Quello che sorrideva
«Tre… due… uno… via!»
Un clic del cronometro, e Clay
partì.
Negli ultimi tempi
facevano sempre così; a Henry piacevano le partenze degli sciatori
in TV, e aveva deciso di adottare lo stesso metodo.
Come al solito, Clay
aveva cominciato il countdown a una certa distanza dalla linea.
Impassibile, il volto privo di espressione. I piedi nudi, in gran
forma, calpestarono la linea al «via». Solo quando iniziò a correre
sentì due lacrime trattenute, brucianti, gonfiarsi fino a colmargli
gli occhi. Soltanto allora strinse le mani a pugno: era pronto per
quella brigata di idioti, per quel mondo spaventosamente
adolescente. Non avrebbe più visto ciò che stava vedendo in quel
momento, non sarebbe più stato ciò che era in quel
momento.
Le erbacce ai suoi piedi
oscillavano a destra e a sinistra per togliersi dal suo cammino.
Persino il fiato sembrava uscire solo per scappare via. Ma il suo
viso non mostrava nessuna sensazione. C’erano solo le due righe
arcuate, tracciate dalle lacrime, che già si stavano asciugando
quando affrontò la prima curva, diretto verso Seldom, Maguire e
Tinker. Clay sapeva come fargli male. Conosceva molti trucchi, ma
aveva anche in serbo mille gomitate.
«Qui.»
I tre conversero,
professionali.
Lo aspettarono nella
corsia quattro, con una tremenda puzza di sudore e gli avambracci,
e le gambe di lui continuarono a correre in aria, in diagonale.
Aveva lo slancio, dalla sua. La mano destra affondò nella gomma,
seguita da un ginocchio, e poi si gettò Maguire alle spalle; menò
un fendente al viso di Seldom. In un istante vide i suoi occhi
annebbiarsi, confusi, e poco dopo lo tirò giù, con
violenza.
A quel punto arrivò il
rotondo Brian «Tinker» Bell – detto anche Mr. Plump – che piazzò un
colpo avido. Un pugno alla gola, il largo torace contro la sua
schiena. La voce calda e roca sussurrò: «Beccato». A Clay non
piaceva che gli sussurrassero in quel modo. Non fece troppo caso
nemmeno al «beccato», e un istante dopo c’era un sacco triste sul
suolo, in mezzo alle erbacce. Un sacco con un orecchio sanguinante.
«Cazzo!» Il ragazzo se n’era andato.
Sì, Tinker ormai era
dimenticato, ma gli altri due tornarono alla carica, uno ferito,
l’altro in forma; non bastò. Clay corse via. Allungò. Affrontò il
secondo rettilineo.
Studiò i due avversari
successivi, che non si aspettavano di vederlo arrivare così
presto.
Schwartz si
preparò.
Starkey sputò un’altra
volta. Quel ragazzo era una fottutissima fontana. Un
gargoyle!
«Avanti!»
Era la creatura nella
gola di Starkey, che lanciava il suo grido di battaglia. Avrebbe
dovuto sapere che Clay non si sarebbe lasciato intimidire, né
tantomeno provocare. Sullo sfondo, i primi tre ragazzi erano
piegati in due, ridotti a sagome sfocate, mentre lui avanzava
tenendosi sulla corsia più esterna. All’improvviso cambiò
direzione. Puntò dritto su Starkey, che aveva smesso di sputare e
si stava spostando. Reagì appena in tempo per infilare un dito
nell’elastico dei calzoncini di Clay… e poi, naturalmente, arrivò
anche Schwartz.
Il quale, come promesso,
lo investì con la potenza di un treno.
L’espresso delle
2.13.
Il ciuffo perfetto gli
si rizzò, quando lo sotterrò per metà nella corsia uno e per metà
nel muro di erbacce, e Starkey lo seguì con le ginocchia. Colpì
Clay alla guancia, con le basette enormi, e lo fece sanguinare. E
gli diede addirittura un pizzicotto mentre scalciavano e si
graffiavano, con tutto quel sangue, e quegli spintoni, costretti a
respirare l’alito alla birra di Starkey. (Dio, la povera ragazza
sugli spalti…)
Quasi stessero
soffocando, presero a calci la pista.
Dalla tribuna si levò la
voce di qualcuno, un lamento che sembrava venire da chilometri di
distanza. «Non vedo un cavolo di niente!» Se fossero andati avanti
ancora a lungo, nell’infield, gli spettatori
sarebbero dovuti correre alla curva.
Là, in mezzo al verde di
Bernborough Park, i tre erano avvinghiati l’uno all’altro, ma Clay
trovava sempre il modo di liberarsi. Per lui non c’era vittoria,
alla fine, né sconfitta, non c’erano tempi, né soldi. Non era
importante quanto male gli facevano: non potevano fargliene. Non
era importante nemmeno quanto riuscivano a trattenerlo: non
potevano trattenerlo. O, almeno, non potevano fargli
abbastanza male.
«Blocca quel
ginocchio!»
Un suggerimento prudente
da Schwartz, che però giunse troppo tardi. Un ginocchio libero era
un Clay libero, infatti riuscì a scaraventare di lato il quintale
che l’istante successivo era ai suoi piedi, e a ricominciare a
correre.
*
Dagli spalti risuonarono grida di
acclamazione, e fischi.
Piovve anche una raffica
di soprannomi, dalla tribuna alla pista. Da quella distanza non
erano molto chiari… somigliavano alle canzoni che sentiva in camera
sua, quando dal sud giungeva la notte… Ma venivano dagli
spettatori, che c’erano. E c’era anche Rory.
