Il Mondiale della morte
L’orologio suonò i due anni, con garbo.
E poi, orribilmente, i
due e mezzo.
Lei era tornata al
lavoro come supplente.
«Essere sul punto di
morire è una merdosissima passeggiata», diceva.
(Aveva appena vomitato
nel lavandino.)
Quando andava a
lavorare, a volte non tornava a casa, e la recuperavamo a metà
strada, o nel parcheggio della scuola, dove era rimasta solo la sua
auto. Una volta si era fermata vicino ai binari, sdraiata sul
sedile fuori dalla stazione, con i treni che passavano da un lato,
e il traffico delle auto dall’altro. Avevamo bussato al finestrino
per svegliarla.
«Ok», aveva detto, «sono
ancora viva, eh?»
Certe mattine scherzava:
«Se qualcuno di voi ragazzi dovesse incontrare la morte, oggi, la
mandi da me». Sapevamo che voleva sbandierare il suo
coraggio.
Quando stava troppo male
per andare al lavoro, ci chiamava al pianoforte.
«Su, ragazzi, datemene
uno qui.»
E ci mettevamo in fila
per darle un bacio sulla guancia.
Ogni volta sarebbe
potuta essere l’ultima.
Quando avvertivi
leggerezza e ottimismo, capivi che la fine non era
lontana.
Il terzo Natale era
stato l’ultimo, per lei.
Eravamo seduti al tavolo
della cucina.
Avevamo lavorato come
matti per preparare i pierogi
e l’impronunciabile barszcz.
Finalmente, era pronta
per cantare di nuovo Sto
lat, e noi avevamo cantato per lei,
perché l’amavamo; e per Waldek, per la statua, e per nessun Paese.
Avevamo cantato solo per la donna di fronte a noi. Solo per le sue
storie.
Ma presto doveva
succedere.
Le era stata offerta
un’ultima scelta.
Morire in ospedale, o
morire a casa.
Aveva guardato Rory, in
reparto, e poi me, e tutti gli altri, e ci eravamo chiesti chi
dovesse riferire la sua decisione.
Se avesse parlato Rory,
avrebbe detto: «Ehi, lei… infermiera! Esatto, lei… La stacchi da questa
merda di macchina». Io sarei stato meno scortese, ma comunque
schietto. Henry si sarebbe mostrato eccessivamente sicuro, e Tommy
sarebbe rimasto muto… era troppo piccolo.
Dopo una breve
riflessione, aveva optato per Clay; l’aveva chiamato vicino a sé e
gli aveva sussurrato la sua risposta, e poi lui si era voltato
verso infermiera e dottoressa, tutte e due gentili e
magre.
«Dice che qui avrebbe
nostalgia della sua cucina, e che vuole essere a casa per noi.»
Penny gli aveva fatto l’occhiolino, la sclera ormai gialla. «E deve
continuare a suonare il piano… e tener d’occhio lui.»
Non aveva indicato Rory,
come sarebbe stato logico, ma l’uomo con una mano posata sulla
spalla di Tommy.
Dal letto, Penny aveva
parlato.
«Grazie a entrambe. Di
tutto.»
Clay aveva compiuto
tredici anni, era alle medie.
Era stato convocato
nell’aula di un consulente, da cui era appena uscito Henry. Gli era
stato chiesto se avesse bisogno di parlare. Questo, giorni prima
dell’arrivo di Claudia Kirkby.
Il nome del consulente
era Fuller.
Come Claudia, nemmeno
lui era psicologo, ma solo un insegnante cui era stato affidato
quell’incarico, ed era una brava persona. Ma perché Clay avrebbe
dovuto avere voglia di parlare con lui? Sinceramente, non ne vedeva
lo scopo.
«Sai», gli aveva detto
il professore, che era piuttosto giovane e indossava una camicia
azzurra e una cravatta con delle rane (Rane?, si era chiesto mio
fratello), «a volte viene più facile aprirsi con qualcuno al di
fuori della propria famiglia.»
«Io sto
bene.»
«Ok, be’… io sono
qui.»
«Grazie. Adesso torno a
lezione di matematica?»
C’erano stati momenti
brutti, naturalmente, momenti terribili. Per esempio quando
l’avevamo trovata sul pavimento del bagno, come una rondine di mare
che non aveva retto alla distanza.
