La Sbagliatrice
C’era una volta, nella marea che costituiva il passato dei Dunbar, una donna che aveva molti nomi. E che donna era…
Il primo nome era quello con cui era nata: Penelope Lesciuszko.
Poi c’era quello con cui era stata battezzata al pianoforte: la Sbagliatrice.
E per un periodo era stata anche la Ragazza del Compleanno.
Il nome che lei stessa si era data era la Sposa con il Naso Rotto.
E da ultimo c’era quello con cui sarebbe morta: Penny Dunbar.
Come si conveniva al personaggio, proveniva da un luogo la cui migliore descrizione era una frase tratta da uno dei libri in compagnia dei quali era stata cresciuta.
Aveva attraversato una sconfinata distesa d’acqua.
Tanti anni fa, come molti prima di lei, era arrivata con una valigia e con gli occhi strizzati, lo sguardo fisso.
Quella luce dilaniante l’aveva sconvolta.
La città.
Era così calda e grande, e bianca.
Il sole era una sorta di barbaro, un vichingo su nel cielo.
Che saccheggiava, depredava.
Che metteva le mani su ogni cosa, dal più alto pilone di cemento al più piccolo tappo nell’acqua.
Nel Paese da cui veniva, un Paese del blocco orientale, il sole era quasi un giocattolo, un congegno. In quella terra lontana erano nuvole e pioggia, ghiaccio e neve a portare i pantaloni, non quella buffa cosina gialla che di tanto in tanto mostrava la faccia; i giorni più caldi erano razionati. Persino nei pomeriggi più aridi e desolati poteva arrivare un po’ di umidità. Pioggerellina. Piedi bagnati. Era l’Europa comunista che aveva raggiunto la vetta più alta e lentamente si avviava al declino.
E tutto ciò la definiva come persona, sotto molti aspetti. La fuga. L’essere da sola.
O, per meglio dire, il sentirsi sola.
Non avrebbe mai dimenticato il terrore puro del momento in cui era atterrata.
Dall’alto, a bordo di un aereo che aveva girato in cerchio sopra l’aeroporto, la città le era parsa alla mercé di un’acqua particolare (salata), ma una volta a terra non aveva impiegato molto ad avvertire tutta la potenza del suo vero oppressore: subito, il viso le si era chiazzato di sudore. Lì fuori, si era trovata in mezzo a un gregge, a una mandria – no, a una calca – di persone ugualmente scioccate e appiccicose.
Dopo una lunga attesa erano stati radunati e condotti in una sorta di pista per aerei al coperto. Le lampadine erano al neon, tutte quante. L’aria era calda, dal pavimento al soffitto.
«Nome?»
Niente.
«Passaporto?»
«Przepraszam?»
«Oh, Gesù.» L’uomo in uniforme si era alzato in punta di piedi e aveva guardato sopra le teste e le orde di nuovi immigrati. Che folla di facce meste, sudate! Aveva trovato l’uomo che stava cercando. «Ehi, George! Bilski! Ne ho una per te!»
Però la donna, che aveva quasi ventun anni ma ne dimostrava sedici, gli aveva afferrato il viso, decisa. In mano aveva il suo libriccino grigio, che stringeva quasi volesse soffocarlo. «Parshporrt
Un sorriso, di rassegnazione. «Ok, tesoro.» L’uomo lo aveva aperto e aveva tentato di leggere quel rebus di nome. «Leskazna-che?»
Penelope era accorsa in suo aiuto, timidamente, ma con aria di sfida. «Less-choosh-ko.»
Non conosceva nessuno, lì.
La gente che per nove mesi era stata con lei in quel campo sulle montagne austriache si era dispersa. Una famiglia dopo l’altra, erano stati spediti a ovest, avevano sorvolato l’Atlantico, mentre lei, Penelope Lesciuszko, aveva fatto un viaggio più lungo, ed era arrivata lì. Non le restava che raggiungere il campo, imparare meglio l’inglese, trovarsi un lavoro e un posto dove vivere. E poi, cosa più importante, comprare una libreria. E un pianoforte.
Quelle poche cose. Non voleva altro da quel nuovo mondo che si estendeva rovente davanti a lei, e con il tempo le avrebbe ottenute. Avrebbe ottenuto quelle, e anche molto di più.
Sono certo che vi sia capitato di incontrare persone con una storia sfortunata, e che vi siate chiesti che cos’avessero fatto per meritarlo.
Nostra madre, Penny Dunbar, era una di loro.
Il fatto è che lei non si sarebbe mai considerata sfortunata; si sarebbe messa una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio e avrebbe affermato di non avere rimpianti: perché quello che aveva guadagnato superava di gran lunga quello che aveva perso, e una certa parte del sottoscritto concorda. L’altra parte, invece, si rende conto che la sfiga era sempre riuscita a scovarla, in particolare in alcuni momenti salienti.
