Carey e Clay e Matador nella quinta
Non avrebbe mai scordato la prima volta che
l’aveva vista in Archer Street, o meglio, la prima volta che lei
aveva alzato lo sguardo e aveva visto lui.
Erano i primi di
dicembre.
Aveva viaggiato sette
ore dalla campagna con sua madre e suo padre, ed erano arrivati nel
tardo pomeriggio. Dietro di loro veniva il furgone di una ditta di
traslochi, e subito si erano messi a trasportare scatole e
scatoloni, mobili ed elettrodomestici vari, prima sulla veranda e
poi dentro casa. Avevano anche delle selle, briglie e staffe;
l’attrezzatura ippica di suo padre. Una volta era stato un fantino,
veniva da una famiglia di fantini, e come lui anche i figli
maggiori; lavoravano in città dai nomi assurdi.
Erano lì da quindici
minuti buoni, quando la ragazza si era fermata al centro del prato.
Aveva una scatola sotto un braccio, sotto l’altro il tostapane, e
durante il tragitto il filo si era srotolato e penzolava fino alle
scarpe.
«Ehi», aveva detto,
indicando con nonchalance la casa dall’altro lato della strada.
«C’è un ragazzo, là, sul tetto.»
Un anno e qualche mese
dopo, un sabato sera, arrivò al Surrounds. Ad annunciarla fu il
fruscio dei suoi passi.
«Ehi,
Clay.»
Clay sentì la sua bocca,
il suo sangue, il calore, il cuore. Tutto in un unico
respiro.
«Ciao,
Carey.»
Erano le nove e mezzo,
più o meno, e l’aveva aspettata sul materasso.
C’erano anche le falene.
Una luna.
Lui era sdraiato,
supino.
La ragazza si fermò un
momento sul bordo del materasso, posò a terra qualcosa, poi si
distese sul fianco, una gamba adagiata mollemente su di lui. Il
prurito castano ramato dei suoi capelli gli solleticò la gola, e
gli piacque come sempre. Avvertì che aveva notato l’escoriazione
sulla guancia, ma sapeva che era meglio non chiedergli nulla, e non
controllare se avesse altre ferite.
Eppure, non poté evitare
di commentare.
«Tu e quegli altri», gli
disse, e gli sfiorò la pelle graffiata. Aspettò che fosse lui a
parlare.
«Il libro ti sta
piacendo?» Le parole sembrarono vagamente pesanti, all’inizio,
quasi fossero state tirate su con una gru. «È ancora bello alla
terza lettura?»
«È persino meglio… Rory
non te l’ha detto?»
Si sforzò di ricordare
se suo fratello gli avesse detto qualcosa di simile.
«L’ho visto per strada»,
continuò lei, «qualche giorno fa. Penso appena prima
di…»
Clay stava per mettersi
seduto, ma poi si fermò. «Prima di… cosa?»
Lei sapeva.
Sapeva che era tornato a
casa.
Per il momento Clay
ignorò quella frase, preferì pensare a Il cavatore, alla ricevuta
vecchia e sbiadita che veniva usata come segnalibro, la puntata su
Matador nella quinta corsa. «Comunque, dove sei arrivata? È già
andato a lavorare a Roma?»
«Anche a
Bologna.»
«Sei stata veloce. Sei
ancora innamorata del suo naso rotto?»
«Oh sì, sai che non
posso farci niente.»
Clay le rivolse un largo
sorriso, breve. «Nemmeno io.»
A Carey piaceva che
Michelangelo avesse riportato una frattura al naso da adolescente
per aver fatto il saputello; serviva a ricordare che era umano. Era
un distintivo di imperfezione.
Clay aveva un motivo più
personale.
Sapeva di un altro naso
rotto.
All’epoca, pochi giorni
dopo l’arrivo di Carey, Clay era sulla veranda davanti a casa, e
stava mangiando del pane tostato, il piatto appoggiato sulla
balaustra. Aveva appena finito, quando lei aveva attraversato la
strada, con le maniche della camicia di flanella arrotolate fino ai
gomiti e un paio di jeans semidistrutti. L’ultimo frammento di sole
alle sue spalle.
Il bagliore degli
avambracci.
L’angolazione del
viso.
Persino i denti, che non
erano né bianchissimi né perfettamente dritti, avevano un non so
che; erano come vetri di mare erosi al punto da diventare lisci,
perché durante il sonno li digrignava.
All’inizio non era
nemmeno sicura che lui l’avesse vista, ma poi era sceso timidamente
dai gradini, con il piatto in mano.