E poi lei nel corridoio,
con papà che la sorreggeva e la aiutava a percorrerlo. Lui era un
perfetto idiota, ci fissava e mimava con le labbra: Guardate
quant’è bella!, mentre badava a non lasciarle lividi.
Lividi, graffi.
Lesioni.
Non c’era nulla per cui
valesse la pena di correre il rischio di farle male.
Si sarebbero dovuti
fermare al pianoforte per una pausa sigaretta.
Ma non ci sono pause
quando stai morendo, credo. È un procedimento inesorabile, e
inarrestabile. È stupido descrivere la situazione in questi
termini, lo so, ma quando arrivi a quel punto non t’importa più. È
come morire al doppio della velocità.
Certe mattine avevamo
dovuto costringerla a fare colazione, a venire al tavolo della
cucina; non riusciva mai a finire i corn-flakes.
Poi c’era stata quella
volta di Henry, nel garage.
Stava prendendo a pugni
come un matto un tappeto arrotolato, finché mi aveva visto e si era
accasciato a terra.
Io ero rimasto dov’ero,
indifeso, scardinato.
Poi ero andato da lui e
gli avevo teso la mano.
C’era voluto un minuto
perché l’afferrasse, e insieme eravamo tornati in
cortile.
A volte andavamo tutti
in camera sua.
Sul letto, o sdraiati
sulla moquette.
Eravamo ragazzi e corpi,
distesi lì per lei.
Eravamo prigionieri di
guerra.
E, naturalmente, in
seguito avremmo fatto lo stesso, il giorno dell’anniversario, con
il sottoscritto che leggeva un brano dell’Odissea.
Solo che allora era
stato Michael a leggere.
Un brano che parlava del
mare, e di Itaca.
In piedi, alla finestra
della camera.
Veniva regolarmente
un’infermiera a controllare le sue condizioni. Le dava la morfina,
e a fatica le prendeva i battiti.
O forse si concentrava
in quel modo per dimenticare?
Per ignorare lo scopo
della sua visita, per non pensare a chi fosse e a cosa
facesse?
Era la voce che le
diceva di lasciarsi andare.
*
Mamma era un prodigio, a quel punto, ma un
prodigio di triste decadenza.
Era un deserto sostenuto
dai cuscini.
Le labbra secche,
inaridite.
Il corpo rovesciato tra
le coperte.
I capelli che tenevano
duro.
Papà poteva leggere
degli Achei, e delle navi pronte a lanciarsi per mare.
Ma non c’erano più
selvagge distese d’acqua.
Niente più mari colore
del vino.
Solo un’unica barca
ormai marcia, però incapace di colare a picco.
Però sì.
Sì,
dannazione!
C’erano anche momenti
belli, momenti fantastici.
Come quando Rory e Henry
andavano fuori dall’aula di matematica o di scienze di Clay, e,
tranquilli, lo aspettavano appoggiati al muro.
I capelli ruggine
scuro.
Il sorriso che deviava
all’improvviso.
«Dai Clay,
andiamo.»
Correvano a casa e si
sedevano con lei, e Clay leggeva, e Rory diceva: «Io proprio non
capisco perché Achille sia così fifone».
E lei muoveva appena le
labbra, ormai.
Aveva ancora dei doni,
per noi.
«Agamennone gli ha
rubato la fidanzata.»
Papà li riaccompagnava a
scuola in auto, e faceva loro una ramanzina tenendo lo sguardo
fisso sul parabrezza, ma era chiaro che non era convinto nemmeno
lui di quello che diceva.
C’erano delle sere in
cui rimanevamo alzati fino a tardi a guardare vecchi film seduti
sul divano: da Gli uccelli
a Fronte del
porto, fino a cose che mai ci saremmo
aspettati potessero piacerle, come Interceptor e
Interceptor - Il guerriero della
strada. I suoi preferiti erano sempre
quelli degli anni Ottanta. A dire la verità, quei due erano gli
unici che Henry e Rory tollerassero. Gli altri erano troppo lenti.
Quando cominciavano a lagnarsi, lei sorrideva.
«Sono di una noia
mortale, cazzo!» Questo li faceva sentire al sicuro, come ogni
routine.
Un
metronomo.
E alla fine era giunta
la mattina a cui volevo arrivare, e credo lei sapesse che era quasi
ora… Ed era venuta a chiamarlo alle tre.
