La donna che divenne uno dei ragazzi
Dunbar
Alla fine del mio primo anno di superiori, era
piuttosto evidente che il problema di nostra madre era gravissimo.
Era sempre più magra; i momenti in cui si sentiva bene sarebbero
stati sempre meno. C’erano giorni normali, apparentemente, o in cui
imitavamo un’esistenza normale. Finta normalità, o normale
finzione, non so che cosa facessimo con esattezza.
Forse, semplicemente,
avevamo tutti una vita, dovevamo tirare avanti, Penelope inclusa;
noi continuavamo a essere trattati da ragazzi. Tenevamo la
situazione sotto controllo.
C’era sempre
l’operazione del taglio di capelli, c’era Beethoven.
Per ciascuno di noi
c’era qualcosa di personale.
Capisci che tua madre
sta morendo quando ti prende da parte e concede del tempo solo a
te.
E per noi quei momenti
erano pietre su cui saltare, da una all’altra.
I miei fratelli erano
ancora alle elementari (Rory all’ultimo anno), e ci si aspettava
che non smettessero di studiare il pianoforte, anche quando lei era
in ospedale. Anni dopo, Henry si sarebbe detto pronto a giurare che
lei aveva resistito solo per torturarli con gli esercizi, o solo
per chiedere se li avessero fatti, indipendentemente dal letto in
cui si trovava – se tra le lenzuola sbiadite di casa, o tra quelle
altre, quelle tristi, candeggiate, di un bianco
impeccabile.
Il problema era che
certi fatti ormai erano incontrovertibilmente chiari (e Penelope
alla fine si era rassegnata all’evidenza).
I suoi ragazzi erano
molto più bravi a fare a pugni.
Come pianisti erano uno
schifo.
Riguardo alle domande,
oramai si erano ridotte a un rituale.
Quasi sempre in
ospedale, lei chiedeva se si erano esercitati, e loro mentivano
dicendo di sì. Spesso si presentavano con le labbra spaccate e le
nocche spellate, e Penny, madida di sudore e con il suo colorito
giallastro, li guardava con sospetto. «Che accidenti sta
succedendo?»
«Niente, mamma.
Davvero.»
«Vi state
esercitando?»
«A fare
che?»
«Lo
sapete.»
«Certamente.» Era Henry
a parlare. Indicava i lividi. «Che cosa pensi che siano, questi?» E
quel sorriso che già deviava.
«Che cosa intendi
dire?»
«Beethoven. Lo sai che è
un tipo tosto.»
Le sanguinava il naso,
se sorrideva.
Quando tornava a casa,
li faceva sedere al pianoforte per ascoltare i loro progressi,
mentre lei si consumava sulla sedia accanto allo
sgabello.
«Tu non ti sei mai
esercitato», aveva detto una volta a Rory, indignata ma anche
divertita.
Lui aveva abbassato lo
sguardo e lo aveva ammesso. «Sì, è vero.»
Una volta, Clay si era
interrotto a metà pezzo.
Comunque, lo stava
massacrando.
Anche lui aveva una
leggera ombra blu sotto un occhio, in seguito a una scazzottata in
cui era stato tirato dentro con Henry.
«Perché ti sei fermato?»
gli aveva chiesto. Ma poi si era addolcita. «Vuoi che ti racconti
una storia?»
«No, non è per questo.»
Aveva deglutito, fissando i tasti. «Pensavo che… magari potresti
suonare tu.»
E lei l’aveva
fatto.
Il Minuetto in Sol.
Perfetto.
Nota per
nota.
Era passato tanto tempo,
ma lui si era messo in ginocchio e aveva posato la testa sulle sue
gambe.
Le cosce erano diventate
sottili come carta.
In quel periodo c’era
stato un ultimo combattimento memorabile, tornando da scuola. Rory,
Henry e Clay. Altri quattro ragazzi contro di loro. Tommy era in
disparte. Una donna li aveva schizzati con la canna dell’acqua, una
di quelle valide, con un buon ugello. Ottima pressione.
«Andatevene!» aveva urlato. «Smettetela.»
«Smettetela», le aveva fatto
eco Henry, guadagnandosi un’altra innaffiata. «Ehi! E questa per
che cosa diavolo era?»
