Due porte
Combinazione del lucchetto a parte, c’erano
due porte da affrontare, e la prima era quella di Ennis McAndrew,
che viveva appena fuori dal quartiere delle corse.
La casa era una delle
più grandi.
Era vecchia e bella, con
il tetto di lamiera.
E aveva un gigantesco
porticato di legno.
Clay andava là, faceva
il giro dell’isolato.
C’erano delle camelie
nei giardini delle case, e qualche magnolia enorme. Molte cassette
delle lettere erano vecchio stile. Rory avrebbe senz’altro
approvato.
Non avrebbe saputo dire
quanti giri avesse fatto – com’era successo in passato a Penny e
Michael – passando davanti a una certa porta.
Era pesante e
rossa.
A volte, gli sembrava di
distinguere le pennellate di vernice.
Le porte delle altre
abitazioni erano magnifiche. Ma Clay sapeva che quella non lo
sarebbe mai stata.
*
E poi c’era la seconda.
Quella sul lato opposto
di Archer Street, in diagonale rispetto alla nostra.
Quella di Ted e
Catherine Novac.
Clay la guardava dalla
veranda, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, e intanto
lavorava con me. Non era ancora tornato a Bernborough, non era
stato al cimitero, non era salito sul tetto. Sicuramente non era
stato al Surrounds. Se ne andava in giro trascinandosi dietro la
sua colpa.
A un certo punto,
cedetti; gli chiesi se sarebbe tornato al ponte, e lui riuscì solo
ad alzare le spalle.
Lo so: una volta l’avevo
picchiato, perché se n’era andato.
Ma era chiaro che doveva
finire.
Nessuno poteva vivere
così.
E alla fine lo fece,
salì i gradini di McAndrew.
Gli aprì una signora
anziana.
Aveva i capelli tinti e
con la permanente… e, per quanto mi riguarda, non sono d’accordo
con Clay, perché quella porta divenne magnifica e gloriosa
nel momento in cui lui andò a bussare.
«Posso fare qualcosa per
te?»
Mio fratello diede il
meglio e il peggio di sé: «Perdoni il disturbo, signora McAndrew,
ma se non le dispiace vorrei parlare con suo marito. È possibile?
Mi chiamo Clay Dunbar.»
Il vecchio dentro casa
conosceva quel nome.
Lo conoscevano anche a
casa Novac, ma come il ragazzo che avevano visto sul
tetto.
«Vieni, entra», gli
dissero, e furono di una dolcezza esasperante, che faceva quasi
male. Prepararono il tè, e Ted gli strinse la mano e gli chiese
come stava. Catherine Novac gli sorrise, ed era un sorriso che
serviva a impedirle di morire, o di piangere, o forse entrambe le
cose; difficile da stabilire.
Comunque, quando disse
loro ciò che era andato a dire, badò a non guardare il punto in cui
si era seduta lei, quel giorno, mentre ascoltavano la radiocronaca
della corsa giù a sud, quella in cui il fuoriclasse aveva fallito.
Il suo tè era ancora tutto nella tazza, ormai freddo.
Raccontò che cos’aveva
significato per loro il sabato sera.
Il materasso, il telo di
plastica.
Parlò di Matador nella
quinta.
Rivelò di essersi
innamorato di lei nell’istante stesso in cui gli aveva rivolto la
parola per la prima volta, e disse che era colpa sua, soltanto sua.
Si sciolse, ma non crollò, perché non meritava lacrime né
comprensione. «La notte prima che lei cadesse, ci eravamo
incontrati là, ed eravamo nudi, e…»
Si interruppe perché
Catherine Novac – muovendo i capelli tra il biondo e il rosso –
stava andando verso di lui. Lo fece alzare, con gentilezza, e lo
abbracciò forte… tanto forte… e gli accarezzò i capelli corti e
piatti, e fu talmente bello che Clay provò dolore.
«Sei venuto da noi», gli
disse, «sei venuto, sei venuto.»
Capite? Ted e Catherine
Novac non davano la colpa a nessuno, o almeno non a quel povero
ragazzo.
Erano stati loro che
l’avevano portata in città.
Conoscendo i
rischi.
E poi, come ho
anticipato, andò dal vecchio McAndrew.
C’erano foto
incorniciate di cavalli.
Foto incorniciate di
fantini.
La luce, in casa, era
arancione.
