La MDS, il serpente e Moon
Avevano comprato la casa, naturalmente, ed era cominciato l’inizio.
Michael lavorava ancora nei cantieri, e aveva sempre le mani sporche di polvere, mentre Penny faceva le pulizie e studiava inglese fino a tardi. Stava meditando di cercare un’occupazione diversa, ed era indecisa se insegnare musica, oppure inglese come seconda lingua.
Forse aveva fatto tutto la memoria.
La pista per aerei al coperto.
Il caldo, dal pavimento al soffitto.
«Passaporto?»
«Przepraszam?»
«Oh, Gesù.»
Aveva scelto inglese.
Aveva presentato domanda di iscrizione all’università, ma la sera andava a fare le pulizie in un ufficio di commercialisti, nello studio legale… E poi era arrivata la lettera di ammissione. Michael l’aveva trovata seduta al tavolo della cucina. Si era fermato, non lontano dal punto in cui tanti anni dopo sarebbe stato fissato e interrogato da un mulo.
«Allora?»
Si era seduto accanto a lei.
Aveva osservato lo stemma, la carta intestata.
Ci sono persone che festeggiano con lo champagne, o con una serata fuori, in un bel locale, invece Penelope era rimasta seduta; aveva messo la testa sulla spalla di Michael, e gli aveva riletto la lettera.
E il tempo passava.
Avevano sistemato il giardino.
Metà delle piante ce l’avevano fatta, le altre erano morte.
Avevano visto cadere il Muro nel novembre dell’89.
Attraverso le fessure tra le assicelle della recinzione, osservavano spesso i cavalli, e amavano le altre stranezze del quartiere delle corse: per esempio un uomo o una donna che uscivano in strada a metà pomeriggio con un cartello di Stop per fermare il traffico. Dietro di loro veniva un inserviente con un cavallo, probabilmente dato 10:1 l’indomani, a Hennessey.
Ma l’ultima e più importante bizzarria di quel luogo, già allora, era il numero di campi dimenticati; bastava sapere dove guardare. In alcuni casi, come tutti siamo ben consapevoli, posti simili potevano racchiudere un enorme significato; e uno, sconosciuto ai nostri genitori, era vicino alla linea ferroviaria. Certo, ci sarebbero stati il Surrounds e la pista moribonda a Bernborough… ma anche quello aveva un’importanza cruciale.
Quindi, vi supplico di tenerlo a mente.
Perché c’entrava il mulo.
Penny frequentava l’università da tre anni, quando un giorno era squillato il telefono al 18 di Archer Street. Era il dottor Weinrauch.
Adelle.
Era morta seduta al tavolo da pranzo, probabilmente la sera tardi, dopo aver battuto a macchina una lettera a un’amica.
«Era come se, una volta finito, si fosse tolta gli occhiali e avesse appoggiato la testa accanto alla Remington», aveva detto, triste e addolorato, anche se in un certo modo era giusto così.
Era stata la combinazione finale, letale.
Aveva messo l’ultimo punto, colpendo con forza il tasto.
Naturalmente, erano partiti subito per Featherton, e Michael si era reso conto di essere fortunato, in confronto a Penelope. Almeno, avevano potuto entrare in chiesa e sudare accanto alla bara. Lui si era potuto voltare verso il dottore in pensione, e osservare la sua cravatta, che penzolava come un orologio fermo da tempo.
«Mi dispiace, figliolo.»
«Mi dispiace, Doc.»
Più tardi, si erano seduti nella vecchia casa, al tavolo, con i suoi occhiali dalla montatura blu e la macchina da scrivere. Per un po’ Michael aveva pensato di inserire un foglio bianco, e di battere qualche riga. Ma non l’aveva fatto, si era limitato a guardarla, e Penelope aveva preparato del tè e avevano bevuto, e poi erano andati a passeggiare per la città, ed erano rientrati dal giardino sul retro, dove c’era la banksia.
Quando lei gli aveva chiesto se volesse portare a casa la macchina da scrivere, lui le aveva detto che stava bene lì.
«Sei sicuro?»
«Sono sicuro… In realtà, credo di sapere esattamente che cosa fare.»
Per qualche motivo, gli era parsa la cosa più giusta; era uscito ed era andato al capanno, dove aveva trovato la vecchia vanga che aveva usato per scavare un’altra buca, a sinistra del cane e del serpente.
In casa, si era seduto ancora un momento con la Remington.
Aveva preso tre teli di plastica, robusti e lisci, e li aveva usati per avvolgerla. Erano così trasparenti che si vedevano i tasti, prima la Q e la W, poi quelli centrali, F, G, H e J: e nel vecchio cortile sul retro di una città che era a sua volta un vecchio cortile, l’aveva messa nella buca, e l’aveva sotterrata.
La MDS, il serpente e Moon.
Non erano cose da mettere nell’annuncio immobiliare.
