Quell’unica sigaretta
Penny Dunbar aveva preparato i bagagli per
l’ospedale, e per il mondo che la aspettava lì dentro.
I dottori pigiavano,
pungolavano, prelevavano pezzetti.
La avvelenavano con
gentilezza.
Quando alla fine avevano
iniziato a parlare di radioterapia, io me l’ero immaginata sola, in
mezzo al deserto… dove, d’un tratto, boom, diventava un po’ come
Hulk.
Ci eravamo trasformati
in un fumetto.
Sin dal principio c’era
stato l’edificio dell’ospedale, con tutto quel bianco infernale, e
le sgradevoli porte stile centro commerciale: detestavo il modo in
cui si aprivano.
Sembrava che fossimo lì
per dare un’occhiata.
Disturbi cardiaci a
sinistra.
Emorragie a
destra.
Ricordo anche noi sei
che camminavamo lungo i corridoi, attraversando l’atmosfera di
piacevole terrore. Ricordo papà che si era strofinato le mani per
pulirle bene, Henry e Rory che non facevano a botte; posti del
genere erano chiaramente innaturali. C’era Tommy, così piccolo, con
gli immancabili calzoncini hawaiani. E c’ero io, ancora contuso, ma
in via di guarigione.
Molto più indietro Clay,
che all’apparenza era il più spaventato all’idea di vederla,
chiudeva la fila. La voce le usciva dal tubicino che le avevano
infilato nel naso.
«Dov’è il mio bambino?
Dov’è? Ho una storia da raccontarti, è bella.»
Solo allora ci
raggiungeva.
Doveva fare appello a
tutto il suo coraggio.
«Ehi, mamma… mi parli
delle case?»
La mano di lei si
allungava ad accarezzargli i capelli.
Quell’anno era entrata e
uscita dall’ospedale altre due volte.
L’avevano aperta e
richiusa, e la sua pelle aveva preso colore.
L’avevano ricucita, e la
pelle delle cicatrici era infiammata e lucida.
A volte, anche quando
era stanca, le chiedevamo di mostrarcele.
«Ci fai rivedere la più
lunga, mamma? Quella è stupenda, maledizione.»
«Ehi!»
«Che c’è? È perché ho
detto maledizione? Non è nemmeno una parolaccia!»
Ormai era perlopiù a
casa, a letto, e si faceva leggere dei libri, oppure se ne stava
distesa con papà. C’era qualcosa nella loro posizione: le gambe di
lei piegate di lato, il viso sul petto di lui.
Per molti versi era
stato un periodo felice, se devo essere sincero, e adesso ricordo
le cose con quello stato mentale. Vedo passare le settimane, il
viso di lei che affondava nella scapola di lui, vedo i mesi sparire
nelle pagine. Michael leggeva ad alta voce per ore. Aveva gli occhi
stanchi, ormai, ma sempre di quella strana tinta acquamarina. Era
una di quelle cose capaci di confortarti: non esisteva un altro
padre come lui.
Certo, c’erano momenti
che facevano paura, come quando lei vomitava nel lavandino,
lasciando quel tanfo orribile nel bagno. Era anche più magra, per
quanto sembri incredibile, ma era tornata a sedersi alla finestra
del salotto. Ci leggeva brani dell’Iliade, e Tommy – distrutto
– dormiva.
Nel frattempo, facevamo
dei progressi.
Facevamo una musica
tutta nostra.
Le guerre al pianoforte
continuavano.
Dal mio incontro con
Jimmy Hartnell sarebbero potute scaturire tante cose, e alcune si
erano verificate sul serio. Lui e io eravamo diventati amici: i
classici amici che si prendono a cazzotti per trovare un territorio
comune.
Dopo di lui ne erano
venuti molti altri, e io non mi ero fatto cogliere impreparato.
Bastava solo che menzionassero il pianoforte: all’inizio sorridevo,
poi ridevo e alla fine rispondevo. Però non avevo più raggiunto il
livello che avevo toccato con Hartnell. Con lui avevo combattuto
per il titolo.
Comunque, non ero stato
io a diventare famoso per le scazzottate, ma Rory. Poteva essere
solo lui, nessun altro.
In termini di età, era
scattato l’anno, e io ormai ero alle superiori (libero finalmente
dalle lezioni di pianoforte); Rory, Henry e Clay erano alle
elementari e Tommy era all’asilo. Le vecchie storie cominciavano a
venire a galla. C’erano ricordi delle reti di cricket, di ragazzi
più che pronti a battersi.
Il problema era
Rory.
Che aveva una forza
tremenda.
Ma il post combattimento
era anche peggio. Trascinava l’avversario per il campo, come il
brutale Achille con il corpo di Ettore, nell’Iliade.