Sua madre era morta dandola alla luce.
Si era rotta il naso il giorno prima delle nozze.
E poi, naturalmente, era morta.
E non era stata una morte comune.
Al momento della sua nascita, i problemi erano l’età e la pressione; i suoi genitori erano entrambi piuttosto avanti con gli anni, per avere figli, e dopo ore di lotta e un intervento chirurgico sua madre, distrutta nel fisico, era morta. Anche suo padre, Waldek Lesciuszko, era distrutto nel fisico, ma vivo. L’aveva tirata su come meglio aveva potuto. Tramviere, aveva molti tratti distintivi e molte manie, e la gente amava paragonarlo a Stalin, ma non a quello in carne e ossa, bensì a una sua statua. Forse era per via dei baffi. Forse c’era qualcosa di più. Probabilmente la sua rigidità, o il suo silenzio. Perché era un silenzio che aveva qualcosa di straordinario.
Nella vita privata, tuttavia, c’erano altre cose. Per esempio il fatto che possedesse un totale di trentanove libri, due dei quali erano per lui una vera ossessione. Forse perché era cresciuto a Stettino, vicino al Baltico, o perché amava la mitologia greca. Quali che fossero le ragioni, tornava sempre su quei due volumi. Due poemi epici, in cui i personaggi si gettavano in mare. Avevano trovato la loro collocazione in cucina, sul ripiano centrale di una libreria imbarcata ma piuttosto lunga, sotto la O di Omero.
Iliade. Odissea.
Mentre agli altri bambini, quando andavano a dormire, venivano raccontate storie di cuccioli, di gattini e di pony, Penelope era cresciuta con Achille piè veloce e l’ingegnoso Ulisse, circondata da nomi ed epiteti.
C’era Zeus adunatore di nubi.
Afrodite dal dolce sorriso.
Ettore massacratore.
La sua omonima: Penelope la paziente.
Il figlio di lei, e di Ulisse: il savio Telemaco.
E quello che da sempre era uno dei suoi preferiti.
Agamennone, sire di genti.
Spesso la sera si sdraiava a letto e volava via, trasportata dalle immagini descritte da Omero, e tante volte ripetute. Gli eserciti greci fendevano con i loro vascelli il «mare color del vino», o si avventuravano in quella «sconfinata distesa d’acqua». Navigavano verso l’«Aurora dalle dita di rosa», e quella ragazzina tranquilla ne era affascinata. Il suo viso, dalla pelle sottile come carta, si illuminava. La voce di suo padre le giungeva in onde che diventavano via via più piccole, fino a quando non si addormentava.
I troiani sarebbero potuti tornare l’indomani.
Gli achei dai lunghi capelli avrebbero potuto lanciare le loro navi la sera seguente, e poi ancora e ancora, per portarla via.
*
Oltre a questa passione, Waldek Lesciuszko aveva dato alla figlia un’altra abilità appagante; le aveva insegnato a suonare il piano.
So che cosa starete pensando.
Che nostra madre aveva ricevuto un’istruzione e un’educazione superiori alla media.
I capolavori greci come lettura della buonanotte?
Lezioni di musica classica?
Invece no.
Quelli erano i resti di un altro mondo, di un’epoca diversa. La piccola collezione di libri era stata tramandata quale unico possedimento della sua famiglia. Il piano era stato vinto a carte. Ciò che né Waldek né Penelope potevano sapere era che l’una e l’altro avrebbero finito per rivestire un ruolo cruciale.
Avrebbero fatto avvicinare quella bambina a suo padre.
E poi l’avrebbero fatta andare via per sempre.
Vivevano in un appartamento al terzo piano.
In un condominio come tutti gli altri.
Da lontano, era una lucina in un colosso di cemento.
Da vicino, era sobrio, ma angusto.
Vicino alla finestra c’era il pianoforte verticale, nero e robusto, e liscio come seta, e in orari precisi – mattina e sera – l’anziano padre si sedeva alla tastiera con lei, con un’espressione concreta e severa. I baffi immobili erano risolutamente accampati tra naso e bocca. Lui si muoveva solo per girarle la pagina.
Quanto a Penelope, suonava e si concentrava sulle note, senza battere ciglio. All’inizio erano filastrocche, dopo, quando le aveva fatto prendere lezioni che non poteva permettersi, era passata a Bach, Mozart, Chopin. Spesso, era solo il mondo all’esterno a battere le ciglia, nel tempo che dedicava a esercitarsi. Cambiava. Da gelido diventava ventoso, il cielo da sgombro si faceva cupo. Lei sorrideva, quando si metteva al piano. Suo padre si schiariva la voce. Il metronomo ticchettava.