*
A casa, la vita doveva andare avanti, e così era successo, con Michael che rimaneva alzato mentre Penelope leggeva ad alta voce i suoi temi, e li controllava, ancora e ancora. Per il tirocinio, l’avevano mandata alla Hyperno High. La scuola superiore più dura della città.
Il primo giorno, era tornata distrutta.
«Mi hanno mangiata viva.»
Il secondo era stato anche peggio.
«Oggi mi hanno mangiata e risputata.»
Capitava che urlasse con gli alunni perché perdeva il controllo – della classe e di sé; si infuriava, le lacrime le rigavano le guance e i ragazzi infierivano. Una volta, quando era stata sul punto di esplodere, aveva gridato: «SILENZIO!» e poi aveva borbottato: «Merdine», e loro erano scoppiati a ridere. Le avevano detto che così andava meglio. L’allegria, le prese in giro degli adolescenti.
Ma di Penny Dunbar sappiamo una cosa. Anche se era magra, e da sempre fragile, era un’esperta di sopravvivenza. Trascorreva la pausa pranzo e l’intervallo con classi intere – la regina della punizione e della noia. Li bastonava con il silenzio organizzato.
Alla fine, aveva scoperto di essere stata la prima candidata dopo anni a resistere per l’intero periodo di tirocinio, e le era stato offerto un lavoro a tempo pieno.
Aveva lasciato le pulizie.
Le sue colleghe l’avevano portata fuori a brindare.
L’indomani, Michael si era seduto con lei, accanto al gabinetto, le aveva massaggiato la schiena e, per calmarla, le aveva chiesto: «Sono i vizi della libertà?»
Lei aveva vomitato, tra i singhiozzi, ma aveva riso.
All’inizio dell’anno successivo, quando Michael era andato a prenderla al lavoro, un pomeriggio, l’aveva trovata circondata da tre ragazzoni, di cui aveva notato il sudore, il taglio di capelli, le braccia. Per un attimo era stato sul punto di smontare dall’auto, ma poi l’aveva visto: Omero. Stava leggendo ad alta voce, e doveva essere uno di quei brani truculenti, perché i tre facevano smorfie e urlavano.
Penelope indossava un abito verde menta.
Quando si era accorta che Michael aveva accostato, aveva chiuso il libro di scatto, e i ragazzi le avevano lasciato libero il passaggio. «Arrivederci, professoressa», l’avevano salutata, uno dopo l’altro, mentre saliva in auto.
Ma ciò non significa che fosse tutto facile, perché non lo era affatto.
Quando la mattina Michael usciva per andare al lavoro, a volte la sentiva farsi dei discorsetti di incoraggiamento, in bagno. Perché la aspettava una giornata difficile. «Chi è, questa volta?» le chiedeva, poiché in parte il suo lavoro consisteva nell’entrare in sintonia con i soggetti più difficili, uno per uno; e in certi casi le ci voleva un’ora, in altri diversi mesi. Ma riusciva sempre ad avere la meglio. Ogni tanto, addirittura, c’era qualcuno che la proteggeva. Se altri ragazzi le davano fastidio, venivano portati nei bagni e spinti tra gli orinatoi. Lasciate stare Penny Dunbar.
Per molti versi, il titolo del corso – Inglese Seconda Lingua – era ironico, perché per una notevole percentuale dei suoi allievi l’inglese era la prima lingua, ma leggevano a malapena una parola. E quelli erano sempre i più arrabbiati.
Si sedeva con loro, vicino alla finestra.
Portava un metronomo da casa.
Il soggetto, incredulo, lo fissava e diceva: «Che cazzo è?»
Al che, lei rispondeva in tono piatto: «Prova a leggere a ritmo».
Ma alla fine doveva succedere.
Dopo quattro anni di insegnamento, una sera era tornata a casa con un test di gravidanza, e questa volta erano usciti insieme a festeggiare, però avevano aspettato il sabato.
Nel frattempo, l’indomani, erano tornati al lavoro.
Michael stava versando del cemento.
L’aveva detto a qualche amico, che si era fermato per stringergli la mano.
Penelope era a scuola, con un ragazzo bellicoso ma molto bello.
Si era messa a leggere con lui alla finestra.
Il metronomo ticchettava.
Sabato erano andati a pranzo in quel posto di lusso all’Opera House, si erano fermati in cima, sui gradini. Il grande, vecchio ponte era sospeso là, i traghetti entravano nel Quay. A metà pomeriggio, quando erano usciti, era arrivata una nave in porto. Sul lungomare c’erano masse di gente, e macchine fotografiche e greggi di persone che sorridevano. Davanti all’edificio c’erano loro – Michael e Penny Dunbar – e in fondo alla scala erano apparsi cinque ragazzi, che se ne stavano lì… e poco dopo, loro erano scesi a conoscerci.
Ed eravamo andati via insieme, passando in mezzo alla folla e alle parole della gente, attraverso una città gonfiata dal sole.
E la morte si era incamminata con noi.
Il ponte d'argilla
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