Da quella distanza
ravvicinata ma circospetta, l’aveva osservato con interesse, con
allegra curiosità.
La prima parola in
assoluto che le aveva rivolto era stata: «Scusa».
L’aveva detta guardando
in basso, verso il piatto.
Dopo un silenzio che non
aveva creato nessun imbarazzo, forse perché era abituale, Carey
parlò ancora. Con il mento gli toccò la clavicola, costringendolo a
pensare a quello che era accaduto.
«Quindi è tornato…»
disse.
Le loro voci non erano
mai sussurri, lì; erano semplicemente pacate, amichevoli, non si
sentivano minacciate. «Me l’ha raccontato Matthew»,
confessò.
Clay avvertì il dolore
di quelle parole nel graffio.
«L’hai
visto?»
Carey annuì appena,
contro il suo collo, e si affrettò a rassicurarlo. «Mentre venivo
da voi, giovedì sera, stava portando fuori la spazzatura. Non è
facile evitare i fratelli Dunbar, sai?»
In quel momento, Clay
sarebbe potuto crollare.
Il cognome Dunbar… la
partenza ormai prossima.
«Dev’essere stata dura.
Vedere…» Si corresse. «Vederlo.»
«Ci sono cose più
toste.»
Sì, c’erano, e lo
sapevano entrambi.
«Matthew ha detto
qualcosa a proposito di un ponte…»
Aveva ragione, gliene
avevo parlato. Era una delle cose che più mi turbavano di Carey
Novac: non potevi fare a meno di confidarle più di quanto avresti
dovuto.
Di nuovo silenzio. Una
falena girava sopra di loro.
Quando Carey parlò
ancora, gli stava più vicina, e Clay sentì le parole esatte, quasi
gliele stesse posando sulla gola. «Vai a costruire un ponte,
Clay?»
Quella falena non se ne
voleva andare.
«Perché mi chiedi
scusa?» gli aveva domandato lei, nel giardino davanti a casa, tanto
tempo prima.
La strada si era fatta
buia.
«Oh, sai, sarei dovuto
venire ad aiutarti a disfare i bagagli, l’altro giorno. Invece me
ne sono rimasto seduto là.»
«Sul
tetto?»
Già gli
piaceva.
Gli piacevano le sue
lentiggini.
Come erano distribuite
sul suo viso.
Le notavi solo
osservandola con attenzione.
Clay navigava verso un
posto dove nostro padre non c’era.
«Ehi», disse,
guardandola. «Stasera mi mostrerai finalmente le…»
Lei si raggomitolò
ancora di più. «Non parlarmi così. Comportati da gentiluomo, santo
Dio.»
«Le dritte, non stavo
per dire…» Le parole gli morirono sulle labbra, e faceva parte del
gioco, ogni volta che si trovavano lì. Non aveva importanza se il
sabato sera era il momento peggiore per chiedere dritte sulle
scommesse, considerando che tutte le corse più importanti si erano
svolte – ed erano state vinte – nel pomeriggio. L’altra, quella
meno prestigiosa, era di mercoledì, ma come ho detto era solo una
domanda di rito. «Che si dice giù alla pista?»
Carey fece un mezzo
sorriso, felice di dargli corda. «Oh, certo, ho avuto qualche
dritta. Dritte troppo grosse, per te.» Con le dita gli toccò la
clavicola. «Matador nella quinta.»
Clay sapeva che,
nonostante il tono allegro, era vicina alle lacrime; la strinse un
pochino di più… e Carey sfruttò quel movimento per scivolare in
basso, per appoggiargli la testa sul petto.
Il cuore di Clay era
uscito dal cancello che lo teneva rinchiuso.
Si domandò fino a che
punto lei riuscisse a sentire quanto forte stava
battendo.
Sul prato, avevano
parlato. Lei era passata ai dati statistici.
«Quanti anni
hai?»
«Quasi
quindici.»
«Sì? Io quasi sedici.»
Si era avvicinata, e aveva indicato con un piccolo cenno il tetto.
«Perché non sei là sopra, stasera?»
Il cuore di lui aveva
accelerato… Carey gli aveva sempre fatto quell’effetto, ma senza
dargli fastidio. «Matthew mi ha detto di prendermi un giorno di
pausa. Non fa che urlarmi addosso, perché salgo
lassù.»
«Matthew?»
«Forse l’hai già visto.
È il più vecchio. È bravo a dire Gesù Cristo.» E a quel punto Clay
aveva sorriso, e lei aveva colto l’opportunità al
volo.
«Ma perché ci
vai?»
«Oh, be’…» Aveva pensato
al modo più efficace per spiegarglielo. «Si vede lontano, da
lassù.»