Era entrata in camera
nostra portandosi dietro la flebo, e all’inizio si erano messi sul
divano.
Ormai per sorridere
aveva bisogno di una gru che le sollevasse gli angoli della
bocca.
Il viso era
devastato.
«Clay, è ora, ok?» E gli
aveva raccontato tutto, dandogli la versione completa e corretta.
Lui aveva soltanto tredici anni, era ancora troppo piccolo, ma lei
gli aveva detto che era il momento. Gli aveva parlato di cose
avvenute in Pepper Street, gli aveva rivelato segreti riguardo al
sesso, ai quadri. «Dovresti chiedere a tuo padre di disegnare, un
giorno», gli aveva suggerito. Di nuovo, si era tirata su per poi
lasciarsi cadere. «Ma ignora la faccia che farà.»
Dopo un po’, però, aveva
detto di sentire caldo.
«Possiamo uscire sulla
veranda?»
Pioveva, e la pioggia
era illuminata – era talmente sottile da brillare nella luce dei
lampioni –, e si erano seduti con le gambe allungate in avanti e la
schiena appoggiata al muro. Lentamente, lo aveva attirato a
sé.
Aveva barattato la sua
vita con quelle storie.
Dall’Europa a
Featherton.
Una ragazza di nome
Abbey Hanley.
Un libro,
intitolato Il
cavatore.
Che lei si era portata
via, quando l’aveva lasciato.
«Lo sai che tuo padre
una volta sotterrò una macchina da scrivere?» gli aveva raccontato,
con quella dovizia di dettagli tipica dei momenti vicini alla
morte. Gli aveva detto di Adelle, la madre di lui, e del colletto
inamidato – della vecchia MDS, come la chiamava lei – e della volta
in cui erano andati insieme in quella città che sembrava un vecchio
cortile sul retro di una casa, e avevano seppellito la vecchia e
magnifica Remington… Una macchina da scrivere che rappresentava una
vita, che rappresentava tutto quanto. «È questo che siamo,
veramente.»
Alla fine, la pioggia si
era fatta addirittura più debole.
La flebo era quasi
caduta.
Il quarto Dunbar era
attonito.
Come può un ragazzino di
tredici anni starsene seduto e raccogliere tante storie? E tutte
insieme?
Ma naturalmente aveva
capito.
Era assonnato, ma anche
sveglio.
Quella mattina erano
entrambi mucchietti d’ossa in pigiama. Clay, di noi, era l’unico
che amasse le loro storie con tutto il cuore. Era di lui che
Penelope si fidava ciecamente. Era lui che, nella sua
immaginazione, un giorno sarebbe andato a riesumare la vecchia MDS.
Che scherzi crudeli può giocare il destino.
Mi chiedo quando Clay lo
capì.
Perché poi avrebbe dato
a me tutte le indicazioni.
Mancava ancora mezz’ora
all’alba, e a volte esiste davvero la fortuna… perché il vento
aveva cominciato a cambiare. Era arrivato di lato, come un’ombra, e
li aveva sorpresi così sulla veranda. Era sceso e li aveva avvolti.
«Ehi», aveva detto lei, «ehi, Clay», e lui si era avvicinato un
pochino di più al suo viso biondo e fragile. Gli occhi infossati
erano chiusi. «Adesso raccontami tu qualcosa.»
E lui, che avrebbe
potuto crollare, piangere e urlare sulle sue ginocchia, le aveva
chiesto, semplicemente: «Da dove inizio?»
«Da dove vuoi.» Aveva
deglutito. E Clay si era bloccato, e aveva aiutato le parole a
uscire.
«C’era una volta una
donna che aveva molti nomi.»
Lei aveva sorriso, con
gli occhi chiusi.
Aveva sorriso e,
lentamente, l’aveva corretto.
«No…» aveva sussurrato,
e la voce era quella di una persona che sta morendo.
«Così…» La voce della
sopravvivenza.
Aveva fatto uno sforzo
immane per restare con lui.
Non aveva più voluto
aprire gli occhi, ma aveva girato la testa per dire: «C’era una
volta, nella marea del passato dei Dunbar, una donna che aveva
molti nomi». Parole che venivano da lontano, seppure lei fosse lì
accanto a lui, e Clay era andato in quella direzione, perché aveva
qualcosa da aggiungere.
«E che donna
era.»
Dopo tre settimane, se
n’era andata.