La signora era in
camicia da notte e infradito consumate, alle tre e mezzo del
pomeriggio. «Perché hai fatto l’insolente», e l’aveva bagnato di
nuovo. «E quest’altra è per l’imprecazione.»
«Bel tubo,
complimenti.»
«Grazie. Adesso levatevi
dalle palle.»
Clay l’aveva aiutato a
rialzarsi.
Rory era andato avanti,
tastandosi la mascella. E a casa avevano trovato un biglietto. Lei
era tornata dentro. Tra le temute lenzuola bianche. In fondo al
foglio c’era una faccina sorridente, con i capelli lunghi che
scendevano ai lati. Sotto, c’era scritto così:
OK! POTETE MOLLARE IL
PIANOFORTE!
MA VE NE PENTIRETE,
PICCOLI BASTARDI!
Per certi aspetti era
poesia, ma non nel senso più raffinato del termine.
Lei ci aveva insegnato
Mozart e Beethoven.
Noi avevamo contribuito
decisamente a incrementare il suo repertorio di
parolacce.
Poco dopo, aveva preso
una decisione.
Avrebbe fatto qualcosa
con ciascuno di noi. Forse voleva lasciarci un ricordo che fosse
soltanto nostro. Io però spero che l’avesse fatto per se
stessa.
Nel mio caso, avevamo
guardato un film.
C’era un vecchio cinema,
in città.
The Halfway
Twin, si chiamava così.
Tutti i mercoledì sera
davano un vecchio film, di solito straniero. Svedese, nel nostro
caso. La mia vita a quattro
zampe.
C’erano una decina di
persone, oltre a noi.
Avevo già finito i
pop-corn prima ancora che cominciasse.
Penny aveva litigato con
un gelato ricoperto di cioccolato.
Mi ero innamorato di
Saga, la ragazza maschiaccio del film, e avevo fatto fatica a
leggere i sottotitoli velocissimi.
Alla fine, eravamo
rimasti lì, nella sala buia.
Ancora oggi mi fermo a
leggere i titoli di coda.
«Allora?» mi aveva
chiesto Penelope. «Opinione?»
«Fantastico», le avevo
detto, perché lo era.
«Ti sei innamorato di
Saga?» Il gelato era morto, nel suo involucro di
plastica.
La mia bocca non aveva
proferito parola, ero arrossito.
Mia madre era una specie
di miracolo, un miracolo di capelli lunghi ma fragili.
Mi aveva preso la mano e
aveva sussurrato.
«Va bene così, me ne
sono innamorata anch’io.»
Per Rory era stata una
partita di football, in tribuna.
Per Henry un giro in un
mercatino dell’usato, dove aveva fatto affari d’oro e trattato i
venditori con sufficienza.
«Un dollaro per quello
yo-yo pidocchioso? Ma avete visto in che condizioni è mia
madre?»
«Henry», l’aveva preso
in giro lei. «Andiamo. È meschino persino per te.»
«Merda, Penny, non sei
divertente», ma nelle voci di entrambi si nascondeva una risata. E
poi Henry aveva portato via lo yo-yo per trentacinque
centesimi.
Se dovessi scegliere,
tuttavia, direi che era stato il suo momento con Tommy quello che
in assoluto avrebbe influenzato di più le cose, al di là di ciò che
aveva fatto con Clay. Con il più piccolo era andata al museo; la
sua sala preferita era quella dedicata al Pianeta
Selvaggio.
Per ore avevano
camminato lungo i corridoi.
Una catena di montaggio
di animali.
Un viaggio attraverso le
pellicce e la tassidermia.
Erano troppi per fare un
elenco dei preferiti, ma dingo e leoni occupavano un posto d’onore
nella classifica, insieme al bizzarro e meraviglioso tilacino. A
letto, quella sera, Tommy aveva continuato a parlare; ci aveva
raccontato delle tigri della Tasmania. Aveva ripetuto ancora e
ancora quel nome: tilacino. Aveva detto che somigliava a un
cane.
«A un
cane!» aveva
esclamato, quasi urlando.
In camera regnavano il
buio e il silenzio.
Si era addormentato a
metà frase, e in seguito il suo amore per gli animali avrebbe
portato a Rosy e a Hector; a Telemachus e Agamennon; e,
naturalmente, alla bestia più grossa e cocciuta. Poteva solo finire
con Achilles.