«Posso venirci anch’io,
una volta?»
La sua richiesta lo
aveva scioccato, ma non era riuscito a non scherzare. «Non lo so…
non è facile arrivarci.»
Carey aveva riso,
abboccando. «Stronzate. Se ci sali tu, posso salirci
anch’io.»
«Stronzate?»
Avevano fatto tutti e
due un mezzo sorriso.
«Prometto di non
distrarti.» Poi però le era venuta un’idea. «Se mi lasci salire,
porto il binocolo.»
Era sempre
previdente.
Quando era là con lui,
il Surrounds pareva più grande.
I rifiuti domestici
erano monumenti lontani.
La periferia sembrava
più in là.
Quella sera, dopo le
dritte di Carey e dopo Matador, lei parlò della scuderia. Clay le
chiese se doveva lavorare, il giorno delle gare, o se per il
momento la chiamavano solo per gli allenamenti e le corse per
principianti. Carey gli rispose che McAndrew non le aveva detto
nulla, ma che sapeva cosa stava facendo. Se gli avesse dato il
tormento, avrebbe dovuto aspettare mesi.
Per tutto quel tempo
aveva tenuto la testa sul suo petto, o più su, sul suo collo, la
posizione che Clay preferiva in assoluto. In Carey Novac aveva
trovato una persona che lo conosceva, che era lui, sotto tutti gli
aspetti tranne uno, fondamentale. E sapeva che, se avesse potuto,
avrebbe dato qualunque cosa pur di condividere con lui anche
quello.
Il motivo per cui se ne
andava in giro con la molletta da bucato.
Avrebbe rinunciato al
suo apprendistato come fantina, o alla prima vittoria nel Gruppo 1,
e naturalmente anche alla partecipazione alle Listed Race, e
addirittura alla Melbourne Cup – conosciuta come la Corsa che ferma
un’intera nazione – o alla gara che amava ancora di più: la Cox
Plate.
Ma non
poteva.
Capì invece, senza
alcuna esitazione, qual era il modo migliore per salutarlo, e così
prese a supplicarlo, sommessamente.
«Per favore, Clay. Non
andare, non lasciarmi… Però vai.»
Se fosse stata un
personaggio dei poemi di Omero, sarebbe stata Carey Novac dagli
occhi limpidi, o Carey dagli occhi preziosi. Questa volta gli
avrebbe detto chiaramente fino a che punto le sarebbe mancato, ma
al tempo stesso gli avrebbe fatto intuire che si aspettava – anzi,
che pretendeva – che seguisse il suo istinto.
«Per favore, Clay, non
lasciarmi… Però vai.»
Incamminandosi verso
casa, aveva capito.
Al centro di Archer
Street, si era voltata.
«Ehi, come ti
chiami?»
Il ragazzo, ai piedi
della veranda, le aveva risposto: «Clay».
Silenzio.
«E? Non vuoi sapere come
mi chiamo io?»
Ma lei aveva parlato
come se già lo conoscesse, e d’un tratto Clay si era rammentato
delle buone maniere, e gliel’aveva chiesto, e lei era tornata verso
di lui.
«Carey», aveva risposto,
prima di allontanarsi di nuovo. E lui, quasi gli fosse venuto in
mente in un secondo momento, le aveva urlato: «Ehi, come si
scrive?»
Era corsa da Clay, e gli
aveva preso il piatto dalle mani.
Con il dito aveva
scritto accuratamente il suo nome tra le briciole, poi si era messa
a ridere vedendo che lui faticava a decifrare la sua scrittura…
Nonostante sapessero entrambi che lettere c’erano.
Alla fine gli aveva
sorriso, un sorriso breve ma colmo d’affetto, e aveva attraversato
la strada per andare a casa.
Rimasero ancora venti
minuti, senza parlare. E intorno a loro, al Surrounds, regnava il
silenzio.
E questa era sempre la
parte peggiore.
Carey Novac si staccò da
lui.
Si sedette sul bordo del
materasso ma, quando si alzò per andare via, si accovacciò. Si mise
in ginocchio a lato del letto, dove si era fermata quando era
arrivata. Tra le mani aveva un pacchetto avvolto in un foglio di
carta di giornale; lentamente, lo posò contro le costole di lui.
Nessuno dei due disse un’altra parola.
Non ci fu un: «Tieni, ti
ho portato questo».
O:
«Prendi».
Né un «Grazie» da
Clay.
Soltanto quando lei si
fu allontanata, lui si tirò su e lo scartò… e vedendo il contenuto
restò di sasso.