Riscaldamento alla Clay
Dall’altra parte della città, mentre
l’Assassino incontrava il mulo, c’era Clay, che si stava scaldando.
A dire la verità, Clay si stava sempre scaldando. In quel
particolare momento era all’interno di un vecchio condominio, ai
piedi di una rampa di scale, con un ragazzino in spalla e un
nuvolone nero nel petto. I capelli corti e scuri gli stavano piatti
sulla testa. Aveva il fuoco negli occhi.
Accanto a lui, alla sua
destra, correva un altro ragazzo – biondo, di un anno più vecchio –
che gli stava dietro a fatica, ma riusciva comunque a stimolarlo.
Alla sua sinistra c’era un border collie pronto a scattare.
Riassumendo, c’erano: Henry e Clay, Tommy e Rosy, che facevano
quello che facevano sempre.
Uno
parlava.
Uno si
allenava.
Uno si teneva aggrappato
al collo di un altro con tutte le sue forze.
Persino Rosy, il border
collie, si impegnava al massimo.
Avevano una chiave, per
andare ad allenarsi lì; avevano pagato un amico per avere accesso
al palazzo. Dieci dollari per un blocco pieno di cemento. Niente
male. E correvano.
«Miserabile pezzo di
merda», esclamò Henry (quello che faceva i soldi, quello
simpatico), accanto a Clay. Faticava a stargli dietro, doveva fare
passi lunghissimi, e intanto rideva. Poi il sorriso gli scese dal
volto e lui lo afferrò con la mano. In momenti come quelli,
comunicava con Clay attraverso insulti già provati e testati. «Non
sei niente. Sei una pappamolla.» Sentiva male dappertutto, ma
doveva continuare a parlare. «Sei molle come un uovo alla coque,
bello. Mi viene da vomitare a guardarti mentre corri
così.»
E c’era anche un’altra
tradizione, che non mancarono di rispettare poco dopo.
Tommy, il più piccolo,
quello che portava a casa gli animali, perse una
scarpa.
«Merda, Tommy, credevo
di avertelo detto di legarle più strette. Andiamo Clay, sei debole,
sei ridicolo. Datti una mossa, cazzo.»
Arrivarono al sesto
piano e Clay gettò Tommy da un lato e placcò il chiacchierone alla
sua destra. Atterrarono sulle piastrelle coperte di muffa, Clay
aveva un mezzo sorriso, gli altri due ridevano, tutti sudati. Nella
mischia, Clay bloccò Henry con una presa di sottomissione. Lo tirò
su e lo trascinò in giro.
«Hai decisamente bisogno
di una doccia, amico.» Tipico di Henry. Lo dicevamo sempre: avrebbe
parlato anche da morto. «Scioccante, è la definizione esatta.»
Sentiva la forza del braccio di Clay, mentre gli torceva quel collo
da insolente.
Per sedare la zuffa,
Tommy, tredici anni compiuti, prese la rincorsa e spiccò un salto,
facendo finire a terra tutti e tre, un groviglio di gambe e
braccia, di ragazzini e pavimento. Rosy saltellava intorno a loro;
teneva la coda alta, il corpo slanciato in avanti. Zampe nere.
Piedi bianchi. Iniziò ad abbaiare, ma i tre
continuarono.
Terminata la rissa
rimasero sdraiati, supini; c’era una finestra all’ultimo piano, da
cui entrava una luce sudicia che illuminava i loro petti, che si
alzavano e si abbassavano. L’aria era pesante. Usciva dai polmoni,
e si ammassava. Henry deglutì, forte, mentre la sua bocca espresse
quello che provava sul serio.
«Tommy, razza di
bastardo.» Lo guardò con un ghigno. «Credo che tu mi abbia appena
salvato la vita, piccoletto.»
«Grazie.»
«No, grazie a te.» E poi
indicò con un cenno Clay, che si era già puntellato su un gomito e
si era infilato l’altra mano in tasca. «Non capisco perché
sopportiamo questo schizzato.»
