e sbigottita. Costantemente.
Provava gratitudine nei
confronti del Paese che l’aveva accolta.
E paura, della novità e
del caldo.
E poi, naturalmente,
c’era il senso di colpa.
Lui non sarebbe mai
vissuto cent’anni.
Era stata una tale
egoista, ad andarsene. Egoista e insensibile.
Era arrivata a novembre
e, sebbene non fosse il periodo tipicamente più afoso dell’anno,
potevano capitare una o due settimane di temperature brutali, che
avvertivano che l’estate era vicina. Se c’era una stagione poco
adatta per trasferirsi lì, era quella: una cartina meteorologica
binaria di caldo, umidità e ancora caldo. Persino la gente del
posto sembrava patire.
Come se non bastasse,
era chiaramente un’intrusa. La sua stanza, al campo, apparteneva a
uno squadrone di scarafaggi e, Dio onnipotente, mai in vita sua
aveva visto degli esseri così terrificanti. Erano enormi! E
inesorabili. Si battevano con lei quotidianamente per difendere il
loro territorio.
Non c’era da
sorprendersi se la prima cosa che aveva acquistato, una volta in
città, era stata una bomboletta di Baygon.
E poi un paio di sandali
infradito.
Se non altro, aveva
capito da subito che quelle due cose potevano esserle di grande
aiuto, in questo Paese: calzature merdose e qualche bomboletta di
insetticida. Le davano una mano a tirare avanti. Giorno dopo
giorno, notte dopo notte. Settimana dopo settimana.
Il campo era sepolto nel
tappeto ribelle e turbolento della periferia. Lì le insegnavano la
lingua, partendo dal livello base. A volte camminava per le strade,
fuori, lungo le file di case bizzarre, ciascuna al centro di un
prato gigantesco e tosato dai tagliaerba. Case che sembravano fatte
di carta.
Quando aveva provato a
chiedere all’insegnante di inglese, facendo lo schizzo di un
edificio e indicandogli il foglio di carta, lui era scoppiato a
ridere. «Lo so, lo so!» Ma poi le aveva dato una risposta. «No, non
è carta. È cartongesso.»
«Carton-gesso.»
«Esatto.»
Un’altra cosa da dire, a
proposito del campo e dei tanti piccoli alloggi, è che per molti
aspetti era simile alla città; nonostante lo spazio ristretto, si
allargava in tutte le direzioni.
C’erano persone di ogni
colore.
Che parlavano le lingue
più diverse.
C’erano tipi fieri che
se ne andavano in giro a testa alta, e poi i peggiori portatori di
malattie che si potesse sperare di incontrare. C’era chi sorrideva
sempre, per non mostrare le proprie incertezze. Ad accomunarli era
la tendenza a gravitare, in vario modo, intorno ai connazionali.
L’origine veniva prima di tutto, era ciò che legava le
persone.
A tal proposito,
Penelope aveva trovato qualcuno che arrivava dalla sua parte di
mondo, e addirittura dalla sua città. Spesso erano ospitali, ma
erano famiglie, e il sangue contava più della
cittadinanza.
Ogni tanto veniva
invitata a un compleanno, o a un onomastico, o a un semplice
ritrovo con vodka e pierogi, barszcz e
bigos, ma
curiosamente se ne andava sempre molto presto. Sentire il profumo
di quei cibi nell’aria afosa e soffocante… Erano piatti che
appartenevano a quel luogo quanto lei.
Ma non era questo a
infastidirla.
No, ciò che davvero
temeva era vedere e sentire quelle persone alzarsi e, dopo essersi
schiarite la voce, intonare ancora una volta Sto lat. Cantavano per una
casa che appariva perfetta, come se non avessero avuto nessun
valido motivo per andare via. Si rivolgevano ad amici e famigliari,
come se le parole bastassero a raggiungerli.
*
Ma poi, come ho detto, c’era la gratitudine.
Gratitudine per altri momenti, per esempio l’ultimo dell’anno,
quando aveva attraversato il campo a mezzanotte.
Da qualche parte, lì
vicino, stavano sparando i fuochi d’artificio; li aveva visti tra
gli edifici. Pennacchi rossi e verdi, e acclamazioni lontane, e
dopo poco si era fermata a guardarli.
Aveva
sorriso.
Aveva osservato le opere
disegnate dalla luce, nel cielo, e si era seduta sulla strada di
sassi. Si era afferrata le braccia, e si era cullata,
lievemente. Pie˛kne, aveva pensato, è bellissimo. Era lì che avrebbe
vissuto. Quell’idea l’aveva indotta a chiudere gli occhi, con
veemenza, e a rivolgersi alla terra rovente sotto i suoi
piedi.
«Wstan´», aveva detto. E poi
ancora: «Wstan´,
wstan´».
Alzati.
Ma non si era
mossa.
Non ancora.
Presto però l’avrebbe
fatto.