Per centocinquanta
metri, Clay ebbe la superficie rosso-ocra tutta per sé. Il cuore
batteva con un clangore metallico, le righe di lacrime asciutte si
creparono.
Correva verso la luce
che rifiutava di andarsene, verso i raggi spessi,
cocciuti.
Guardò la propria
andatura, guardò la larghezza elastica della pista.
Correva verso le
acclamazioni del pubblico, che urlava dalla tribuna in ombra. Da
qualche parte, là in mezzo, c’era la ragazza con la bocca rossa,
con la spallina che continuava a scivolare, ribelle e noncurante.
Non c’era uno sfondo sessuale in quella fantasia, lo divertiva e
basta. Ci pensò volutamente, perché presto sarebbe arrivata la
sofferenza. Non contava il fatto che quello fosse il giro più
veloce di sempre. No. Non contava nulla. Perché lì, a cinquanta
metri dal traguardo, c’era Rory, fermo e radicato come un
pettegolezzo.
Clay doveva essere
deciso. La minima esitazione sarebbe stata la sua rovina. La
timidezza poteva costargli la vita. Poco prima
dell’incontro-scontro, al margine destro del suo campo visivo
scorse ventiquattro ragazzi che si lasciavano andare alle urla più
varie. Per un soffio non fecero crollare la tribuna, dannazione. E
poi, davanti a loro, vide Rory. Rude come il suo solito.
Ironico.
E lui?
Lottò contro l’impulso
di scansarsi, di schivarlo. In pratica vi ci si arrampicò sopra, e
in qualche modo riuscì a scavalcarlo. Sentì l’anatomia di suo
fratello: il suo affetto, la sua rabbia amorevole. Poi atterrò, e
fu trattenuto solo per un piede. Un braccio attorno alla caviglia:
era l’unica cosa a separarlo da ciò che da tanto tempo, ormai, era
considerato irraggiungibile. Era impossibile superare Rory. Non ce
l’avrebbe mai fatta. Eppure eccolo lì, che lo trascinava, che
tentava di liberarsi da quella presa. Il braccio si irrigidì, ma a
pochi centimetri dalla sua faccia la mano di Rory si sollevò come
un titano che emerge dagli abissi. Una stretta infernale stritolò
le dita di Clay, e lo tirò giù senza alcuno sforzo.
A dieci metri dal
traguardo, finì lungo disteso a terra. E cos’è che dicevano a
proposito del fatto che Rory non pesasse niente? Era quella
l’ironia del suo soprannome: che fosse una palla al piede umana
pareva implicare un’insopportabile pesantezza, e invece sembrava
leggero e impalpabile come foschia. Ti voltavi ed era lì, ma quando
provavi a toccarlo di lui non restava nulla. Era già altrove, a
fare qualcosa di pericoloso. Di concreto aveva soltanto i folti
capelli color ruggine, e quegli occhi duri, grigi come
metallo.
L’aveva preso bene,
sulla pista rossa e sepolta. Le voci scendevano fino a loro, dai
ragazzi e dal cielo che cominciava a chiudersi.
«Dai, Clay. Gesù, dieci
metri, ci sei quasi.»
«Che cosa farebbe Zola
Budd, Clay?» Questo era Tommy. «E lo Scozzese Volante? Combatti
fino al traguardo!»
Rosy
abbaiò.
«Ti ha sorpreso, Rory,
eh?» fece Henry.
Rory alzò lo sguardo,
gli occhi che sorridevano in quel suo modo
interrogativo.
Poi si udì un’altra
voce, che non apparteneva a un Dunbar: «Chi diamine è Zola Budd? E
lo Scortese Volante?»
«Scozzese.»
«Come ti
pare.»
«Vi dispiace tapparvi la
bocca? Qui sta andando in scena una rissa!»
Capitava spesso che
andasse a finire così, quando si arrivava al corpo a
corpo.
I ragazzi rimanevano
sugli spalti, guardavano; avrebbero voluto avere il coraggio di
farlo anche loro, ma al tempo stesso erano grati di non essere
tanto audaci. Parlare era un modo per esorcizzare la paura, perché
c’era qualcosa di lievemente macabro in quei due che sforbiciavano
sulla pista, con il fiato, i polmoni di carta.
Clay si girò, ma Rory
era lì.
Una volta soltanto,
diversi minuti dopo, riuscì quasi a liberarsi, però l’altro lo
bloccò di nuovo. Vedeva la linea, ne sentiva quasi l’odore di
vernice.
«Otto minuti», dichiarò
Henry. «Ehi, Clay, ne hai avuto abbastanza?»
I ragazzi formarono un
corridoio un po’ primitivo, ma solido; sapevano di dover mostrare
rispetto. Se uno di loro avesse tirato fuori il cellulare per fare
un video, o per scattare una foto, sarebbe stato aggredito e
pestato a dovere.
«Ehi, Clay.» Henry alzò
leggermente la voce. «Basta?»
No.
Lo disse come sempre,
senza dirlo, perché non stava ancora sorridendo.
Nove minuti, dieci.
Presto furono tredici, e Rory stava pensando di strangolarlo ma,
quando erano vicini al quarto d’ora, Clay si rilassò, gettò
indietro la testa e fece un sorriso. Un sorriso svogliato. Quale
piccola ricompensa, tra le gambe dei ragazzi la vide sulla tribuna,
all’ombra, con la spallina che scivolava e tutto il resto, e Rory
si lasciò andare a un sospiro. «Cristo, ti ringrazio.» Cadde da un
lato e guardò il fratello, che molto lentamente, con una mano sola,
si trascinava al di là del traguardo.