Hartnell
Allora non potevamo saperlo.
Ma mancava poco all’avvento di un nuovo mondo.
Io mi ero preso l’impegno di sfidare Jimmy Hartnell, e a breve nostra madre avrebbe cominciato a morire.
Per Penelope era stato tutto molto innocuo.
Noi, in seguito, avremmo individuato l’inizio in un momento preciso.
Io avevo dodici anni, e mi allenavo; Rory ne aveva dieci, Henry nove, Clay otto, Tommy cinque, e il tempo di nostra madre volgeva al termine.
Era una domenica mattina di fine settembre.
Michael Dunbar era stato svegliato dalla TV. Era Clay, che stava guardando i cartoni: Rocky Reuben – Space Dog. Erano solo le sei e un quarto.
«Clay?»
Niente. Stava fissando lo schermo con gli occhi sgranati.
E papà aveva sussurrato in tono più severo. «Clay!» E lui si era voltato. «Potresti abbassare un pochino il volume?»
«Oh… scusa. Ok.»
Nonostante avesse abbassato, Michael era ormai praticamente sveglio, così era andato a sedersi con lui e, quando Clay gli aveva chiesto una storia, gli aveva raccontato di Moon e del serpente e di Featherton, e non gli era nemmeno passato per la testa di saltare qualche parte. Clay lo capiva immediatamente, se lasciava indietro qualcosa, e, se in seguito avesse dovuto integrare con la parte mancante, avrebbe solo impiegato più tempo.
Erano rimasti lì seduti a guardare la TV, Michael con un braccio intorno alle spalle di Clay, Clay che sorrideva al cane biondissimo. Nostro padre si era appisolato, ma si era svegliato poco dopo.
«Ecco, è finito.» Aveva indicato il televisore. «Lo stanno rispedendo su Marte.»
Una voce sommessa, in mezzo a loro due. «Quello è Nettuno, idiota.»
Con un ghigno, si erano voltati entrambi a guardare la donna alle loro spalle, nel corridoio. Indossava il suo pigiama più vecchio. «Non ti ricordi proprio niente?»
Quella mattina in particolare avevamo solo latte inacidito, così Penny aveva preparato i pancake e, quando eravamo arrivati anche noi, avevamo discusso e ci eravamo incolpati a vicenda, avevamo rovesciato il succo d’arancia e discusso ancora. Penny aveva pulito e urlato: «Avete di nuovo versato quel maledetto zucco d’arancia!» E noi eravamo scoppiati a ridere; nessuno poteva sapere.
Poi, aveva fatto cadere un uovo a terra, accanto a Rory.
Aveva perso il controllo di un piatto.
E che cosa poteva significare? Ammesso che un significato ci fosse?
In effetti, a posteriori, aveva avuto un enorme significato.
Aveva cominciato a lasciarci quella mattina, e la morte aveva infilato un piede in casa nostra.
Si era appollaiata sul bastone di una tenda.
Si dondolava nel sole.
Dopo sarebbe scesa, avvicinandosi con una certa indifferenza, e avrebbe appoggiato un braccio sul frigorifero; se era lì per sorvegliare la birra, stava facendo un ottimo lavoro, dannazione.
D’altro canto, riguardo alla sfida con Hartnell, era andata esattamente come avevo pensato: era stato grandioso. Qualche giorno prima di quella domenica apparentemente ordinaria, avevamo comprato due paia di guantoni da box.
Tiravamo, ci giravamo intorno, studiandoci a vicenda.
Ci abbassavamo e ci spostavamo a destra e a sinistra.
Allora ci vivevo, in quei guantoni giganti, era come avere due cabine legate ai polsi.
«Mi ammazzerà», dicevo, ma papà non l’avrebbe permesso. Allora era soltanto mio papà, e forse è tutto quello che posso dire; è la cosa migliore che posso dirvi.
In momenti come quelli, si fermava.
Mi metteva la mano guantata sul collo.
«Be’.» Rifletteva per qualche istante, e poi mi parlava, tranquillo. «Devi cominciare a ragionare così. Devi prendere una decisione.» D’un tratto le parole cominciavano a uscirgli di getto, quando mi toccava la nuca. C’era tanta tenerezza, in quei momenti. Tanta dolcezza. Sentivo un sacco di amore accanto a me. «Certo, può ucciderti, se vuole… ma tu non morirai.»
Era bravo, prima degli inizi.
*
Riguardo a Penny, la morte continuava ad avvicinarsi, un passo alla volta, e noi ce ne accorgevamo appena. La donna che conoscevamo da tutta la nostra breve vita – che raramente si prendeva un raffreddore – ogni tanto sembrava barcollante, malferma. Ma durava poco, e in un attimo tornava a essere quella di sempre.