«Nemmeno
io.»
Però era
così.
Tanto per cominciare,
era uno dei ragazzi Dunbar. E, quando si trattava di Clay, la gente
era curiosa.
Ma di che
cosa?
Che cosa c’era da sapere
su nostro fratello Clayton?
Le domande lo seguivano
da anni, ormai. Per esempio, perché sorrideva ma non
rideva?
Perché combatteva, ma
mai per vincere?
Perché amava tanto stare
sul tetto di casa nostra?
Perché correva per
provare disagio, anziché soddisfazione? Sì, perché usava la corsa
come una sorta di portale per il dolore e la sofferenza, e si
costringeva a sopportare tutto questo?
Ma tra queste domande
non c’era la sua preferita.
Erano interrogativi di
riscaldamento.
Nulla di
più.
Dopo essere rimasti
sdraiati sul pavimento per un po’, ripeterono tutto da capo per tre
volte, e lungo il tragitto Rosy recuperò la scarpa.
«Ohi,
Tommy.»
«Che c’è?»
«La prossima volta
allacciale più strette, ok?»
«Certo,
Henry.»
«Fai il doppio nodo, se
non vuoi che ti spezzi in due.»
«Ok,
Henry.»
In fondo alle scale gli
diede una pacca sulla spalla – era il segnale con cui gli ordinava
di saltare di nuovo in groppa a Clay – e ancora una volta salirono
fino in cima di corsa, e scesero con l’ascensore. (Qualcuno avrebbe
potuto pensare che barassero, ma in realtà rendevano la sessione di
allenamento ancora più dura, perché il tempo di recupero si
accorciava.) Dopo l’ultima salita, Henry, Tommy e Rosy presero
l’ascensore, mentre Clay fece le scale. Usciti dal palazzo, si
diressero verso quell’ammasso di ferraglia maltrattato che era
l’auto di Henry, e si ripeté la solita routine.
«Rosy, levati dal sedile
davanti.» Era al volante, le orecchie due triangoli perfetti.
Sembrava pronta a sintonizzare l’autoradio. «Dai, Tommy, falla
uscire, per favore.»
«Ehi, piccola, basta
giocare.»
Henry si mise una mano
in tasca.
Tirò fuori una manciata
di monete.
«Clay, tieni. Ci vediamo
su.»
Due andavano in auto,
uno correva.
E, dal finestrino, gli
urlavano: «Ohi, Clay!»
E lui spingeva sulle
gambe. Non si voltava, ma sentiva comunque. La stessa frase, ogni
volta.
«Prendi delle
margherite, se puoi. Erano le sue preferite, ricordi?»
Come se non lo
sapesse.
L’auto metteva la
freccia, e se ne andava. «E non farti fregare sul
prezzo!»
Clay
accelerò.
E cominciò a risalire la
collina.
All’inizio ero stato io
ad allenarlo, poi era toccato a Rory; e, se io l’avevo fatto con
una sciocca integrità ormai da vecchia scuola, Rory aveva usato il
bastone, ma senza mai spezzarlo. Quanto a Henry, aveva un suo
progetto: lo faceva per la grana, ma anche perché gli piaceva
moltissimo, come ben presto vedremo.
Fin dal principio era
stato tutto molto semplice e al tempo stesso
stupefacente.
Noi potevamo dirgli cosa
fare.
E lui lo
faceva.
Potevamo
torturarlo.
E lui
sopportava.
Capitava addirittura che
Henry lo sbattesse fuori dall’auto perché aveva visto dei suoi
amici che tornavano a casa a piedi sotto la pioggia, e Clay
scendeva e si metteva a correre. Poi, quando lo superavano
urlandogli «Smettila di perdere tempo!» dal finestrino, aumentava
il passo. Tommy, che si sentiva fottutamente in colpa, guardava
fuori dal lunotto posteriore, e Clay lo fissava fino a quando
l’auto non spariva. Vedeva il suo orribile taglio di capelli farsi
sempre più piccolo. Era così.