Quanto a Clay, era stata
con lui in molti posti e in nessuno.
Noi eravamo
usciti.
Eravamo andati in
spiaggia con Michael.
Non appena avevamo
varcato la soglia, Penelope l’aveva invitato; «Ehi, Clay, metti su
il tè e raggiungimi qui fuori.» Ma era stato più una sorta di
riscaldamento.
Quando l’aveva
raggiunta, lei era già seduta sul pavimento della veranda, la
schiena contro la parete, il sole come un manto su di lei. C’erano
dei piccioni sui fili della corrente. La città era lunga e aperta;
da lontano giungeva il suo canto.
Quando beveva il tè, lei
se ne scolava una cisterna, ma la aiutava a parlare, e Clay aveva
ascoltato con attenzione. Gli aveva chiesto quanti anni
avesse.
«Nove», le aveva
risposto.
«Credo allora che tu sia
grande abbastanza da sapere… da cominciare a sapere, almeno, che
c’è dell’altro…» E da lì, come sempre, era partita dalle case di
carta, e alla fine gli aveva ricordato questo: «Un giorno, Clay, ti
racconterò alcune cose di cui nessuno è a conoscenza, ma solo se
vorrai sentirle…»
Si riferiva ai
quasi tutto.
Che
privilegiato.
Gli aveva passato la
mano tra i capelli di bambino, il sole era molto più basso. Il suo
tè si era rovesciato, e lui aveva annuito
solennemente.
La sera eravamo tornati
tutti a casa, pieni di sabbia e stanchi dopo la spiaggia, e Penny e
Clay dormivano. Sembravano cuciti insieme, sul divano.
Qualche giorno dopo, lui
era stato tentato di chiederle quando sarebbero arrivate quelle
ultime storie di cui gli aveva parlato, ma aveva avuto abbastanza
disciplina da non farlo. Forse, in qualche modo lo sapeva:
sarebbero arrivate quando la fine fosse stata vicina.
E poi, come sempre, il
tempo era passato in un lampo, le settimane erano diventate mesi, e
presto lei si era dovuta sottoporre ad altre cure.
Erano terminati i
momenti dedicati a ciascuno di noi.
C’eravamo dovuti
abituare a ricevere brutte notizie.
«Be’», ci aveva detto,
schietta, «mi porteranno via i capelli… quindi credo che adesso
tocchi a voi tagliare. Potremmo batterli sul tempo.»
C’eravamo messi in coda.
Si era capovolto tutto: erano i barbieri a formare una fila,
riflessi nel tostapane.
Ricordo poche cose di
quella sera: che Tommy era andato per primo, controvoglia. Ma poi
lei gli aveva strappato una risata con una barzelletta su un cane e
una pecora in un bar. Portava ancora quei maledetti pantaloncini
hawaiani, e le aveva tagliato i capelli stortissimi.
Poi era andato Clay, e
dopo ancora Henry; per quarto Rory, che le aveva chiesto: «Taglio
da soldato?»
«Certo», aveva risposto
Penny. «Perché no?» L’aveva guardato, concentrata. «Rory, fa’ un
po’ vedere… Tu sei quello con gli occhi più strani.» Erano pesanti,
ma dolci, come argento. I capelli di lei erano corti, stavano
sparendo.
Quando era venuto il mio
turno, si era allungata a prendere il tostapane usandolo a mo’ di
specchio. Mi aveva supplicato di avere un po’ di pietà. «Tagliali
bene e fai in fretta.»
Alla fine era stata la
volta di nostro padre, che non si era sottratto al suo dovere; le
aveva posizionato la testa ben diritta e, quando aveva finito,
l’aveva accarezzata lentamente; le aveva massaggiato il taglio da
ragazzino, e lei aveva apprezzato e chinato il capo in avanti. Non
poteva vederlo, alle sue spalle, e non poteva vedere il suo viso,
che cambiava di continuo, né i capelli biondi ai suoi piedi. Non
poteva vedere nemmeno quanto era devastato, mentre noi cinque
eravamo rimasti lì, a guardarli. Lei indossava calzoncini e
maglietta, ed era scalza, e forse era stato quello il colpo di
grazia.
Che fosse diventata così
simile ai ragazzi Dunbar.
Con quel taglio di
capelli, era una di noi.