Un giorno, erano venuti
in ospedale i ragazzi dell’Hyperno High.
Penny era seduta sul
letto, piena di aghi.
Dio, dovevano essere più
di una decina, tutti ammassati attorno a lei, chiassosi. «Sono
così… pelosi», aveva commentato Henry, indicando le gambe dei
ragazzi.
Ricordo che noi li
avevamo guardati dal corridoio, nelle loro divise verdi e bianche;
i maschi con i capelli corti, le femmine tutte profumate, la
sigaretta nascosta. Appena prima che se ne andassero, la
studentessa di cui ho già parlato qualche pagina fa, l’adorabile
Jodie Etchells, aveva dato a mia madre un regalo piuttosto
bizzarro.
«Ecco, professoressa»,
le aveva detto, anche se poi il pacchetto l’aveva scartato lei
stessa; Penny aveva le mani sotto le coperte.
E noi avevamo osservato
le labbra di mamma.
Quelle labbra così
secche, che si erano crepate allargandosi in un
sorriso.
Le avevano portato il
metronomo, e uno dei ragazzi – credo si chiamasse Carlos – le aveva
detto: «Respiri a tempo, professoressa».
Ma i ricordi più belli
sono legati alle serate a casa.
Capelli biondi e neri
striati di grigio.
Se non dormivano sul
divano, erano in cucina a giocare a Scarabeo, o a bastonarsi a
vicenda a Monopoli. Oppure restavano svegli a guardare film, fino a
notte fonda.
Certi momenti sarebbero
rimasti impressi più di altri nella mente di Clay, sempre di
venerdì sera. Una volta alla fine di un film che avevano messo
mamma e papà, credo fosse Good Bye,
Lenin! Sullo schermo scorrevano i
titoli di coda.
Clay e io eravamo usciti
nel corridoio, dopo aver sentito alzarsi il volume.
Avevamo visto il
salotto, e poi loro.
Si stavano tenendo
stretti, davanti al televisore.
Erano in piedi e stavano
ballando, ma lentamente – si muovevano a malapena –, i capelli di
lei lunghi e gialli. Sembrava così debole e fragile; era tutta
braccia e stinchi. I loro corpi premevano l’uno contro l’altro, e
pochi istanti dopo papà ci aveva sorpresi. Ci aveva salutati, in
silenzio.
Aveva persino detto,
mimando con le labbra: Guardate quant’è bella!
E credo di doverlo
riconoscere: nonostante la stanchezza e il dolore, la gioia nei
suoi occhi lo rendeva davvero affascinante; e non era neppure tanto
male, come ballerino.
*
Poi c’era stato quell’altro momento, fuori,
sui gradini della veranda, avvolti dalla fredda foschia
dell’inverno.
Qualche giorno prima,
Penelope era tornata all’Hyperno come supplente, e aveva confiscato
delle sigarette. In tutta onestà, non riteneva fosse compito suo
impedire a quei ragazzi di fumare. Ogni volta che sequestrava
qualcosa a qualcuno, gli diceva di tornare a riprendersela al
termine della lezione. Era irresponsabile, da parte sua? O era un
modo per mostrare a ciascuno di loro il rispetto che meritavano?
Non c’era da stupirsi se avevano tutti quanti finito per
innamorarsi di lei.
In ogni caso, lo
studente in questione, forse per imbarazzo o per vergogna, non era
andato a chiederle quel pacchetto di Winfield Blue, e la sera Penny
le aveva trovate nella borsa, schiacciate, sul fondo. Quando aveva
tirato fuori portafoglio e chiavi, prima di andare a letto, le
erano capitate in mano.
«E quelle che diavolo
sono?»
Michael l’aveva beccata
subito.
Considerateli pure
irresponsabili, o ridicoli, ma io li adoro per ciò che avevano
fatto, quella sera. La malattia era in remissione, ed erano usciti
in veranda. Avevano fumato, tossito e lo avevano
svegliato.
Rientrando, pochi minuti
dopo, Penny avrebbe voluto gettare via le sigarette rimaste, ma per
qualche motivo Michael l’aveva fermata. «E se invece le
nascondessimo?» le aveva detto, strizzandole l’occhio con fare
cospiratore. «Non si può mai sapere quando potremmo aver bisogno di
fumarne un’altra. Sarà il nostro piccolo segreto.»
Un segreto di cui però
era a conoscenza anche un bambino.
Quando avevano alzato il
coperchio superiore del pianoforte, e vi avevano nascosto il
pacchetto, non avevano idea che lui li avesse visti; e una cosa, a
quel punto, era evidente.
Che forse mamma e papà
non se la cavavano male, nel ballo.
Ma come fumatori erano
al massimo dei dilettanti.