Gli idioti
All’interno dello spogliatoio, i muri erano
coperti di tristi graffiti. Opera di dilettanti, tanto brutti da
risultare imbarazzanti. Seduto a piedi nudi, Clay li ignorò. Di
fronte a lui, Tommy stava togliendo dalla pancia di Rosy dell’erba
che le si era attaccata al pelo, ma poco dopo la border collie andò
da lui. Clay le mise una mano sul muso, gentile.
«Dunbar.»
C’erano altri sei
ragazzi, come c’era da aspettarsi, ciascuno davanti alla sua
piccola sezione di graffiti. Cinque di loro parlavano e
scherzavano. Uno era accompagnato da una ragazza. Era l’animale,
Starkey.
«Ehi,
Dunbar.»
«Che c’è?»
«Non dicevo a te, Tommy,
dannato imbecille.»
Clay alzò lo
sguardo.
«Tieni.» Starkey gli
lanciò un rotolo di nastro adesivo di carta, prendendolo in pieno
petto. Quando finì sul pavimento, Rosy lo afferrò e lo tenne tra i
denti; Clay la guardò, mentre l’altro sbraitava.
«Non voglio sentire
scuse quando ti sistemo, là fuori. Tutto qui. E poi ho dei ricordi
vividi di te che srotolavi quella roba quando eravamo più piccoli.
Aggiungo: là fuori ci sono un sacco di vetri rotti. Non vorrei che
ti ferissi quei bei piedini.»
«Hai detto ‘vividi’?»
chiese Tommy
«Perché, un teppista non
può conoscere qualche vocabolo? Ho detto anche ‘imbecille’, un
termine perfetto per quelli come te.» Starkey e la ragazza risero
della battuta, e Clay non poté non notare quanto lei fosse carina.
Si soffermò sul rossetto, che tingeva il sorriso di scuro. Gli
piaceva anche la spallina del reggiseno, e il modo in cui scivolava
giù dalla spalla. Non gli dava fastidio come si toccavano, quasi
fondendosi l’uno con l’altra: lei si era messa a cavalcioni su di
lui, con l’inguine sulla sua coscia. Era solo curioso, nulla di
più. Tanto per cominciare, non era Carey Novac. In secondo luogo,
non c’era niente di personale. Per quelli che stavano fuori, i
ragazzi negli spogliatoi erano ingranaggi di una bella macchina,
uno sporco intrattenimento. Per lui, erano colleghi all’interno di
un piano preciso. Fino a che punto potevano danneggiarlo? A cosa
poteva sopravvivere?
Sapeva che di lì a poco
sarebbero usciti, così si appoggiò al muro, chiuse gli occhi e
immaginò di avere Carey seduta accanto; immaginò di sentire le sue
braccia calde, leggere. Sul viso di lei le lentiggini diventavano
punture di spillo, così profonde e rosse, ma minuscole… era come un
diagramma o, meglio ancora, uno di quei disegni che si svelano a
poco a poco, unendo i puntini. In grembo teneva il libro con la
copertina chiara che leggevano a turno, con i caratteri color
bronzo percorsi da crepe: IL
CAVATORE.
Sotto il titolo c’era
scritto: Tutto quello che avete sempre
voluto sapere su Michelangelo Buonarroti – una cava inesauribile di
grandiosità. All’interno, era stata
strappata la primissima pagina – quella con la biografia
dell’autore –, di cui restava solo una riga. Il segnalibro era la
ricevuta di una scommessa recente.
Royal Hennessey, Corsa
5
#2 –
Matador
Solo vittoria: $
1
Poco dopo Carey si alzò
e si appoggiò a lui.
Sorrise con quella sua
espressione interessata, come se volesse affrontare ogni cosa nella
maniera più diretta possibile. Gli andò più vicina e cominciò;
appoggiò il labbro inferiore su quello superiore di Clay, tenendo
il libro in mezzo a loro. «Allora comprese che il mondo era quello,
e che era tutto una visione.»
Mentre citava una delle
sue pagine preferite, con la bocca continuò a toccare la sua – lo
fece tre, quattro, forse cinque volte – e poi si scostò
appena.
«Facciamo
sabato?»
Lui annuì, perché sabato
sera – mancavano tre giorni soltanto – si sarebbero incontrati
nella realtà, nell’altro campo dimenticato che lui amava.
Surrounds, si chiamava così. E lì si sarebbero distesi, svegli. I
capelli di lei avrebbero potuto fargli il solletico per ore, ma lui
non li avrebbe spostati, né si sarebbe mosso.
«Clay.» Carey stava
svanendo. «È ora.»
Però lui non voleva
aprire gli occhi.
