Dispiegamento di forze
Non si era mai ubriacato, e perciò non aveva mai avuto i postumi di una sbornia, ma Clay immaginò che ci si sentisse così.
La sua testa era accanto a lui, la raccolse.
Rimase seduto un momento, poi strisciò giù dal materasso e trovò il telo di plastica pesante sull’erba, lì vicino. Con le ossa stanche, e le mani che gli tremavano, lo usò per rifare il letto, rimboccandolo bene, e poi camminò verso la recinzione – un divisorio bianco che separava obbligatoriamente il campo sportivo, una staccionata senza paletti – e appoggiò la faccia sul legno. Inspirò l’odore dei tetti già roventi.
Per un lungo momento, provò a dimenticare.
L’uomo seduto al tavolo.
Il rumore sommesso dei fratelli, in sottofondo, il tradimento.
Partiva da tanti momenti, il suo ponte. Ma lì, al Surrounds, quella mattina, partiva soprattutto dalla sera precedente.
Torniamo a otto ore prima. Dopo che l’Assassino se ne fu andato, seguirono dieci minuti di silenzio imbarazzante. Per romperlo, Tommy disse: «Gesù, sembrava un morto che cammina». Teneva Hector davanti al petto, sul cuore. Il gatto, una massa di strisce, faceva le fusa.
«Meriterebbe di avere un aspetto ben peggiore», gli risposi.
«Che vestito orripilante», e «Chi se ne frega, io vado al pub», dissero Henry e Rory, uno dopo l’altro. Se ne stavano lì, fusi insieme, sabbia e ruggine mescolati.
Clay, naturalmente, che era famoso per dire tutto senza dire niente, non parlò. Forse aveva già parlato troppo per quella sera. Per un attimo si chiese: Perché adesso? Perché è tornato a casa proprio ora? Ma poi si ricordò della data. Era il 17 febbraio.
Mise la mano ferita in un secchiello con del ghiaccio, e badò a tenere l’altra lontana dall’escoriazione sul viso, per quanto fosse tentato di toccarla. Al tavolo c’eravamo io e lui, due stupidi che non parlavano. Per me era tutto molto chiaro: c’era soltanto un fratello di cui dovevo preoccuparmi, ed era quello che stava seduto di fronte a me.
Ciao, papà. Cristo santo.
Abbassai lo sguardo sul ghiaccio, che si sollevava e si abbassava attorno al suo polso.
Avrai bisogno di un secchio abbastanza grande da contenere tutto il tuo corpo, amico.
Non lo dissi ad alta voce, ma ero sicuro che Clay me l’avesse letto in faccia; d’un tratto non ce la fece più, e mise due dita a grilletto sulla ferita sotto l’occhio. Quel piccolo bastardo che non parlava quasi mai annuì lievemente, prima che la pila di piatti lavati, che svettava eccentrica, collassasse nel lavello.
Ma non interruppe quel momento di stallo, oh no.
Io continuai a fissarlo.
Clay continuò a toccarsi il viso.
Tommy posò Hector a terra, sistemò le stoviglie e poco dopo tornò con il piccione (T osservava appollaiato sulla sua spalla), e uscì come un fulmine per andare a controllare Achilles e Rosy, esiliati entrambi sulla veranda, passando da dietro. Uscendo, badò a chiudere la porta.
Naturalmente poco prima, quando Clay aveva pronunciato quelle due fatidiche parole, noi eravamo rimasti dietro di lui, come testimoni sulla scena di un crimine. Una scena disgustosa. Vedendolo così, sorpreso, livido, avremmo potuto pensare tante cose. Ma ne ricordo soltanto una.
L’abbiamo perso per sempre, mi ero detto.
Ero pronto a risolvere la questione a pugni.
«Hai due minuti», lo avevo avvisato, e l’Assassino aveva annuito, lentamente. Era scivolato contro la sedia, che si era mossa sul pavimento stridendo. «Ok, allora parla. Due minuti passano in fretta, vecchio.»
Vecchio?
L’Assassino aveva posto una domanda, e si era rassegnato alla situazione, nello spazio di un solo respiro. Era un vecchio, un vecchio ricordo, un’idea dimenticata – e, per quanto fosse una persona di mezza età, per noi era bello che morto.
Aveva messo le mani sul tavolo.
E aveva fatto risorgere la voce.
Era uscita a rate, mentre, in imbarazzo, si rivolgeva alla stanza.
«Ho bisogno, anzi no, a dire il vero mi stavo chiedendo…» Non sembrava più lui, a nessuno di noi. Lo ricordavamo un po’ diverso, chi in un modo, chi in un altro. «Sono qui per chiedervi…»
E saremmo stati eternamente grati a Dio di averci dato Rory, che con la solita voce intontita aveva scaricato una risposta veemente ai balbettii timorosi di nostro padre. «Cristo, spara quello che sei venuto a dire, cazzo!»
Ci eravamo fermati.
Tutti quanti. Per un attimo.
Ma poi Rosy aveva abbaiato ancora, e io avevo detto che bisognava far tacere quel maledetto cane, e a un certo punto avevamo sentito queste parole.
