Il Surrounds
E così adesso sapete chi era nostra madre.
Ghiaccio e neve, tanti anni fa.
E ora guardate qui, Clay, in un futuro lontano.
Che cosa possiamo dire?
Dove e come ricominciò la vita, per lui, l’indomani?
In realtà accadde in modo piuttosto semplice, con una moltitudine di persone in attesa.
Si svegliò nella camera più grande della città.
Era perfetto, per Clay. Un altro posto strano ma sacro: un letto, in un campo, con l’alba che accendeva il cielo e i tetti in lontananza; o, volendo essere più precisi, era un vecchio materasso sbiadito, che giaceva a terra.
A dire il vero ci andava spesso (e sempre di sabato sera), ma era da parecchi mesi, ormai, che non si fermava fino al mattino nel campo dietro casa. Comunque, era un privilegio stranamente confortante; il materasso era sopravvissuto molto più a lungo di quanto avrebbe dovuto.
In quello spirito, gli apparve tutto normale quando aprì gli occhi.
Regnava il silenzio, il mondo era immobile come un dipinto.
Ma poi si sollevò, incespicando, e crollò di nuovo.
Dove sono andato? Che cosa ho fatto?
Ufficialmente, si chiamava Surrounds.
Era una pista per allenamento, con scuderia adiacente.
Questo però anni prima, in un’altra vita.
Allora era il ritrovo di proprietari squattrinati, addestratori in difficoltà e fantini scarsi che andavano lì a lavorare e a pregare.
Un velocista pigro. Un cavallo da lunghe distanze. Santo Dio, ce n’era uno capace di elevarsi al di sopra del mucchio?
Poi avevano ricevuto un regalo speciale dal Club Nazionale dei Fantini.
Un’ordinanza di pignoramento. La devastazione.
Il piano era svendere la pista, ma ci era voluto quasi un decennio e, tipico di questa città, non se n’era ancora fatto nulla. Restava solo il vuoto: un recinto gigantesco che racchiudeva una superficie irregolare, e un giardino pieno di rifiuti casalinghi che fungevano da sculture.
Televisori che non funzionavano. Lavatrici malridotte.
Microonde catapultati.
Un materasso ancora non sfondato.
Tutte queste cose, e altre, erano posizionate qua e là sul terreno e, mentre per molti era solo l’ennesima scena urbana di abbandono e incuria, per Clay era un ricordo. Dopotutto, era lì che Penelope, sbirciando oltre la recinzione, aveva deciso di andare a vivere in Archer Street. Era lì che un giorno ci eravamo ritrovati tutti insieme, con un fiammifero acceso nel vento che soffiava da ponente.
Un’altra cosa da sottolineare era il fatto che al Surrounds, da quando era stato lasciato a se stesso, l’erba non era cresciuta un granché; era l’anti Bernborough Park: erba bassa e rada in alcune aree, alta fino al ginocchio e filamentosa in altre, e in una di esse Clay si era appena svegliato.
Anni dopo, quando lo interrogai al riguardo, rimase in silenzio per un lungo momento. Distolse lo sguardo. «Non so», mi disse. «Forse è troppo triste e non cresce più…» Ma abbandonò subito l’idea. Era solo una filippica sentimentale. «Anzi, dimentica quello che ho detto.»
Ma non posso.
Non posso dimenticare, perché non riuscirò mai a capire.
Una notte, in quel luogo, avrebbe trovato la bellezza più pura.
E avrebbe commesso il suo errore più grande.
Ma torniamo a quella mattina. Il primo giorno dopo la visita dell’Assassino, Clay era disteso, raggomitolato. Poi si raddrizzò. Il sole non si era levato così tanto da tirarlo in piedi, e allora sentì qualcosa di leggero e sottile nella tasca sinistra dei jeans, sotto la molletta da bucato rotta. Per il momento decise di ignorarlo.
Si sdraiò di traverso.
Gli parve di sentirla…
Ma è mattina, si disse, ed è giovedì.
In certe situazioni, il pensiero di lei gli faceva male.
I suoi capelli sul collo.
La bocca.
Le ossa, i seni e, infine, il suo respiro.
«Clay.» In quell’istante lo sentì un po’ più forte. «Sono io.»
Ma avrebbe dovuto aspettare sabato.
Il ponte d'argilla
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