Ogni tanto lo sentiva respirare, tra le note, ricordandole che era vivo, e che non era la statua a cui la gente lo paragonava scherzosamente. Anche quando avvertiva crescere la sua collera, davanti all’ultima raffica di errori, restava sempre bloccato tra l’inespressivo e l’infuriato. Le sarebbe piaciuto, almeno una volta, vederlo sbottare, e magari darsi una manata sulla coscia, o tirarsi una ciocca di capelli screziati di grigio. Non lo faceva mai. Si limitava a frustarle le nocche con un rametto di abete se non badava a tenere le dita sollevate, o all’ennesimo errore. Una mattina d’inverno, quando era solo una bimba pallida e timida con le spalle curve, si era presa ventisette bacchettate, una per ciascuno dei ventisette peccati musicali di cui si era macchiata. E suo padre le aveva affibbiato un soprannome.
Alla fine della lezione, mentre fuori nevicava, le aveva preso le mani, piene di segni, piccole e calde. Le aveva strette, ma con gentilezza, nelle dita simili a obelischi.
«Juz. wystarczy», le aveva detto, «dziewczyna błe˛dów…» che lei poi avrebbe tradotto per noi.
«Basta così, Sbagliatrice.»
All’epoca aveva otto anni.
A diciotto, lui decise di farla scappare.
Il dilemma, naturalmente, era il comunismo.
Un’unica grande idea.
Con mille limiti e difetti.
Crescendo, Penelope non se n’era mai accorta.
Quale bambino lo avrebbe notato?
Non c’era niente con cui fare confronti.
Per anni, non aveva realizzato quanto quel luogo e quel periodo fossero opprimenti. Non aveva mai realizzato che, sebbene si predicasse l’uguaglianza, in realtà essa non esisteva. Non aveva mai alzato lo sguardo verso i balconi di cemento, né aveva avuto sentore del modo in cui la gente osservava.
Mentre la politica oscurava tutto, il governo gestiva e manovrava qualunque cosa, dal lavoro dell’individuo al suo portafoglio, addirittura quello che pensava o in cui credeva – o, almeno, quelle che sosteneva essere le sue opinioni e la sua fede. Se eri anche solo vagamente sospettato di aderire a Solidarnos´c´ – il sindacato nato nel 1980 in seguito agli scioperi operai nei cantieri di Danzica – potevi star certo che prima o poi ne avresti pagato il prezzo. Come ho detto, la gente osservava.
La verità è che era sempre stato un Paese difficile, e triste. Una terra brutalizzata da invasori giunti da ogni direzione, attraverso i secoli. Dovendo scegliere, tuttavia, lo si sarebbe definito un Paese difficile, più che triste, e l’era comunista non aveva fatto eccezione. Alla fine, era un’epoca in cui si passava da una coda interminabile all’altra, per tutto, dalle medicine alla carta igienica, alle scorte di cibo che andavano esaurendosi.
E la gente che cosa poteva fare?
Niente, a parte mettersi in fila.
E aspettare.
La temperatura scendeva sotto lo zero. Non cambiava nulla.
La gente era sempre in fila.
Aspettava.
Perché doveva.
Il che ci riporta a Penelope, e a suo padre.
Per lei, nulla di tutto ciò aveva molta importanza. Non ancora, almeno.
Per lei, quella era l’infanzia che le era toccata in sorte.
Il piano, i parchi giochi gelati, i cartoni animati il sabato sera – una delle tante piccole concessioni da quel mondo ribelle che si trovava a ovest.
Suo padre però era sempre attento.
Vigile.
Camminava con la testa bassa, e teneva per sé le proprie idee politiche, ben nascoste all’interno della sua bocca, ma nemmeno questo gli era di conforto. Startene fuori dai guai, mentre intorno a te crollava un intero sistema, consentiva solo di sopravvivere più a lungo. Ma non era di per sé una garanzia di sopravvivenza. Un inverno interminabile passava, finalmente, solo per tornare a tempo di record, e dovevi rimetterti al lavoro, di nuovo.
Fino alle ore piccole, come da turni.
Gli atteggiamenti amichevoli, quando amici non ne avevi.
E poi tornavi a casa.
E, in silenzio, ti interrogavi.
Esiste un modo per tirarsi fuori da tutto questo?
Waldek aveva elaborato una risposta, ci aveva lavorato su.
Non era la soluzione per lui.
Per la bambina, forse.
Che altro va detto degli anni trascorsi tra l’infanzia e la fuga?
Be’, Penelope era diventata grande.
Suo padre era visibilmente invecchiato, i baffi si erano tinti di un grigio cenere.