«Ok, ascoltate.» Aveva trovato una strada, e l’aveva presa. «Non vi farò perdere altro tempo, e so di non avere nessun diritto, ma sono venuto qui perché adesso vivo lontano, in campagna. C’è un sacco di terra, e c’è un fiume, e sto costruendo un ponte. Ho imparato a mie spese che il fiume può esondare. Si può rimanere bloccati su una sponda o sull’altra, e…» La sua voce era piena di schegge, quasi avesse un paletto in gola. «Avrò bisogno di aiuto per costruirlo, e sono qui per chiedere se qualcuno di voi potesse…»
«No». Avevo risposto io per primo.
Di nuovo, l’Assassino aveva annuito.
«Hai un bel coraggio, cazzo, eh?» Questo era Rory, nel caso non l’aveste indovinato.
«Henry?»
Henry aveva colto la mia imbeccata e aveva conservato la sua affabilità, di fronte a quella richiesta oltraggiosa. «No grazie, amico.»
«Non è tuo amico. Clay?»
Clay aveva fatto no con la testa.
«Tommy?»
«No.»
Uno di noi stava mentendo.
Da lì, era seguito un silenzio tormentato.
Il tavolo era una distesa arida che separava il padre dai figli, e c’era una quantità infernale di briciole di pane tostato. Al centro, una saliera e una pepiera spaiate, un duo di comici. Uno alto, uno grasso.
L’Assassino aveva annuito e se n’era andato.
E, nel farlo, aveva tirato fuori un foglietto, che aveva lasciato in compagnia delle briciole. «Il mio indirizzo. Nel caso cambiaste idea.»
«Vattene, adesso.» Avevo incrociato le braccia. «E lascia qui le sigarette.»
Il biglietto era stato strappato immediatamente.
L’avevo gettato nel cestino della carta accanto al frigo.
Eravamo rimasti seduti, poi ci eravamo alzati e ci eravamo appoggiati alle pareti.
In cucina regnava il silenzio.
Che cosa c’era da dire?
Avevamo fatto una chiacchierata profonda sulla necessità di diventare ancora più uniti, in momenti simili?
Certo che no.
Ci eravamo scambiati qualche frase, e Rory era stato il primo ad andarsene, diretto al pub. Il Naked Arms. Uscendo, aveva messo una mano calda e umida sulla testa di Clay, per un istante soltanto. Al pub probabilmente si sarebbe seduto dove tutti noi c’eravamo seduti una volta – Assassino incluso –, in una serata che non avremmo mai dimenticato.
Poi, Henry era uscito dalla porta sul retro, forse per sistemare dei vecchi libri o LP che aveva recuperato nei mercatini dell’usato.
Tommy l’aveva seguito poco dopo.
Clay e io eravamo rimasti seduti un momento, come dicevo. D’un tratto lui si alzò e, in silenzio, andò in bagno. Si fece una doccia e poi si mise davanti al lavandino. Era sporco di capelli e dentifricio; era il coraggio a tenerlo insieme. Forse non gli serviva altro per dimostrare che grandi cose possono venire dal nulla.
Tuttavia, evitò di guardarsi allo specchio.
Più tardi, tornò nel luogo dove tutto aveva avuto inizio.
Lui e la sua moltitudine di luoghi sacri.
C’era Bernborough Park, naturalmente.
Il materasso al Surrounds.
Il cimitero sulla collina.
Ma per qualche motivo era cominciato tutto lì, anni prima.
E così salì sul tetto di casa.
*
Quella sera uscì dalla porta anteriore, poi girò intorno alla casa, avvicinandosi a quella della signora Chilman. Salì sulla recinzione, da lì sul contatore e sulle tegole. Come sua abitudine, si sedette più o meno al centro fondendosi con l’ambiente circostante, la cosa che faceva più spesso da quando era cresciuto. All’inizio si arrampicava perlopiù di giorno, ma adesso preferiva che i passanti non lo vedessero. Solo se qualcun altro ci andava con lui si metteva sul colmo o sul bordo.
Dall’altra parte della strada, in diagonale, c’era l’abitazione di Carey Novac. Il suo sguardo era rivolto là.
Il civico 11.
Mattoni marroni. Finestre gialle.
Clay sapeva che in quel momento stava leggendo Il cavatore.
Si prese un momento per osservare le sagome al di là dei vetri, ma distolse rapidamente gli occhi. Per quanto amasse vederla anche solo di sfuggita, non era per Carey che saliva sul tetto. Aveva cominciato ad andare a sedersi lassù molto prima che lei si trasferisse in Archer Street.
Si spostò una decina di tegole più a sinistra, per osservare la città in tutta la sua lunghezza. Si era tirata fuori dall’abisso in cui era sprofondata, grande, larga, illuminata dai lampioni. Lui la inspirò, prendendo una profonda boccata d’aria.
«Ciao, città.»
A volte gli piaceva parlarle. Quando lo faceva, era come se la sensazione di solitudine che lo perseguitava diminuisse, e al tempo stesso aumentasse.