«Io ti conosco», esordì
l’anziano, che di persona sembrava più piccolo, come un ramoscello
spezzato in poltrona. Nel prossimo capitolo vi riporterò a quel
momento, a quando Ennis McAndrew aveva spiegato a Carey cosa
avrebbe dovuto fare. «Sei il ramo secco che le avevo detto di
tagliare.» I capelli bianchi tendevano al giallo. Portava gli
occhiali. Aveva una penna in tasca. Gli brillavano gli occhi, ma
non era un luccichio di gioia. «Suppongo tu sia venuto a
incolparmi, vero?»
Clay era seduto sulla
poltrona di fronte.
Lo guardò, la schiena
diritta, rigida.
«Nossignore, sono venuto
a dirle che aveva ragione lei.» Lo colse alla
sprovvista.
«Come?»
«Signore,
io…»
«Chiamami Ennis, Cristo
santo, e sputa il rospo.»
«Ok, be’…»
«Ho detto: ‘Sputa il
rospo’.»
Clay deglutì. «Non è
stata colpa sua, ma mia.» Non gli rivelò quello che aveva rivelato
ai Novac, ma si assicurò che McAndrew vedesse. «Non era mai
riuscita a sbarazzarsi del tutto di me, sa? Ed è così che è
successo. Probabilmente era troppo stanca, non si è concentrata
abbastanza…»
McAndrew annuì,
lentamente. «Si è persa, mentre era in sella.»
«Sì, credo sia andata
così.»
«Eri con lei, la notte
prima.»
«Sì», confermò Clay, e
poi se ne andò.
Ma, quando era in fondo
ai gradini, Ennis uscì con la moglie, e lo chiamò.
«Ehi! Clay
Dunbar!»
Clay si
girò.
«Non hai idea di cosa ho
visto combinare ai fantini, negli anni», disse, d’un tratto
empatico e comprensivo, «e per cose che valevano molto meno di te.»
Scese persino la scala, gli andò incontro sul cancello. «Ascolta
me, figliolo.» Per la prima volta Clay notò che aveva un dente
d’argento, inclinato, in fondo alla bocca dalla parte destra. «Non
riesco nemmeno a immaginare quanto debba esserti costato venire a
raccontarmi tutto questo.»
«Grazie,
signore.»
«Perché non torni
dentro?»
«Dovrei andare a
casa.»
«Ok, ma se c’è qualcosa
che posso fare per te, qualunque cosa, fammelo
sapere.»
«Signor
McAndrew?»
Il vecchio si fermò,
aveva il giornale sotto il braccio. Sollevò appena la
testa.
Era quasi sul punto di
chiedergli quanto fosse stata brava Carey, o quanto sarebbe potuta
diventare brava, ma sapeva che nessuno dei due l’avrebbe
sopportato, e così tentò un’altra strada. «Continuerà ad allenare?»
gli chiese. «Non sarebbe giusto, se smettesse. Non è stata colpa
sua…»
Ed Ennis McAndrew si
appoggiò un momento alla cassetta delle lettere, sistemò il
giornale e risalì il vialetto. «Clay Dunbar», mormorò tra sé, ma
vorrei che fosse stato più chiaro.
Avrebbe dovuto dire
qualcosa di Phar Lap.
(Non ci siamo ancora
arrivati, presto ve ne parlerò.)
La visita a casa Novac
poteva concludersi solo con il ritrovamento.
L’accendino, la scatola
e la lettera.
Loro non sapevano nulla,
perché non avevano ancora toccato il suo letto, e la scatola era
sul pavimento, sotto.
MATADOR NELLA
QUINTA.
CAREY NOVAC
NELL’OTTAVA.
KINGSTON TOWN NON PUÒ
VINCERE.
Ted aveva sfiorato
l’incisione.
Ma a confondere Clay, e
a scatenargli qualcosa dentro, fu soprattutto il secondo di due
oggetti che Carey aveva aggiunto alla collezione, e che si trovava
nella scatola. Il primo era la fotografia che Michael gli aveva
chiesto di farle avere: il ragazzo in cima al ponte; il secondo,
però, non l’aveva avuto da lui. L’aveva rubato, e Clay non avrebbe
mai saputo quando, esattamente.
Era un oggetto chiaro ma
verde, di forma allungata.
Lei era stata a casa
nostra. Al 18 di Archer Street.
Aveva rubato una dannata
molletta da bucato.