L’Assassino in tasca
Penelope aveva attraversato il mondo, e Clay attraversò la recinzione.
Percorse il vicolo tra il Surrounds e casa nostra, dove i paletti erano tinti di un grigio spettrale. C’era un cancello di legno, per Achilles, così che Tommy potesse portarlo dentro e fuori. Quando arrivò nel cortile sul retro, fu felice di non dover scavalcare; le mattine successive a una sbornia erano tremende, come gli avrebbero rivelato i secondi successivi.
Per cominciare, fece lo slalom tra le mele del mulo.
Poi percorse il labirinto delle cacche di cane.
Entrambi i colpevoli dormivano ancora; uno era in piedi, sul prato, l’altro spaparanzato sul divano, nella veranda illuminata.
In cucina, c’era profumo di caffè. Lo avevo battuto sul tempo, e in più di una cosa.
Toccava a lui affrontare la realtà.
Stavo facendo colazione sulla veranda anteriore, come mi capitava ogni tanto.
Ero in piedi, appoggiato alla balaustra di legno, con il cielo cotto e i corn-flakes freddi. I lampioni erano ancora accesi. La cassetta delle lettere di Rory era sul prato.
Quando Clay aprì la porta e si fermò a pochi passi da me, io continuai serenamente a mangiare i miei cereali. «Un’altra cassetta delle lettere, Cristo santo.»
Clay sorrise. Non potei fare a meno di notare che era un sorriso nervoso, ma fin lì arrivava la mia carineria. Dopotutto, aveva l’indirizzo in tasca; l’avevo rimesso insieme con lo scotch, e avevo fatto del mio meglio.
All’inizio, non mi mossi.
«Allora, l’hai trovato?»
Lo sentii annuire.
«Ho pensato di risparmiarti il disturbo, e di ripescarlo per te.» Il cucchiaio tintinnava nella scodella. Qualche goccia di latte saltò oltre la balaustra. «Ce l’hai in tasca?»
Di nuovo, fece sì con la testa.
«Vuoi andarci?»
Clay mi guardò.
Mi guardò ma non rispose, mentre io in qualche modo provavo a capire che cosa voleva dire, come avevo fatto spesso negli ultimi tempi. Fisicamente ci somigliavamo parecchio, però io lo superavo ancora di quindici centimetri buoni. I miei capelli erano più folti, ed ero più robusto, ma solo perché avevo qualche anno di più. Mentre lavoravo carponi su moquette, parquet e cemento ogni giorno, lui andava a scuola e faceva i suoi chilometri di corsa, oltre a serie infinite di addominali e flessioni. Aveva un fisico magro e asciutto. Credo si potrebbe dire che eravamo due versioni della stessa persona, soprattutto se si consideravano gli occhi. Avevamo entrambi il fuoco, dentro, e il colore non importava: perché il fuoco che vi ardeva era tutto.
A un certo punto sorrisi, ma in realtà stavo soffrendo.
Scossi la testa.
La luce dei lampioni si fece tremula, e poi si spense.
Avevo chiesto quello che andava chiesto.
Dovevo dire quello che andava detto.
Il cielo divenne più ampio, la casa più stretta.
Non mi avvicinai, non lo puntai, e non lo intimidii.
Dissi soltanto: «Clay».
In seguito, mi avrebbe riferito che era stato quello a turbarlo.
La tranquillità.
Mentre gli parlavo in quel tono stranamente dolce, qualcosa risuonò dentro di lui. Qualcosa che scese, deciso, dalla gola allo sterno, e poi ai polmoni, e intanto il mattino investiva la strada con la sua luce. Dall’altra parte, le case erano silenziose e lacere, come una gang di amici violenti che aspettavano una parola del sottoscritto. Sapevamo tutti e due che non ne avevo bisogno.
Dopo un momento o due, sollevai i gomiti dalla balaustra, mi voltai e guardai la sua spalla. Avrei potuto chiedergli della scuola. Come va la scuola? Ma conoscevamo entrambi la risposta. Con che autorità potevo dirgli di non mollarla? Io stesso avevo smesso di studiare prima del diploma.
«Puoi andare. Non posso impedirtelo, ma…»
La frase si interruppe così.
Una frase difficile come il compito che avevo davanti: e, alla fine, la verità era quella.
Si partiva, e si tornava a casa.
Ci si macchiava di un crimine, e si affrontava la punizione.
Poteva andarsene da Archer Street e scambiare i suoi fratelli con un uomo che ci aveva lasciati, ma tornare a casa significava fare i conti con me.
«Si tratta di una decisione importante», aggiunsi, in modo più diretto. «Che, suppongo, avrà delle conseguenze da non sottovalutare.»
Clay mi fissò per un istante, e poi abbassò lo sguardo.
Vide i miei polsi irrobustiti dalla fatica, le mie braccia, le mani, la giugulare. Notò la riluttanza nelle mie nocche, e anche la volontà di guardare oltre. Soprattutto, però, vide quel fuoco nei miei occhi, che pure lo stavano supplicando.
Non lasciarci per lui, Clay.
Non andartene.
Ma, se decidi di farlo…
Il fatto è che oggi sono profondamente convinto di una cosa.
Clay sapeva di doverlo fare.
Solo, non era sicuro di esserne capace.
Quando rientrai, lui si trattenne fuori ancora un po’, bloccato sulla veranda, schiacciato dal peso di quella scelta. Dopotutto, ciò che gli avevo promesso era qualcosa che non riuscivo nemmeno a dire a parole. In ogni caso, qual era il torto peggiore che si potesse fare a uno dei ragazzi Dunbar?
Per Clay questo era assolutamente chiaro; aveva dei motivi per andare e dei motivi per restare e, ovunque volgesse lo sguardo, lo scenario non cambiava. Era bloccato da qualche parte, nella corrente – che l’avrebbe portato a distruggere tutto ciò che aveva, per diventare quello che aveva bisogno di diventare –, mentre il passato, sempre più vicino, incombeva su di lui.
E si affacciava all’imbocco di Archer Street.
Il ponte d'argilla
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