C’erano momenti in cui era frastornata, confusa.
A volte, udivamo un lontano colpo di tosse.
Le veniva sonno a metà mattina, ma lavorava molte ore, e fare l’insegnante era impegnativo, e pensavo che questo spiegasse tutto. Come avremmo potuto immaginare che la causa non fosse il suo impiego all’Hyperno High? Dove stava a stretto contatto con tanti ragazzi, portatori di batteri? E poi rimaneva sempre alzata fino a tardi per correggere i compiti.
Aveva solo bisogno di riposo.
Al tempo stesso, potete farvi un’idea della nostra gloriosa preparazione all’incontro con Hartnell.
Ci allenavamo nel cortile, sulla veranda.
Sotto lo stendino, a volte dentro casa – ovunque potessimo –, e all’inizio eravamo io e papà, ma presto tutti avevano avuto la possibilità di battersi con me. Persino Tommy. E Penelope. I cui capelli biondi erano lievemente striati di grigio.
«Fa’ attenzione a lei», mi aveva detto un giorno papà. «Ha un gancio sinistro discendente da paura.»
Quanto a Rory e Henry, non erano mai andati così d’accordo. Si giravano intorno, tiravano e si prendevano a cazzotti, usando braccia e avambracci. Addirittura Rory una volta aveva chiesto scusa, e di sua spontanea volontà – un miracolo – quando aveva colpito troppo basso.
Nel frattempo, a scuola, incassavo meglio che potevo, mentre a casa lavoravamo sulla difesa («Tieni alte le mani, guarda la mia spalla») e sull’attacco («Esercitati su quel jab tutto il giorno»). La data fatidica era ormai vicina.
La sera prima dell’incontro, papà era venuto nella mia stanza, che dividevo con Clay e Tommy. Loro due stavano già dormendo nel letto a castello triplo, nei due posti in basso, mentre io ero sveglio, su quello più in alto. Come fanno quasi tutti i ragazzi, avevo chiuso gli occhi sentendolo entrare, e lui mi aveva scosso delicatamente.
«Ehi, Matthew, vuoi allenarti ancora un po’?»
Non aveva avuto bisogno di convincermi.
Questa volta sarebbe stato diverso, però: quando avevo fatto per prendere i guantoni, mi aveva detto che non mi sarebbero serviti.
«Cosa?» gli avevo chiesto, in un sussurro. «Combattiamo a mani nude?»
«Saranno nude, quando arriverà il momento», aveva risposto, ma poi aveva aggiunto, parlando molto lentamente: «In realtà, avevo pensato a una visita alla biblioteca».
L’avevo seguito di là, in salotto, dove mi aveva indicato una vecchia videocassetta e un vecchio videoregistratore (un apparecchio dall’aria antica, nero e argento), che mi aveva chiesto di accendere. Avevo scoperto che l’aveva acquistato con una piccola somma che era riuscito a mettere da parte; i primi risparmi per il Natale. Già mentre leggevo il titolo, Gli ultimi grandi pugili, avevo avvertito il sorriso sul suo volto.
«Non male, eh?»
Avevo osservato il videoregistratore inghiottire la cassetta. «Già, non male.»
«E adesso premi PLAY», mi aveva detto, e poi ci eravamo seduti, e in silenzio avevamo assistito a quella parata di pugili sullo schermo. Arrivavano come presidenti. Per alcuni i filmati erano in bianco e nero, da Joe Louis a Johnny Famechon, da Lionel Rose a Sugar Ray. Poi cominciavano quelli a colori, con Smokin’ Joe, Jeff Harding, Dennis Andries. Il technicolor per Roberto Durán. Le corde si piegavano sotto il loro peso. In molti incontri i contendenti andavano giù, ma riuscivano a rimettersi in piedi. Si appoggiavano l’uno all’altro, coraggiosi, disperati.
Poi, verso la fine, mi ero voltato a guardare lui. Mio padre.
Avevo notato il luccichio nei suoi occhi.
Aveva abbassato il volume al minimo.
Mi aveva preso il viso tra le mani, ma pacatamente.
La mascella.
Per un attimo avevo creduto che avrebbe detto qualcosa, sulla scia del commento ai filmati che avevamo appena visto. Invece mi aveva semplicemente tenuto così, nel salotto buio.
Alla fine, quando aveva parlato, naturalmente aveva pronunciato le parole che un giorno avrebbe usato Rory. E che anche l’Assassino avrebbe ripetuto, a Clay.
«Devo ammetterlo, ragazzo, hai fegato.»
