Campionati nazionali e anniversario
Mentre li guardiamo andare là – al Surrounds, per l’ultima volta –, il passato mi viene vicino. Perché molto, di quel periodo, avrebbe contribuito a condurli lì. Avrebbe contribuito a ogni singolo passo.
C’erano stati i campionati cittadini e i regionali.
C’era stato l’anniversario, e c’erano stati i campionati nazionali.
C’erano stati i quadrupedi di Tommy.
A febbraio del nuovo anno, c’era stato Clay, con una fastidiosa ferita (un ragazzo con i vetri rotti nei piedi), e una promessa, più simile forse a un avvertimento.
«Vinco i nazionali e andiamo a prenderlo, ok?»
Naturalmente, parlava di Achilles.
Potrei seguire qualunque ordine, qui, sotto molti aspetti, ma mi sembra corretto cominciare da lì, e farvi convergere tutto il resto.
Partirò da ciò che era successo in occasione dell’anniversario.
Il primo della morte di Penelope.
Quel giorno di marzo, ci eravamo svegliati presto tutti quanti. Niente lavoro e niente scuola, e alle sette eravamo già al cimitero; eravamo saliti alle tombe. Avevamo deposto delle margherite davanti alla sua lapide, e Tommy aveva cercato nostro padre. Gli avevo detto che era meglio scordarsi di incontrarlo.
Alle otto, avevamo attaccato con le pulizie; la casa era lercia, occorreva essere spietati. Avevamo gettato fuori vestiti e lenzuola. Avevamo eliminato cianfrusaglie e altre cazzate, ma avevamo tenuto i suoi libri e le mensole. I libri erano sacri, lo sapevamo.
A un certo punto, però, ci eravamo fermati e ci eravamo seduti sui bordi del letto. Io avevo in mano l’Iliade e l’Odissea.
«Coraggio», aveva detto Henry, «leggi qualcosa.»
L’Odissea, libro XII.
«Dunque, poi ch’ebbe i rivi lasciati del fiume Oceàno, / corse la negra nave, sui flutti del mare infinito, / […] dove son le contrade e le case / d’Aurora che al mattino si leva, donde anche il Sol sorge.»
Persino Rory era rimasto in silenzio, e si era fermato con noi.
Le parole erano andate avanti a fatica, le pagine si erano susseguite; e noi, lì in casa, ci eravamo sentiti alla deriva.
Quella stanza si era messa a galleggiare lungo Archer Street.
Nel frattempo, Clay non gareggiava più a piedi nudi, ma non indossava neppure le scarpe.
In allenamento, avevamo conservato la nostra semplicità.
Andavamo a correre la mattina presto.
I quattrocento a Bernborough.
La sera, guardavamo i film.
Gli anni spezzati – Gesù, che finale!
Momenti di gloria.
Rory e Henry si lagnavano, dicendo che erano entrambi noiosissimi, ma alla fine capitavano sempre lì; e io notavo i loro sguardi presi.
Il giovedì prima dei campionati cittadini c’era stato un problema, appena a due giorni dalle gare, perché i ragazzi si erano ubriacati, a Bernborough; c’erano vetri rotti sparsi per tutta la pista. Clay non li aveva nemmeno visti, e non si era accorto del sangue. Dopo, avevamo impiegato ore a estrargli i frammenti dalla carne. E nel farlo mi era tornata in mente una cosa importante: la scena di un documentario (che avevamo ancora a casa).
I momenti migliori e i peggiori delle Olimpiadi.
Ci eravamo radunati di nuovo tutti in salotto, dove avevo tirato fuori il vecchio video della corsa tragicamente famosa disputatasi alle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles: ancora gli anni Ottanta. Forse sapete a quale mi riferisco. Donne. I tremila metri.
Si dà il caso che l’atleta vincitrice (la magnifica e onesta romena Maricica Puica˘) non fosse molto famosa, su quella distanza, ma due delle sue avversarie sì: Mary Decker e Zola Budd. Avevamo guardato tutti, nel salotto buio – pietrificati, in particolare Clay –, mentre la controversa Budd veniva accusata di aver fatto lo sgambetto alla Decker nella mischia sul rettilineo dello stadio. (Naturalmente non aveva fatto nulla del genere.)
Ma, cosa più importante.
Clay aveva visto.
Aveva visto quello che io speravo vedesse.