Dall’esterno poteva
sembrare che lo stessimo allenando.
In realtà, non ci
andavamo nemmeno vicino.
Con il tempo, le parole
divennero sempre meno frequenti, e i metodi si intensificarono.
Tutti noi sapevamo quello che voleva, ma non che cosa intendesse
farci quando l’avesse ottenuto.
Per cosa diavolo si
stava allenando Clay Dunbar?
Alle sei e mezzo di
sera, con i tulipani ai suoi piedi, si chinò in avanti, sulla
recinzione del cimitero. Era situato in un bel posto, in alto; a
Clay piaceva. Osservava il sole che pascolava tra i
grattacieli.
Le città.
Quella
città.
Là sotto, il traffico
viaggiava verso casa. Le luci cambiarono. E arrivò
l’Assassino.
«Scusa?»
Non rispose. Strinse più
forte la recinzione.
«Giovanotto?»
Si voltò e vide
un’anziana che indicava qualcosa, succhiandosi le labbra. Dovevano
essere saporite.
«Ti dispiace?» Aveva due
occhi privi di forma, un vestito dall’aria stanca, e portava le
calze. Il caldo non lo sentiva. «Ti dispiacerebbe darmi uno di quei
fiori?»
Clay fissò la ruga
profonda che le solcava la fronte, sopra gli occhi. E le diede un
tulipano.
«Grazie, grazie molte,
giovanotto. È per il mio William.»
Lui annuì e la seguì
oltre il cancello aperto; si fece strada tra le tombe. Quando
arrivò a destinazione, si accovacciò, si rialzò e, con le braccia
conserte, si voltò verso il sole della sera. Non avrebbe saputo
dire quanto tempo impiegarono Henry e Tommy a raggiungerlo, insieme
al cane, con la lingua penzoloni. Erano tutti e tre lì in piedi,
con la schiena curva ma fermi, le mani in tasca. Se Rosy avesse
avuto le tasche, vi avrebbe infilato anche lei le zampe, questo era
sicuro. In quel momento l’attenzione dei ragazzi era completamente
rivolta alla lapide, e ai fiori davanti, che appassivano sotto i
loro occhi.
«Niente
margherite?»
Clay si
voltò.
Henry alzò le spalle.
«Ok, Tommy.»
«Ok che?» chiese il più
piccolo.
«Dagliela. È il suo
turno.»
Clay tese la mano.
Sapeva che cosa fare.
Prese la bomboletta di
lucidante spray e spruzzò la targa di metallo. Poi gli passarono la
manica di una T-shirt grigia, con cui strofinò bene la
superficie.
«Hai dimenticato un
pezzettino.»
«Dove?»
«Sei cieco o che? Lì,
nell’angolo. Guarda… hai due fette di prosciutto sugli
occhi?»
Clay lo individuò e lo
lucidò con un movimento circolare. La manica era diventata nera: la
lurida bocca della città. Tutti e tre indossavano una canottiera e
un vecchio paio di pantaloncini. Tutti e tre serrarono la mascella.
Henry strizzò l’occhio a Tommy. «Ottimo lavoro, Clay», disse.
«Adesso è ora di andare. Non voglio arrivare in ritardo al grande
evento.»
Tommy e Rosy lo
seguirono per primi, come sempre.
Poi Clay.
Quando lo raggiunsero,
Henry disse: «Buoni cimiteri fanno buoni vicini». Sinceramente, il
suo repertorio di stronzate era infinito.
«Io odio venire qui»,
fece Tommy. «Lo sai, vero?»
E Clay?
Clay, che era quello
taciturno, o quello che sorrideva, si limitò a voltarsi un’ultima
volta, e fissò quel quartiere soleggiato di statue, croci e
lapidi.
Sembravano trofei di
consolazione.
Tutti, dal primo
all’ultimo.