Zátopek
Tornando a Michael e Abbey Dunbar, credo sia giunto il momento di porci una domanda.
In che cosa consisteva, realmente, la loro felicità?
Qual era la verità?
Quella vera?
Partiamo da tutti i quadri.
Senza dubbio lui era bravo a dipingere, a volte realizzava opere davvero belle; sapeva catturare un volto, o raffigurare le cose da un suo punto di vista. Come supporti usava sia la tela sia la carta, ma alla fine era perfettamente consapevole di faticare il doppio degli altri studenti, che in qualche modo erano più veloci di lui. E inoltre il suo talento si esprimeva soltanto in un’area limitata, a cui si aggrappava con tutto se stesso.
Era bravo a ritrarre Abbey.
Diverse volte era stato sul punto di mollare la scuola d’arte.
A impedirglielo era stato solo il pensiero di tornare da lei, e di ammettere di aver fallito. Così, era rimasto. E in qualche modo era riuscito a sopravvivere grazie a qualche tema ben scritto, e a qualche lampo di genio, quando la inseriva nello sfondo. C’era sempre qualcuno che diceva: «Ehi, questa parte mi piace». Pazienza e rivelazione erano solo per lei.
Per il compito finale, aveva trovato una porta abbandonata e vi aveva dipinto Abbey, su entrambi i lati. Sul primo, allungava la mano verso la maniglia, sull’altro, andava via. Entrava da adolescente, con la divisa scolastica, il corpo magro ma morbido, i capelli che non finivano mai. E se ne andava da donna in carriera, con i tacchi alti, il caschetto, voltandosi a guardare da sopra la spalla tutto quello che c’era stato in mezzo. Quando aveva ricevuto il risultato, già immaginava cosa avrebbe letto. E non si era sbagliato.
L’idea della porta è un cliché.
Padronanza della tecnica, ma nulla di più. Ammetto però di voler conoscere la donna del ritratto.
E di voler sapere che cosa c’è stato in mezzo.
Qualunque cosa ci fosse nel mondo che era compreso tra quelle due immagini, era chiaro che la donna sarebbe stata bene, dall’altra parte. Soprattutto – come poi sarebbe accaduto – senza di lui.
Quando erano tornati in città da sposini, avevano affittato una casetta in Pepper Street. Al numero 37. Abbey aveva trovato un impiego in banca – il primo per il quale avesse fatto domanda – e Michael lavorava nei cantieri, e dipingeva in garage.
Era stata sorprendente la rapidità con cui erano apparse le prime incrinature.
Non era trascorso neppure un anno.
Certe cose erano diventate evidenti, per esempio il fatto che fosse stato tutto quanto un’idea sua, di Abbey.
La casa in affitto, i piatti con il bordo nero.
Andavano al cinema quando lo proponeva lei, non lui, e, mentre dopo la laurea lei aveva fatto subito un salto in avanti, lui era rimasto dov’era sempre stato, in qualche cantiere; lei era una forza vitale, lui era una vita e basta. All’inizio, la fine era stata questa.
Notte.
Un letto.
Lei che sospirava.
Lui che alzava la testa per capire cosa avesse. «Che c’è?»
E lei: «Non così».
E da lì erano a passati da «Mostrami tu» a «Non posso continuare a insegnarti io», a «Che cosa intendi?», a lei che si metteva seduta e diceva: «Non posso farti vedere tutto, non posso portarti con me. Devi capirlo da solo».
Michael era scioccato dalla tranquillità con cui gli infliggeva quei colpi, con l’oscurità a pochi centimetri dalla finestra.
«Da quando stiamo insieme, non credo che tu abbia mai veramente…» Si era interrotta.
«Che abbia mai cosa?»
Aveva deglutito appena, preparandosi a rispondere. «Preso iniziative.»
«Iniziative? Riguardo a che?»
