I cercatori
Nel nostro passato, c’erano stati degli eventi
che ci avevano indurito.
Nostra madre era
morta.
Nostro padre era
scappato.
Clay, una settimana più
tardi, era andato a cercarlo.
Durante i giorni
precedenti, ora dopo ora, qualcosa era cresciuto dentro di lui, ma
non era riuscito a capire che cosa fosse; somigliava alla tensione
che precede una partita di football, però non si dissolveva mai.
Forse la differenza stava nel fatto che le partite le giocavi.
Correvi in mezzo al campo; l’incontro cominciava e poi si
concludeva. Invece ciò che provava no. Quello era un inizio
costante.
Come tutti noi, anche
lui sentiva la mancanza di papà, in un modo strano, logoro,
stanco.
Quella di Penny era già
abbastanza dura da sopportare.
Almeno, con lei sapevi
come comportarti; è il bello della morte, il fatto che sia
definitiva. Con papà c’erano troppe domande, e pensieri molto più
pericolosi.
Come aveva potuto
lasciarci?
Dov’era
andato?
Stava bene?
Quella mattina, una
settimana più tardi, quando Clay si era svegliato, si era alzato e
si era vestito in camera. Poco dopo era uscito; aveva avvertito il
bisogno di colmare quel vuoto. La sua reazione era stata improvvisa
e semplice.
Una volta in strada, si
era messo a correre.
Ricordate? Papà, PAPÀ,
DOVE SEI PAPÀ?
Ma non riusciva a
urlare.
Faceva freddo, era
primavera.
Aveva corso a
perdifiato, all’inizio, e poi aveva camminato. Era ancora buio. In
preda alla paura e all’eccitazione, non sapeva nemmeno dove stesse
andando. Quando aveva cominciato a chiamarlo, dentro di sé, si era
reso conto in fretta di essersi perso. Ma aveva avuto fortuna, ed
era riuscito a tornare a casa.
Al suo arrivo, io ero in
veranda.
Ero sceso dai gradini e
lo avevo afferrato per il colletto.
Lo avevo tenuto stretto,
con un braccio.
Come ho detto, avevo
compiuto diciotto anni.
E pensavo di dovermi
comportare da adulto.
«Stai bene?» gli avevo
chiesto, e lui aveva annuito.
Quella sensazione che
gli aveva preso lo stomaco si era attenuata.
La seconda volta, la
mattina successiva, non ero stato così pronto a perdonarlo; l’avevo
afferrato ancora per il colletto, però poi l’avevo trascinato per
il prato.
«Che diavolo ti passa
per la testa?» gli avevo domandato. «Che cazzo
combini?»
Ma lui era felice, non
poteva farne a meno; aveva calmato la sua ansia, seppure per un
momento.
«Mi stai
ascoltando?!»
Ci eravamo fermati alla
porta con la zanzariera.
Lui era scalzo, i piedi
luridi.
«Devi promettermelo»,
gli avevo ordinato.
«Prometterti
cosa?»
Era la prima volta che
notava il sangue, là sotto, come ruggine tra le dita; gli piaceva,
e vedendolo gli veniva da sorridere. Sì, vedere quel sangue gli
dava un immenso piacere.
«Indovina, maledizione!
Smettila di sparire così, accidenti!»
È già abbastanza brutto
che sia sparito lui.
Lo pensavo, ma non
potevo dirglielo. Non ancora.
«Ok», aveva promesso.
«Non lo farò più.»
Mi aveva dato la sua
parola.
E aveva
mentito.
Lo aveva fatto ogni
mattina, per settimane.
A volte, uscivamo a
cercarlo.
A posteriori, mi chiedo
perché.
Non correva chissà quale
pericolo – la cosa peggiore che potesse accadergli era smarrire di
nuovo la strada –, ma in qualche modo per noi era importante
proteggerlo, tenercelo stretto. Avevamo perso nostra madre e poi
nostro padre, altre perdite non erano ammesse. Non l’avremmo
permesso. Detto ciò, non eravamo gentili con lui, quando tornava.
Rory e Henry lo colpivano alle gambe senza pietà.
Il problema, all’epoca,
era questo: per quanto male gli facessimo, non lo sentiva. Per
quanto provassimo a bloccarlo, non riuscivamo a trattenerlo. Il
giorno dopo, spariva ancora.
Una volta, l’avevamo
trovato in giro.
Era un martedì, ed erano
le sette del mattino.
Io rischiavo di fare
tardi al lavoro.
La città era fresca e
nuvolosa, ed era stato Rory a intravederlo. Eravamo diversi isolati
più a est, all’incrocio tra Rogilla e Hydrogen Avenue.
«Là!» aveva
esclamato.
Lo avevamo rincorso fino
in Ajax Lane, con la fila di cassette del latte tipica dei
sobborghi, e lo avevamo sbattuto contro la recinzione; io avevo
rimediato un pollice pieno di schegge grigie e fredde.
«Merda!» aveva gridato
Henry.
«Cosa?»
«Credo mi abbia appena
morso!»
«Quella era la fibbia
della mia cintura.»
«Tienigli fermo il
ginocchio.»
Non poteva saperlo, ma
da qualche parte, dentro di sé, Clay aveva fatto un voto: non si
sarebbe mai più fatto bloccare in quel modo; almeno, non così
facilmente.
Quella mattina in
particolare, però, aveva commesso un errore.
Aveva pensato che fosse
finita lì.
Invece no.
Se Michael Dunbar non
era stato capace di prenderlo e trascinarlo per casa, nei mesi
passati, io ero perfettamente in grado di aiutarlo a trovare
l’uscita; l’avevo spinto lungo il corridoio, sbattuto nel cortile
sul retro, e avevo appoggiato una scala alla grondaia.
«Ecco», gli avevo detto,
«sali.»
«Dove… sul
tetto?»
«Fallo, o ti spezzo le
gambe. E vediamo come corri, dopo…» E il suo cuore era sprofondato
ancora di più; perché, quando era arrivato in cima, aveva capito
esattamente qual era il mio intento.
«Ti sei fatto un’idea?
Di quanto è grande la città?»
Gli avevo ricordato un
episodio accaduto cinque anni prima, quando gli era venuta voglia
di lavorare a un progetto su tutti gli sport del mondo e aveva
chiesto a Penelope di comprargli un quaderno nuovo. Aveva creduto
di dover semplicemente elencare quelli che conosceva e, a metà
della prima pagina, con otto misere voci, si era reso conto che era
un’impresa disperata. Come quella in cui si stava imbarcando, aveva
compreso sul tetto.
Da lassù, la città si
moltiplicava.
Riusciva a vederne ogni
lato.
Era enorme, imponente,
mostruosa. Era tutti quegli aggettivi che aveva sentito per
descrivere qualcosa di invincibile.
Per un secondo o due, mi
era quasi dispiaciuto per lui; ma avevo dovuto chiarirgli il
concetto. «Puoi allontanarti quanto vuoi, fratellino, ma non lo
troverai mai.» Avevo guardato la distesa di case, gli innumerevoli
tetti inclinati. «Lui se n’è andato, Clay. Ci ha uccisi. Ci ha
assassinati.» Mi ero obbligato a dirgli quelle parole. Che mi ero
fatto piacere a forza. «Di ciò che eravamo… non è rimasto
nulla.»
Il cielo era grigio come
una coperta.
Intorno a noi c’era
soltanto la città.
Accanto a me c’era un
ragazzo, con i suoi piedi.
«Ci ha uccisi»: quelle
tre parole erano rimaste sospese in mezzo a noi, e in qualche modo
sapevamo che era davvero così.
Quel giorno, era nato un
soprannome.