Questo, prima di quell’inizio.
Prima, c’era stata una mattina speciale per Penny Dunbar, una mattina che aveva trascorso con una ragazza dolcissima di nome Jodie Etchells. Era una delle sue allieve preferite; era un po’ indietro a causa della dislessia, e faceva lezione con lei due volte la settimana. Aveva gli occhi tristi, le ossa lunghe, e una treccia che le scendeva fino alla vita.
Quella mattina stavano leggendo con il metronomo – il vecchio trucchetto –, quando Penny si era alzata per andare a prendere il dizionario dei sinonimi e dei contrari. Un attimo dopo, Jodie aveva dovuto scrollarla per farla rinvenire.
«Professoressa. Prof. Professoressa!»
Penny aveva ripreso i sensi, aveva guardato il viso della ragazza e il libro a pochi metri di distanza. Povera, piccola Jodie: sembrava sul punto di svenire anche lei.
«Si sente bene, professoressa? È tutto a posto?»
Aveva denti perfetti.
Penelope aveva provato ad allungare un braccio, ma quello pareva confuso, non rispondeva.
«Sto bene, Jodie», aveva detto, e a quel punto avrebbe dovuto mandarla a chiedere aiuto, o a prenderle un bicchiere d’acqua, o qualunque altra cosa fosse servita almeno a distrarla, invece – tipico di Penny – le aveva detto: «Apri il dizionario dei sinonimi, ok? E cerca… vediamo un po’… che ne pensi di ‘spensierato’? O di ‘avvilito’? Quale dei due aggettivi preferisci?»
La ragazza, la sua bocca, la sua simmetria.
«Forse ‘spensierato’», le aveva risposto. «‘Felice’, ‘gioioso’, ‘allegro’…»
«Bene, molto bene.»
Il braccio ancora non si muoveva.
*
E poi era arrivato. Quel venerdì. A scuola.
Hartnell e i suoi compagni avevano attaccato con la solita solfa.
«Suona il piano. Frocio.»
Erano virtuosi dell’insulto, e neanche lo sapevano.
Jimmy Hartnell aveva il ciuffo un po’ più lungo – di a lì a pochi giorni sarebbe andato a tagliarsi i capelli –, era dimagrito e aveva perso massa muscolare. La bocca piccola con le labbra sottili, come una fessura: sembrava una lattina aperta solo in parte. In pochi istanti si era allargata in un sorriso. Io ero andato verso di lui e avevo trovato il coraggio di parlargli.
«Alle reti, a pranzo.»
La miglior notizia che avesse mai ricevuto.
E poi, un pomeriggio era accaduto questo.
Com’era sua abitudine, Penelope stava leggendo ai suoi studenti, mentre aspettavano che arrivassero gli autobus. Quella volta aveva scelto l’Odissea. Il brano dei Ciclopi.
C’erano ragazzi e ragazze, in verde e bianco.
La solita varietà di tagli di capelli.
Mentre leggeva di Ulisse, e di come ingannò il mostruoso gigante nella sua grotta, le parole avevano cominciato a nuotare sulla pagina; la sua gola era diventata l’antro.
Quando aveva tossito, era uscito del sangue.
Era schizzato sul libro.
Era rimasta stranamente scioccata da quel rosso vivido: era così vivace e brutale. La sua mente era tornata al treno, alla prima volta che l’aveva visto: quei titoli in inglese.
E che cos’era il mio sangue, in confronto a quello?
Non era niente. Proprio niente.
Ricordo che era una giornata ventosa, le nuvole si muovevano rapide attraverso il cielo. Un minuto era bianco, un minuto azzurro; la luce cambiava continuamente. C’era una nube che era simile a una miniera di carbone, mentre mi avviavo alle reti del cricket, nel punto di ombra meno illuminato.
Non l’avevo visto subito, Jimmy Hartnell, ma era là, sul campo di cemento. Gli angoli della bocca gli arrivavano al ciuffo.
«Eccolo!» aveva esclamato uno dei suoi amici. «Il frocio è venuto davvero, cazzo!»
Mi ero avvicinato, sollevando i pugni.
Dopo avevamo cominciato a girarci attorno, un po’ a destra e un po’ a sinistra. Lui era spaventosamente veloce, e non avevo dovuto attendere molto per assaggiare i suoi pugni. Ricordo anche il boato dei ragazzi, come onde sulla spiaggia. A un certo punto avevo visto Rory. Era accanto a Henry, magrissimo e biondo come un labrador. Attraverso i rombi della rete metallica, lo guardavo muovere le labbra. Colpiscilo, diceva, mentre Clay osservava inebetito.