«Metti in pausa… svelto», mi aveva detto, e poi aveva osservato meglio le gambe di Zola Budd, mentre correva. «Quello è… ha del nastro adesivo sotto i piedi?»
Il giorno dell’anniversario, le ferite erano ormai in via di guarigione e lo scotch era diventato una buona abitudine. Mentre concludevo la lettura, nella camera di Penny e Michael, si stava massaggiando i piedi, verso l’interno e verso l’esterno. Le piante erano coperte di calli, ma curate.
Alla fine, i vestiti dei nostri genitori erano spariti; avevamo tenuto un solo capo. L’avevo portato nel corridoio e gli avevamo trovato il posto perfetto.
«Qui», avevo detto a Rory, sollevando il coperchio della cassa del pianoforte.
«Ehi, guardate!» aveva esclamato Henry. «Un pacchetto di sigarette.»
Prima avevo posato i due libri sul fondo, e poi il vestito di lana. Appartenevano temporaneamente al piano.
«Svelti!» aveva aggiunto Rory. «Mettete dentro Hector!» Ma nemmeno lui aveva trovato la forza di farlo.
Con delicatezza, aveva toccato la tasca e il bottone, all’interno; non aveva mai voluto ricucirlo.
Nei due mesi precedenti, gennaio e febbraio, c’era stata qualche difficoltà, me ne rendo conto. Ma erano stati bei momenti, grandiosi, per esempio per Tommy e i suoi animali.
Adoravamo le buffonate di Agamennon, il cosiddetto «sire di genti»; ogni tanto ci mettevamo seduti e lo guardavamo dare testate alla boccia di vetro.
«Una… due… tre», contavamo, e a quaranta restava solo Rory.
«Non hai niente di meglio da fare?» gli chiedevo.
«No, niente.»
Era già lì lì per essere espulso, ma io ci tentavo comunque. «Compiti fatti?»
«Lo sappiamo tutti che non servono a nulla, Matthew.» Era meravigliato dalla resistenza del pesce rosso. «Questo è il migliore di tutti, dannazione.»
Naturalmente, Hector continuava a essere Hector, e per tutta l’estate era andato avanti a fare le fusa e a graffiare palle, oltre a osservarci in bagno dalla cassetta del water.
«Ohi, Tommy!» dicevo, spesso. «Sto cercando di farmi una doccia!»
Il gatto se ne stava seduto come un miraggio, in mezzo al vapore che invadeva la stanza. Mi fissava, e sembrava sorridermi compiaciuto.
E io sto cercando di farmi la sauna!
Si leccava le zampe d’asfalto, schioccava le labbra nere come pneumatici.
Telemachus (che avevamo già abbreviato in T) entrava e usciva dalla gabbia. Solo una volta il troiano aveva provato a dargli una zampata, ma davanti al «No» di Tommy si era rimesso a dormire. Probabilmente aveva sognato il vapore del bagno.
Poi c’era Rosy, che correva senza sosta ma, da quando Henry le aveva portato una poltrona sacco rimediata a uno sgombero eseguito dal comune (teneva sempre gli occhi aperti, pronto ad approfittare di certe occasioni), era uno spasso guardarla mentre se la portava in giro. Se si sdraiava sul serio, preferiva stare al sole; la afferrava e la trascinava, seguendo il sentiero di luce. Poi scavava per ricavarsi uno spazio comodo, con un unico risultato possibile.
«Ehi, Tommy! Tommy, vieni a vedere!»
Il giardino dietro casa era coperto di neve: le palline di polistirolo contenute nella poltrona. Era la giornata in assoluto più umida dall’inizio dell’estate… E Rory aveva lanciato un’occhiata a Henry.
«Giuro che sei un dannato genio.»
«Eh?»
«Mi stai prendendo in giro? Per aver portato a casa quella poltrona.»
«Non sapevo che il cane l’avrebbe distrutta. La colpa è di Tommy… e comunque…» Era sparito dentro casa, per poi tornare con l’aspirapolvere.
«Cosa fai? Non puoi usarlo per questa roba!»
«Perché no?»
«Non lo so… finirai per romperlo.»
«Sei preoccupato per l’aspirapolvere, Rory?» Questo ero io. «Non sapresti nemmeno trovare il pulsante per accenderlo.»
«Già.»
«Chiudi il becco, Henry.»
«E di sicuro non sai come si usa.»
«Chiudi il becco, Matthew.»