«Non lo so… riguardo a tutto. A dove viviamo, a cosa facciamo o mangiamo, a dove, quando, come…»
«Gesù, io…»
Abbey aveva raddrizzato appena la schiena. «Tu non mi prendi mai. Non mi fai mai sentire come se dovessi avermi, costi quello che costi. Mi fai sentire come…»
Michael non lo voleva sapere. «Come?»
Con un tono lievemente più leggero, gli aveva risposto: «Come quando ti ho trascinato sul pavimento, a casa…»
«Io…» Ma non c’era più niente, ormai.
Soltanto io.
Io e il niente.
Io e il respiro, e i vestiti appesi su una sedia… e Abbey non aveva finito.
«E poi c’è tutto il resto, come dicevo…»
«Tutto il resto?»
La stanza sembrava tenuta insieme da cuciture, che stavano per essere strappate. «Non lo so.» Aveva raddrizzato di nuovo la schiena, per prendere coraggio. «Forse, senza di me, saresti ancora a casa con quella massa di idioti in canottiera blu, e con quegli altri. Staresti ancora a pulire la merda dell’ambulatorio e lanciare mattoni a dei tizi che lanciano mattoni ad altri, più in alto.»
Michael aveva inghiottito il suo cuore, e anche un bel pezzo di buio. «Sono stato io a venire da te.»
«Quando ti è morta Moon.»
Quelle parole l’avevano colpito violentemente. «Moon. Da quanto aspettavi di sguinzagliarmela contro?» (Sono certo che il gioco di parole non fosse voluto.)
«Da mai. È venuta così.» Aveva incrociato le braccia, ma non si era coperta veramente, ed era bella, e nuda, le clavicole così dritte. «Forse è sempre stata lì.»
«Eri gelosa di Moon?»
«No!» Non riusciva proprio a cogliere il punto. «Sto solo… mi sto solo chiedendo perché impiegasti mesi per venire alla mia porta… Te ne stavi là a guardare, e ad aspettare! Sperando che lo facessi io per te… che ti inseguissi, lungo la strada.»
«E non lo facesti mai.»
«Certo che no… non potevo.» Non sapeva più dove guardare, e aveva optato per la sua gola. «Dio, non ci arrivi, eh?»
L’ultima domanda era risuonata come una sentenza di morte, una verità assolutamente tranquilla e brutale. La forza a cui aveva dovuto fare appello per pronunciarla l’aveva indebolita, anche se solo per un momento, ed era scivolata di nuovo sopra di lui, la guancia come una pietra sul suo collo. «Mi dispiace», gli aveva detto. «Mi dispiace tanto.»
Ma per qualche motivo lui aveva continuato.
Forse per accogliere la sconfitta ormai vicina.
«Dimmelo e basta.» Il sapore della sua voce. Era asciutta, e sabbiosa; e quei mattoni erano stati gettati a lui, che li stava inghiottendo uno alla volta. «Dimmi soltanto come posso rimediare.»
Improvvisamente l’atto di respirare era diventato una finale olimpionica, e dov’era Emil Zátopek quando aveva bisogno di lui?! Perché non si era allenato come quel cecoslovacco folle? Un atleta con la sua resistenza avrebbe retto senz’altro a una notte simile.
Ma Michael ce l’avrebbe fatta?
Di nuovo: «Dimmelo e basta. Rimedierò».
«Ma è proprio questo il punto.»
La voce di Abbey era orizzontale, piazzata lì, lasciata cadere sul suo petto. Non vi aveva colto ansia, né fatica.
Nemmeno il desiderio di sistemare.
«Forse non c’è niente da sistemare», aveva detto lei. Aveva concluso la frase e messo il punto. E poi aveva ricominciato. «Forse, semplicemente non siamo… giusti, come credevamo.»
L’ultimo respiro affannoso, di lui.
«Ma io…» Si era interrotto, strascicando le parole. «…così tanto.»
«Lo so», gli aveva detto lei, con una pietà che di pietoso non aveva nulla. «Anch’io, ma probabilmente non è abbastanza.»
Se avesse terminato la frase con una puntura di spillo, sarebbe morto dissanguato nel letto.
Il ponte d'argilla
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