A essere onesti, c’erano momenti buoni, momenti grandiosi, in cui Waldek, vecchio e arcigno, la sorprendeva – accadeva magari una volta l’anno – facendola salire sul tram. Di solito era per una di quelle lezioni di musica a pagamento, o per un’esibizione. A casa, i primi anni delle scuole superiori, era stato un partner di ballo rigido e saldo, nella cucina che si trasformava in pista. C’era clangore di pentole. Uno sgabello traballante finiva a terra. Coltelli e forchette pure, e la ragazza rideva, e lui si divertiva; sorrideva. La pista da ballo più piccola del mondo.
Uno dei ricordi più vivi di Penelope era legato al giorno del suo tredicesimo compleanno, quando erano tornati a casa passando per il parco giochi. Lei credeva di essere troppo grande per certe cose ma si era seduta comunque su un’altalena. Parecchi decenni dopo avrebbe raccontato quell’episodio, per l’ennesima volta, al quarto dei suoi cinque figli, quello che amava le storie. Erano i suoi ultimi mesi di vita, e lei era persa tra sogno e realtà, sotto l’effetto della morfina, distesa sul divano.
«Ogni tanto», gli aveva detto, «vedo ancora la neve che cominciava a sciogliersi, gli edifici chiari non finiti. Sento il cigolio delle catene. Sento i suoi guanti sulla parte bassa della mia schiena.» Ci voleva una gru per sollevarle gli angoli della bocca in un sorriso, nel viso devastato. «Ricordo che urlavo perché avevo paura, quando andavo troppo in alto. Lo supplicavo di non spingermi più, ma in realtà non volevo… non volevo che smettesse.»
Ed era quello a rendere le cose così difficili.
Il cuore di colore, in mezzo a tutto il grigio.
Guardandosi indietro, la sua partenza non le era parsa una fuga verso la libertà, ma un abbandono. Per quanto suo padre avesse amato gli antichi greci che andavano per mare, non aveva mai voluto lasciarlo solo con loro. Dopotutto, a che cosa gli sarebbe potuto servire un amico come Achille piè veloce, in quella landa di ghiaccio e neve? Sarebbe morto di freddo, alla fine. E Ulisse? In che modo il suo ingegno sarebbe riuscito a offrirgli quella compagnia di cui aveva bisogno per tenersi in vita?
La risposta era chiara.
Non ci sarebbe riuscito.
Ma poi, naturalmente, era successo.
Lei era diventata maggiorenne.
E il piano per farla fuggire si era messo in moto.
Gli ci erano voluti due lunghi anni.
All’apparenza, filava tutto liscio; Penelope aveva finito la scuola con buoni voti e lavorava in una fabbrica della città come segretaria. Prendeva appunti alle riunioni, era responsabile di ogni singola penna, di ogni singolo documento, rispondeva delle pinzatrici. Quella era la sua posizione, il suo posto, e non le era andata poi tanto male.
All’incirca in quel periodo, si era unita ad alcuni gruppi di musicisti, aveva cominciato ad accompagnare altri al pianoforte, e anche a esibirsi come solista. Waldek l’aveva incoraggiata attivamente, e presto Penelope si era ritrovata a viaggiare per suonare. A poco a poco, i controlli sulle restrizioni di movimento si erano fatti meno serrati, per via del caos generale e perché (questo aveva un che di minaccioso) era ben noto che, se una persona poteva andarsene, aveva sempre qualche famigliare che restava. In entrambi i casi, ogni tanto Penelope otteneva il permesso di varcare il confine, e una volta era addirittura riuscita a passare al di là della cortina. Mai, in nessun frangente, le era passato per la testa che suo padre stesse gettando le basi per la sua defezione; in cuor suo, era felice.
Ma il Paese, ormai, era in ginocchio.
Le corsie dei supermercati erano praticamente vuote.
Le code si erano allungate.
Tante volte con il ghiaccio, sotto la grandine e la pioggia, erano rimasti insieme ad aspettare il pane, per ore, e quando era giunto il loro turno non avevano più trovato niente. E ben presto lui aveva capito. Aveva intuito che era giunto il momento.
Waldek Lesciuszko.
La statua di Stalin.
La situazione era ironica, perché a Penelope non aveva detto nulla; stava prendendo quella decisione per lei, la stava costringendo a essere libera, o perlomeno le stava imponendo quella scelta.
Aveva curato il suo piano giorno dopo giorno, e alla fine il momento era arrivato.
L’avrebbe mandata in Austria, a Vienna, dove avrebbe partecipato a un festival musicale e avrebbe messo in chiaro che non sarebbe dovuta tornare.
E, per me, quello era stato l’inizio di noi cinque. Dei ragazzi Dunbar.
Il ponte d'argilla
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