Eravamo rimasti lì a guardare Henry, mentre finiva di pulire. Rosy saltava in avanti, e di lato, abbaiando, e la signora Chilman, con un ghigno stampato in faccia, stava dietro alla recinzione. In punta di piedi, sopra una latta di pittura.
«Voi Dunbar», aveva commentato.
Una delle parti migliori dell’anniversario era stata il cambio delle stanze, avvenuto dopo aver spostato i suoi libri e il suo vestito all’interno del pianoforte.
Come prima cosa, avevamo smontato i letti a castello.
Potevano essere utilizzati come letti singoli separati e, per quanto non morissi dalla voglia di farlo, ero stato io a trasferirmi nella camera padronale (tutti gli altri si erano rifiutati), dove però mi ero portato il mio vecchio letto. Mai e poi mai avrei dormito nel loro. Prima, però, avevamo deciso che era giunto il momento di cambiare qualcosa. Henry e Rory si sarebbero dovuti dividere.
Henry: «Finalmente! Era tutta la vita che aspettavo!»
Rory: «Tu aspettavi?… Bella liberazione! Prendi la tua roba e leva le tende.»
«Io devo prendere la mia roba? Stai scherzando?» Gli aveva dato uno spintone. «Io non me ne vado.»
«Be’, nemmeno io me ne vado.»
«Oh, smettetela, tutti e due», ero intervenuto. «Vorrei potermi sbarazzare di entrambi, cazzo, ma non posso, quindi ecco che cosa faremo. Lancerò questa moneta. Due volte. La prima per stabilire chi se ne va.»
«Sì, ma lui ha più…»
«Non m’interessa. Chi vince resta, chi perde si trasferisce. Rory, scegli.»
«Testa.»
La moneta era volata in alto, aveva colpito il soffitto.
Era rimbalzata sulla moquette, atterrando poi su un calzino.
Croce.
«Merda!»
«Ah ah, che sfiga, amico!»
«Ha colpito il soffitto, non vale!»
Mi ero voltato verso di lui.
Rory aveva insistito. «Ha colpito il fottutissimo soffitto!»
«Rory, taci. Ora, Henry… lancerò una seconda volta. Testa, Tommy dorme con te, croce, dormi con Clay.»
Croce di nuovo, e le prime parole di Henry, quando Clay si era trasferito da lui, erano state: «Tieni, dà un’occhiata…» E gli aveva gettato quel vecchio numero di Playboy con Miss Gennaio. Rory, invece, aveva fatto amicizia con Tommy.
«Fa’ sparire quel gatto dal mio dannatissimo letto, testa di cazzo.»
Dal tuo letto?
Tipico di Hector.
Sempre in quei mesi, intorno alla metà di febbraio, quando Clay aveva partecipato ai campionati regionali al campo di atletica ES Marks – dove la tribuna era un gigante di cemento – avevamo perfezionato l’arte di avvolgergli i piedi con il nastro adesivo. Era diventato una sorta di rituale; la nostra versione delle battute di quei due film: «Che cos’hai nelle gambe?» o: «Da dove viene allora la forza?… Da dentro».
Mi accovacciavo, sotto di lui.
Lentamente, srotolavo il nastro.
Una striscia al centro.
Un’altra a formare una croce, prima delle dita.
Cominciava come un crocifisso, ma il risultato era un’altra cosa, come una lettera dell’alfabeto perduta da tempo; alcuni margini giravano sulla parte superiore.
Quando avevano annunciato i quattrocento metri, ero andato con lui alla zona di raccolta; era una giornata calda e umida, l’aria immobile. Mentre camminavamo, aveva pensato ad Abrahams, e al tizio religioso, Eric Liddell. Aveva pensato a una donna sudafricana minuta e magrissima, che si era messa il nastro adesivo sui piedi, come lui.
«Ci vediamo dopo», gli avevo detto, e lui mi aveva risposto, lì, con la molletta nella tasca dei pantaloncini: «Ehi, Matthew…» E poi, soltanto: «Grazie».
Aveva corso come un dannato guerriero.
Era davvero veloce come Achille.
Alla fine, verso sera, il giorno del primo anniversario, Rory era tornato in sé. E aveva proposto: «Bruciamo il letto».
Insieme, avevamo preso la decisione.
Eravamo seduti al tavolo della cucina.
Ma in realtà non c’era un bel nulla da decidere.