Doveva essere passata mezz’ora, quando Carey uscì un attimo. Una mano sulla ringhiera, sollevò l’altra lentamente.
Ciao, Clay.
Ciao, Carey.
E poi rientrò.
La giornata sarebbe cominciata a un’ora infame, per lei, come sempre. In sella alla sua bicicletta, avrebbe attraversato il prato alle quattro meno un quarto diretta alle Scuderie McAndrew, a Royal Hennessey, dove andava ad allenarsi in pista.
Verso la fine, Henry salì sul tetto direttamente dal garage, con una birra e un sacchetto di noccioline. Si sedette sul bordo, vicino a un numero di Playboy nascosto nella grondaia; in copertina c’era una moribonda Miss Gennaio. Chiamò Clay con un cenno e, quando lui lo raggiunse, gli offrì le noccioline e la birra che trasudava condensa.
«No, grazie.»
«Allora sa parlare!» Henry gli diede una pacca sulla schiena. «Sono già due volte in tre ore, questa è una serata che merita di entrare nei libri di storia. Domani sarà meglio che vada giù all’edicola a comprare un altro biglietto della lotteria.»
In silenzio, Clay continuò a guardare la città.
Il compost di grattacieli e sobborghi.
Guardò anche suo fratello, per un istante soltanto, e la sicurezza con cui prendeva un sorso di birra dopo l’altro. Gli piaceva l’idea del biglietto della lotteria.
I numeri di Henry andavano dall’uno al sei.
Più tardi, il fratello maggiore indicò la strada da cui veniva Rory, affaticato, con una cassetta delle lettere in spalla, il palo di legno che strisciava per terra dietro di lui; la scaraventò nel nostro prato, trionfante. «Ohi, Henry, lanciami una nocciolina, cazzetto moscio!» Ci pensò su un momento, ma si era scordato ciò che stava per dire. Doveva essere divertente, però, una di quelle cose che fanno scompisciare, perché rideva mentre andava verso la veranda. Fece i gradini e si distese rumorosamente sulla pedana di legno.
«Meglio andare a recuperarlo», disse Henry con un sospiro, e Clay lo seguì verso l’altro lato del tetto, dove aveva appoggiato una scala. Non guardò in direzione del Surrounds né dello sfondo immenso di tetti spioventi. No, vedeva soltanto il cortile, e Rosy che correva intorno allo stendino. Achilles ruminava, sotto la luce della luna.
Quanto a Rory, quella tonnellata ubriaca, in qualche modo riuscirono a portarlo a letto.
«Lurido bastardo», commentò Henry. «Si sarà scolato venti boccali.»
Non avevano mai visto Hector muoversi così in fretta. Il suo sguardo allarmato era impagabile, mentre balzava da un materasso all’altro, per poi infilare la porta. Sull’altro letto, Tommy dormiva addossato al muro.
In camera loro, più tardi, molto più tardi (era l’una e trentanove minuti, secondo la radiosveglia di Henry, anch’essa rimediata a un mercatino dell’usato), Clay era in piedi, la schiena rivolta verso la finestra aperta. Poco prima, Henry si era seduto sul pavimento a scrivere in fretta e furia un tema per la scuola, ma in quel momento era immobile da una ventina di minuti, sdraiato sopra le lenzuola. Clay pensò che fosse l’occasione giusta.
Adesso.
Si morse il labbro, con forza.
Uscì nel corridoio, diretto in cucina.
Le assi del pavimento non fecero il minimo rumore e, prima di quanto si fosse aspettato, si ritrovò accanto al frigorifero, la mano infilata nel cestino della carta tra i giornali vecchi.
Dal nulla, la luce.
Gesù!
Bianca, pesante, lo colpì agli occhi con la violenza di un hooligan. Alzò le mani, mentre veniva spenta di nuovo, ma il dolore pulsante non passò. Nell’oscurità che aveva nuovamente sommerso tutto quanto c’era Tommy; era lì, in mutande, con Hector al suo fianco. Il gatto era un’ombra in movimento, gli occhi scioccati per via della luce.
«Clay?» Tommy andò verso la porta che dava sul retro. Biascicava, mezzo addormentato, e intanto camminava. «’Ogna da’ ’giare ’chilles.» Al secondo tentativo, riuscì quasi a decodificare la frase. «Bisogna dare da mangiare ad Achilles.»
Clay lo afferrò per le braccia e lo girò, restando poi a guardarlo mentre camminava lentamente per il corridoio. Si chinò addirittura ad accarezzare il micio, scatenando qualche fusa. Per un attimo si aspettò che Rosy si mettesse ad abbaiare, o che Achilles ragliasse, ma non accadde, e alla fine si chinò sulla cassetta.
Niente.
Anche quando decise di rischiare, e aprì il frigo – di una fessura appena, giusto per avere un po’ di luce – non riuscì a trovare nemmeno un pezzo di quel foglietto assassino. Vi lascio immaginare lo choc, quando tornò in camera e lo vide sul suo letto, ricomposto con dello scotch.
Il ponte d'argilla
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