Pont-du-Gard
Durante i quattro o cinque giorni successivi,
padre e figlio stabilirono una loro routine. Era una cooperazione
cauta, lavoravano fianco a fianco più o meno come pugili durante i
primi round. Nessuno dei due era disposto a rischiare troppo per
paura di essere messo al tappeto. Michael, in particolare,
combatteva in sicurezza. Non voleva più sentirsi dire: «Non sono
venuto per te». Non gli faceva bene.
Sabato, il giorno in cui
la nostalgia di casa lo investì con più prepotenza, percorsero il
fiume scendendo verso valle, e più volte Clay fu tentato di fare
conversazione.
All’inizio gli vennero
in mente solo cose semplici.
L’Assassino aveva un
lavoro?
Da quanto, esattamente,
viveva lì?
E poi altre, più
indagatrici, o affascinanti.
Che cosa diavolo stava
aspettando?
Quando avrebbero
cominciato a costruire?
Stava
temporeggiando?
Si ricordò che Carey non
chiedeva nulla al vecchio McAndrew per timore di essere relegata
nelle stalle. Nel suo caso, però, c’era una storia.
Ed essendo un ragazzo
che aveva amato le storie, era stato più bravo in passato a fare
domande.
Quasi tutte le mattine,
l’Assassino andava in riva al fiume e si fermava lì.
Poteva restarci per
ore.
Poi rientrava in casa e
leggeva, o scriveva su dei fogli.
E Clay usciva per conto
suo.
A volte risaliva il
letto del fiume, e andava ai grandi blocchi di pietra.
Si sedeva su uno di quei
massi, e pensava a tutti. Gli mancavano.
Lunedì si recarono in
città per fare provviste.
Attraversarono il letto
del fiume, in tutta la sua aridità.
Presero l’auto che
sembrava una scatola rossa.
Clay spedì una lettera a
Carey, e un’altra collettiva a casa, che indirizzò a Henry. Mentre
la prima era un resoconto dettagliato della maggior parte di ciò
che gli era successo, la seconda era un tipico messaggio da
fratello a fratelli.
Ciao,
Henry.
Qui tutto
ok.
Tu?
Di’ agli altri che ho
scritto.
Clay
Gli venne in mente che
Henry gli aveva suggerito di procurarsi un cellulare, e in effetti
il consiglio era adatto: più che una lettera, quello era un
sms.
Si era tormentato,
indeciso se mettere o meno l’indirizzo del mittente sulle buste, e
alla fine aveva optato per scriverlo soltanto a Henry. Riguardo al
fatto di dire a Carey dove fosse… Mah… non voleva che si sentisse
in obbligo di rispondergli. O forse temeva che non l’avrebbe
fatto.
Il giovedì cambiò tutto,
o almeno qualcosa. Era sera. Clay si sedette con lui,
volontariamente.
Erano in salotto, e
Michael non disse nulla; si limitò a rivolgergli un’occhiata cauta,
mentre suo figlio prendeva posto sul pavimento, vicino alla
finestra. All’inizio si era messo a leggere l’ultimo dei libri che
gli aveva dato la generosa Claudia Kirkby, ma poi era passato
all’almanacco dei ponti, quello che preferiva. Il titolo non era
molto ispirato, ma del volume era perdutamente innamorato.
I ponti più grandiosi del
mondo.
Per un po’ ebbe qualche
difficoltà a concentrarsi, ma dopo una mezz’ora abbondante le sue
labbra si incurvarono per la prima volta in un sorriso, quando
arrivò alla pagina del ponte che amava di più in
assoluto.
Il
Pont-du-Gard.
Grandioso non era un
aggettivo sufficiente per illustrare la magnificenza di quel ponte,
che fungeva anche da acquedotto.
Costruito dai
romani.
O dal demonio, per chi
ci credeva.
Mentre osservava gli
archi – i sei enormi al livello inferiore, gli undici intermedi, e
i trentacinque superiori – si concesse un sorriso, che andò via via
allargandosi.
Poi se ne accorse, e
riprese il controllo.
C’era mancato
poco.
L’Assassino l’aveva
quasi sorpreso.
Domenica sera trovò Clay
sul letto del fiume, nel punto in cui la strada era interrotta su
entrambi i lati. Mantenne una certa distanza, e gli disse: «Devo
andare via per una decina di giorni».
Aveva un
lavoro.
In miniera.
A sei ore da lì, a
ovest, oltre Featherton, la sua vecchia città.
All’inizio, mentre
parlava, il sole che si avviava a tramontare apparve pigro,
lontano. Le ombre degli alberi si facevano via via più
lunghe.
«Tu puoi andare a casa,
o restare qui.»
Clay si alzò e guardò
l’orizzonte.