Forse è una verità universale, quando si tratta di ragazzi e fuoco; è un po’ come l’abitudine di lanciare sassi. Li prendiamo e miriamo a qualunque cosa. Persino io, che andavo ormai per i diciannove.
E che teoricamente ero quello maturo.
Se trasferirmi nella camera padronale era quello che avrebbe fatto un adulto, bruciare il letto era infantile, e avevo risolto così (trovo adatto ricorrere a un’espressione relativa al mondo delle corse): avevo scommesso su due cavalli.
All’inizio, non è che avessimo parlato granché riguardo al da farsi.
Clay e Henry avrebbero preso il materasso.
Rory e io la base.
Tommy la trementina e i fiammiferi.
L’avevamo portato fuori dalla cucina, nel cortile sul retro, e l’avevamo gettato al di là della recinzione. Più o meno nel punto in cui Penelope, tanti anni prima, aveva incontrato City Special.
Poi eravamo passati dall’altra parte. «Ok», avevo detto.
Faceva caldo, ma si era levata una lieve brezza.
Per un po’ eravamo rimasti lì con le mani in tasca.
Clay stringeva una molletta da bucato…
Avevamo rimesso il materasso sulla base, ed eravamo andati a piedi al Surrounds. La scuderia era stanca e inclinata. Il prato era irregolare, a chiazze.
Presto, avevamo visto in lontananza una vecchia lavatrice.
E poi un televisore a pezzi, senza vita.
«Ecco», avevo detto.
Avevo indicato un punto, vicino alla metà ma più verso casa nostra, e vi avevamo trasportato il letto di mamma e papà. Due di noi erano in piedi, gli altri tre accovacciati. Clay si era messo da un lato.
«Tira vento, eh, Matthew?» mi aveva chiesto Henry.
«Probabile.»
«Soffia da ovest?» Diventava ogni minuto più forte. «Potremmo dar fuoco al campo intero.»
«Ancora meglio!» aveva urlato Rory e, mentre cominciavo ad ammonirlo, era stato Clay a tagliare ogni cosa, con le sue parole: il campo, il prato, il televisore. La carcassa della lavatrice malconcia. La sua voce diretta verso un punto lontano.
«No.»
«Cosa?»
Lo avevamo domandato tutti insieme, e il vento aveva preso a soffiare ancora più forte.
«Che hai detto, Clay?»
Sembrava infreddolito, nel campo caldo. I capelli corti e scuri gli stavano piatti sulla testa, e quel fuoco dentro di lui ardeva; lo aveva ripetuto, piano.
Un fermo e definitivo: «No».
E avevamo capito.
Avremmo lasciato tutto così com’era. Avremmo lasciato che quell’affare trovasse la sua morte lì, o almeno era ciò che credevamo: perché, come avemmo potuto prevederlo?
Che Clay sarebbe tornato lì, per sdraiarvisi?
Che avrebbe stretto la molletta fino a imprimersi il segno nella mano?
La prima volta era stata alla viglia dei campionati nazionali, quando ci eravamo seduti per un po’ in cucina, lui e io. E Clay aveva fatto un’affermazione, nuda e cruda.
Avrebbe vinto i campionati nazionali e poi sarebbe andato a prendere Achilles.
Aveva i duecento dollari… probabilmente i risparmi di una vita.
Non aveva nemmeno aspettato di sentire la mia risposta.
Invece, era uscito a fare una corsetta (e a dare qualche carota al mulo), e poi era tornato sul tetto.
Più tardi, parecchio più tardi, mentre noi eravamo a letto, si era alzato, aveva preso una molletta nuova di zecca, aveva scavalcato la recinzione e attraversato il viottolo. Era buio e non c’era la luna, ma aveva trovato la strada senza problemi.
Era andato là e vi si era sdraiato sopra.
Sul letto, in mezzo all’oscurità.
Si era raggomitolato come un bimbo.
Era rimasto disteso così, al buio, e aveva sognato, e non gliene importava un accidente della vittoria, né dei campionati nazionali. No, aveva solo parlato con un altro ragazzo che veniva da una piccola città di campagna, e con una donna che aveva attraversato gli oceani.
«Mi dispiace», aveva detto a tutti e due. «Mi dispiace tanto, tanto, tanto!» La molletta era serrata nel pugno, e alla fine aveva ripetuto loro queste parole: «Vi racconterò la storia di come vi ho portato Achilles».
Il mulo non era mai stato per Tommy.
Il ponte d'argilla
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