Ma Jimmy non si lasciava colpire facilmente.
Prima mi ero beccato un pugno in bocca (e da lì avevo avuto la sensazione di masticare un pezzo di ferro), poi uno nelle costole. Temevo me le avesse fratturate, mentre quelle onde continuavano a riversarsi su di me.
«Fatti sotto, pianista del cazzo», mi sussurrava, e veniva avanti di nuovo, saltellando da un piede all’altro. E ogni volta mi girava intorno e mi sorprendeva con un sinistro e due destri. Al terzo, ero al tappeto.
Qualcuno faceva il tifo, qualcuno verificava che non ci fossero insegnanti nei paraggi, ma non se ne vedeva nemmeno uno, così mi ero rimesso in piedi alla svelta. Probabilmente un arbitro a quel punto mi avrebbe concesso gli otto secondi, vedendomi in difficoltà.
Coraggio, mi ero detto, e la luce intanto continuava a cambiare. Il vento ci ululava nelle orecchie, e Jimmy era venuto avanti girandomi attorno.
Questa volta, come prima, mi aveva preso con il sinistro, e subito dopo con un destro, ma la tattica non aveva avuto successo, perché ero riuscito a bloccare il terzo pugno e l’avevo preso al mento. Hartnell era indietreggiato, barcollando, aveva balbettato qualcosa mentre ritrovava l’equilibrio, e poi aveva provato a menarmi ancora. Scioccato, aveva fatto un rapido passo indietro, e io l’avevo seguito portandomi avanti e verso sinistra. Gli avevo sferrato un paio di jab, appena sopra quella fessura che aveva al posto della bocca, centrandogli la guancia.
Era diventato quello che i commentatori di ogni genere di sport – probabilmente anche di una partita a biglie – avrebbero definito una guerra di logoramento, con noi due che ce le davamo a vicenda con nocche e mani. A un certo punto ero finito con un ginocchio a terra, e lui mi aveva colpito e si era scusato. Avevo annuito; una silenziosa integrità. La folla era cresciuta, e qualcuno si era arrampicato sulla rete, le dita che si aggrappavano ai rombi.
Alla fine lo avevo messo al tappeto due volte, ma lui si era sempre rialzato. Al termine dell’incontro io ero andato giù quattro volte, e alla quarta non ero riuscito a tirarmi su. Allora mi ero accorto vagamente della presenza delle autorità, perché spiagge e onde erano aumentate. Le persone erano gabbiani, eccetto i miei fratelli. Era stato meraviglioso – e per nulla sorprendente, a posteriori – vedere Henry che allungava una mano verso un ragazzo che scappava via cedendogli il resto del pranzo. Aveva già fatto una scommessa, e aveva vinto.
Nell’angolo, vicino ai paletti del cricket, Jimmy Hartnell era sdraiato su un fianco. Sembrava un cane selvatico e ferito, un animale che suscitava compassione e al tempo stesso invitava alla cautela. L’insegnante, un uomo, era andato verso di lui e l’aveva afferrato, ma Jimmy si era divincolato; era quasi incespicato, nel venirmi incontro, e la fessura in mezzo al suo viso era diventata una bocca assolutamente normale. Si era accovacciato accanto a me.
«Devi essere bravo al piano», mi aveva detto, «se suoni come combatti.»
Mi ero portato le dita alle labbra, tastandole. Sollievo. Vittoria.
Mi ero disteso di nuovo. Sanguinante. E con un sorriso stampato sul volto.
Avevo ancora tutti i denti.
E così.
Lei era andata dal medico.
Si era sottoposta a una sfilza di esami.
A noi, in un primo momento, non aveva detto nulla, e la vita era andata avanti come sempre.
Una volta, però, c’era stato un episodio, e più tempo passo qui seduto a scrivere, più il ricordo diventa nitido e crudele. La cucina è acqua limpida, fredda.
Una volta, dicevo, Rory e Henry erano nella loro stanza, e stavano facendo a pugni. Avevano mollato i guantoni ed erano tornati al vecchio metodo, e Penelope era corsa a dividerli.
Li aveva afferrati entrambi per il colletto della camicia che mettevano per andare a scuola.
E li aveva trascinati fuori.
Due ragazzini stesi ad asciugare.
Una settimana dopo era in ospedale; la prima di tante visite.
Ma allora, una manciata di giorni e di notti prima, era entrata nella loro stanza, un porcile di calzini e Lego. Il sole stava tramontando alle sue spalle.
Cristo, mi mancherà tutto questo.
E aveva pianto. E sorriso. E poi pianto ancora.
Il ponte d'argilla
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