Il cielo
sanguinava.
«Clay?»
Il ragazzo si girò, e in
quel momento mostrò il primo accenno di cameratismo, o forse,
semplicemente, un pezzetto di sé; gli rivelò una verità. «A casa
non ci posso andare.» Era troppo presto per fare un tentativo. «Non
posso… non ancora.»
Michael tirò fuori
qualcosa dalla tasca.
Era un opuscolo
immobiliare, con alcune foto del terreno, della casa e di un ponte.
«Coraggio», disse a Clay, «dà un’occhiata.»
Il ponte era bello. Un
semplice cavalletto di traversine da ferrovia e travi di legno, che
un tempo copriva lo spazio in cui si trovavano in quel
momento.
«Era qui?»
Michael annuì. «Come ti
sembra?»
Clay non vide motivo di
mentire. «Mi piace.»
L’Assassino si passò una
mano tra i capelli ondulati. Si strofinò un occhio. «Il fiume l’ha
distrutto… non molto tempo dopo il mio arrivo qui. E da allora non
ha quasi mai piovuto. La siccità va avanti da un po’.»
Clay fece un passo, e
prese un respiro profondo. «Non ne è rimasto niente?»
Michael indicò le poche
tavole conficcate nel terreno.
«Tutto
qui?»
«Tutto
qui.»
Il rosso infuriava
ancora, là fuori, una silenziosa alluvione di sangue.
Tornarono verso
casa.
Di fronte ai gradini,
l’Assassino gli fece una domanda: «È per Matthew?» Gliel’aveva
piazzata davanti, più che rivolgergliela. «Ripeti spesso il suo
nome, nel sonno.» E poi esitò. «Ripeti quelli di tutti, per la
verità, e anche altri. Nomi che non avevo mai
sentito.»
Carey, pensò Clay, ma
Michael disse: «Matador».
Riprovò: «Matador nella
quinta?»
Ma era già tanto
così.
Meglio non tirare troppo
la corda.
Quando Clay gli lanciò
un’occhiata, l’Assassino capì. E tornò alla domanda originale.
«Matthew ti ha detto che non saresti potuto tornare?»
«No, non
esattamente.»
Non serviva
altro.
Michael Dunbar conosceva
le alternative.
«Ti mancheranno, tutti
quanti.»
E Clay sentì una gran
rabbia.
Pensò ai ragazzi, ai
cortili dietro casa, alle mollette per il bucato.
Lo guardò, lo guardò
dentro, e gli chiese: «A te no?»
Presto, molto presto,
intorno alle tre del mattino, notò l’ombra dell’Assassino in piedi
accanto al suo letto. Si domandò se anche nostro padre, come lui,
ricordasse l’ultima volta che si era trovato in quella posizione,
la notte terribile in cui ci aveva abbandonati.
All’inizio lo aveva
scambiato per un intruso, ma poi l’aveva visto bene. Avrebbe
riconosciuto ovunque quelle mani da boia. E poi sentì le parole che
gli rivolse.
«Il
Pont-du-Gard?»
In tono sommesso. Molto
sommesso.
Quindi l’aveva sorpreso
a guardarlo, alla fine.
«È il tuo
preferito?»
Clay deglutì, e poi
annuì, nella stanza buia. «Sì.»
«Ce ne sono
altri?»
«Il ponte di pietra di
Ratisbona. Il Pilgrim’s Progress Road Bridge.»
«Quello a tre
archi.»
«Sì.»
Altri pensieri si
susseguirono, uno dopo l’altro. «Quindi ti piace anche il
Coathanger?»
Il
Coathanger.
Il grande ponte della
città.
Il grande ponte di
casa.
Un tipo d’arco
differente, di metallo, che si elevava sopra la
strada.
«La amo.»
«Perché, è
donna?»
«Per me lo
è.»
«Perché?»
Clay chiuse gli occhi, e
poi li aprì.
Penny,
pensò.
Penelope.
«Perché
sì.»
Davvero doveva
spiegarglielo?
Lentamente, l’Assassino
indietreggiò verso il resto della casa, e gli disse: «Ci vediamo
presto». Ma poi, in un momento di speranza e di sconsideratezza,
aggiunse: «La conosci la leggenda del Pont-du-Gard?»
«Ho bisogno di
dormire.»
Certo che la conosceva,
dannazione.
Il mattino dopo, però,
nella casa vuota, si fermò di colpo appena entrò in cucina e lo
vide. I tratti spessi del carboncino su un foglio.
Lasciò cadere un dito, a
sfiorare quelle linee.
Progetto finale del
ponte: primo schizzo

Pensò a Carey, e agli
archi, e di nuovo fu sorpreso di sentire la sua voce.
«Quel ponte sarà fatto
di te.»