Intanto, un ragazzino
con i denti da coniglio che chiamavano Ferret fu sostituito da
Rory. Succedeva sempre così, quando si presentava a Bernborough in
memoria dei vecchi tempi.
Percorse il tunnel ed
entrò nello spogliatoio deprimente; persino Starkey, vedendolo,
smise di pavoneggiarsi con la ragazza che lo accompagnava. Rory
alzò un dito e se lo portò alle labbra. Diede una strofinata
nemmeno troppo amichevole ai capelli di Tommy, e poi andò da Clay,
che era ancora seduto. Lo studiò, con un sorriso disinvolto,
fissandolo con quegli inestimabili occhi color
rottame.
«Ohi, Clay.» Non riuscì
a trattenersi. «Ancora con queste stronzate, eh?»
E Clay sorrise.
Doveva.
Sorrise, sì, ma non
sollevò lo sguardo.
«Pronti,
ragazzi?»
Cronometro alla mano,
Henry andò ad avvisarli che era ora.
Quando Clay si alzò da
terra, Tommy gli fece la solita domanda: era parte del
rituale.
Indicò la
tasca.
«Vuoi che te la tenga
io, Clay?»
E Clay rimase in
silenzio, ma a suo modo glielo disse.
La risposta era sempre
quella.
Non fece nemmeno no con
la testa.
Si lasciarono alle
spalle i graffiti.
Ripercorsero il tunnel e
uscirono.
Emersero alla
luce.
C’erano circa una
ventina di idioti, nell’arena, metà da un lato, metà dall’altro,
pronti a incitarli. Idioti che battevano le mani ad altri idioti,
terrificante. Era la cosa che a quella gente riusciva
meglio.
«Andiamo,
ragazzi!»
Le voci erano calde. Le
mani applaudivano.
«Dacci dentro, Clay!
Mangiateli, amico!»
La luce gialla rimaneva,
insistente, dietro la tribuna.
«Non ucciderlo,
Rory!»
«Picchia duro, Starkers,
brutto bastardo!»
Risate. Starkey si
fermò.
«Ohi.» Puntò il dito e
citò da un film: «Magari mi esercito con te, prima». Del «brutto
bastardo» non gli importava un accidenti, ma non sopportava quando
lo chiamavano Starkers. Si girò, e vide la sua ragazza che si
avventurava sui sedili della tribuna, che ormai andavano bene come
legna da ardere. Non aveva niente da spartire con quella marmaglia;
uno era già troppo. Starkey trascinò la sua mole dagli
altri.
Per un momento si
trovarono tutti sul rettilineo, ma poco dopo i ragazzi si
sparpagliarono. Sulla prima linea si sarebbero piazzati Seldom,
Maguire e Tinker: due erano forti e agili, il terzo era grosso come
una latrina di mattoni, ed era pronto a fermare Clay e a
soffocarlo.
La coppia sulla linea
dei duecento metri sarebbe stata formata da Schwartz e Starkey, un
perfetto gentiluomo il primo, una bestia patentata il secondo. Di
Schwartz però va detta una cosa: anche se era assolutamente
corretto, quasi all’eccesso, in gara aveva un impatto devastante.
Dopo, sarebbe stato tutto sorrisi smaglianti e pacche sulle spalle.
Ma in pista, all’altezza della gabbia per il lancio del disco, lo
avrebbe investito con la potenza di un treno.
Si misero in moto anche
gli scommettitori.
Come un’onda, salirono
fino alla fila più in alto della tribuna, per vedere oltre
l’infield.
I ragazzi in pista erano
pronti.
Si prendevano a pugni i
quadricipiti.
Allungavano i muscoli,
si davano schiaffi sulle braccia.
Sulla linea dei cento,
si disposero a una corsia di distanza l’uno dall’altro. Erano
circondati da un alone di luce pazzesco, le gambe sembravano in
fiamme. Era il sole, che scendeva dietro di loro.
Ai duecento, Schwartz
muoveva la testa da destra a sinistra. Sopracciglia e capelli
biondi, sguardo concentrato. Accanto a lui, Starkey sputò sulla
pista. Le basette erano sporche, i peli ritti, perpendicolari alle
guance. I capelli ricordavano uno zerbino. Di nuovo, guardò e
sputò.
«Ehi», fece l’altro,
senza staccare gli occhi dalla linea dei cento. «Potremmo chiuderla
in un secondo.»
«Quindi?»
E poi, all’ultimo
momento, sul rettilineo, a una cinquantina di metri dal traguardo,
si piazzò Rory, tranquillo, come se momenti simili avessero una
logica; e così doveva essere.