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La lettera

 

 

 

 

 

 

 

 

Doña Manuela lavò il buon Santiago con i saponi migliori, lo mise a letto in una delle tante camere vuote del palazzo e lo accudì come se fosse un bambino piccolo. Non lasciò entrare nessuno nella sua stanza finché non ebbe riposato a sufficienza e gli preparò degli autentici manicaretti affinché si rimettesse rapidamente in forze.

Quando venne a sapere cos’era accaduto, don Fernando Colombo si indignò molto e ordinò che riesaminassero tutti i libri della biblioteca per vedere se ne mancavano altri. Il Custode controllò ogni angolo del palazzo in cerca di possibili anfratti segreti e Marcos assoldò un paio di uomini d’arme che lo aiutassero a sorvegliare la dimora del padrone. La prima cosa che fecero fu rastrellare il giardino, temendo che Víctor avesse nascosto qualcos’altro in quella zona.

Thomas era sconcertato e si mise a dormire con un sapore agrodolce in bocca, cercando di capire cosa avesse fatto Víctor, ossia Jaime Moncín, in tutti quegli anni. Di immaginare come avesse fatto a nascondersi nel palazzo di Colombo, vivendo nell’ombra.

La mattina seguente, si svegliò all’alba e andò a trovare Santiago, che stava mangiando dei dolci.

«Vedo che il tuo recupero procede a buon ritmo».

«Signor Thomas, devi assaggiare queste delizie divine. E dico divine perché le preparano delle monache in gran segreto».

«Delle monache? Non starai esagerando, Santiago? Non è che la fame ti ha dato alla testa?»

«No, macché. Doña Manuela mi ha detto che le monache di San Leandro si lamentano del fatto che alcune consorelle più povere si guadagnano da vivere preparando e vendendo dolci, una grossolanità che getta discredito sul convento. Ma sono una delizia!».

«E questi sono i dolci delle monache?». Si avvicinò al letto su cui era disteso l’amico e ne prese uno. «Sembrano davvero squisiti».

«È una questione molto seria, signor Thomas. Nei conventi si celano molte invidie. Tieni presente che c’è una vera e propria lotta di classe tra le monache più abbienti e le povere. Quelle ricche arrivano persino ad avere delle schiave e occupano le stanze migliori».

«Così le povere preparano dolci per potersi pagare qualche lusso».

«Sempre perspicace, signor Thomas».

«E tu cosa ci fai qui?». Doña Manuela entrò come una furia. «Santiago deve riposare, lascialo in pace», disse con tono minaccioso.

«Volevo soltanto chiedergli se…».

«Neanche per sogno! Riposo assoluto, ecco di cosa ha bisogno. Fuori, tedesco!».

«Come?»

«Mi hai sentita, fuori di qui! Non te lo ripeterò due volte», e agitò la mano con cui brandiva uno spaventoso coltellaccio da cucina.

«Ma… Santiago!».

Mentre si riempiva la bocca con un altro dolce delle monache, il vecchio soldato scrollò la testa, si strinse nelle spalle e sorrise. Contrariato, Thomas lasciò la sua stanza. Dato che a palazzo erano tutti occupati, uscì in giardino e si fermò a contemplare le piante di cui si prendeva cura Jaime Moncín. Quell’uomo aveva cambiato nome, ma perché era rimasto a Siviglia?

Nessuno dei suoi amici sapeva della sua presenza in città e Thomas faticava a comprendere le sue ragioni. Perché nasconderlo a tutti?

Don Fernando denunciò tanto Rosalía quanto Jaime Moncín al Consiglio della città. I messi comunali stavano domandando per le strade, le guardie delle porte erano state allertate e si arrivò persino a offrire una ricompensa a chiunque l’acciuffasse.

Passarono diversi giorni e non fecero alcun progresso, mentre Thomas pensava sempre di più al suo viaggio nel Nuovo Mondo. Il giorno della partenza si stava avvicinando. Parlò con Santiago affinché si prodigasse a caricare la macchina da stampa sulla nave con quanta più discrezione possibile. Il soldato non condivideva il suo piano, ma da bravo militare e amico, accettò i desideri di Thomas senza discutere.

Questi, dal canto suo, ripassò libri e mappe del Nuovo Mondo; voleva conoscere la sua destinazione. Poi si ricordò del libro di Moncín.

Ora che lo avevano recuperato, lo poteva leggere.

Corse in biblioteca e lo chiese al Custode, che lo proteggeva personalmente. Glielo prestò, a patto che non lo portasse via dalla biblioteca. Thomas cercò un tavolo e si sedette. Aprì la copertina e cominciò a leggere dalla prima pagina.

Se ne separò solo per mangiare e per espletare i suoi bisogni fisiologici. Data la sua rapidità nella lettura, di lì a sera ne aveva già letto quasi metà. Dormì poco e all’alba si immerse di nuovo nelle pagine di Amori impossibili.

Era una storia ambientata a Siviglia e parlava di un amore tragico e impossibile tra la figlia di un ricco commerciante di spezie e un delinquentello rimasto orfano, che alla fine diventava un famoso pittore. A quel punto, però, la sua amata si era già sposata con un marchese e i suoi quadri, inizialmente pieni di luce e colore, si trasformavano in paesaggi tristi e desolati, come la sua anima.

Era un testo da cui era impossibile staccarsi e la storia era descritta dal punto di vista della donna, con commenti carichi di sensualità, e vantava illustrazioni eccezionali in cui appariva sempre la coppia di innamorati, ritratta in situazioni allusive, oppure la protagonista, disegnata con un’affascinante delicatezza e una forte carica erotica, tanto che era difficile non lasciarsi ammaliare dalla sua bellezza.

Continuò a leggere per tutta la giornata e si fermò solo al calar della sera, per la mancanza di luce e la stanchezza che iniziava a farsi sentire. Il giorno dopo, all’ora di pranzo, arrivò alla conclusione della storia scritta da Jaime Moncín. Il finale era sorprendente. Il pittore e la donna continuavano a vedersi di nascosto per anni, tanto che i figli di lei erano del pittore e non del marito, ma il marchese non lo scopriva mai.

Thomas si fermò a riflettere. Come aveva fatto a sopravvivere prima di essere preso al servizio di Fernando Colombo?

Qualcuno doveva averlo aiutato, ma chi? La donna… Quella che aveva pagato l’Indio per uccidere Alonso. Era la stessa donna a cui era dedicato quel libro? L’aveva fatto uccidere per proteggere la propria identità?

“È mai possibile?”, si domandò Thomas, confuso.

Andò a cercare don Fernando, che era nel suo studio privato e stava esaminando una nuova mappa del Nuovo Mondo che gli era stata inviata dalla Casa de Contratación. Era chino sulla carta geografica.

«Perdonatemi, non volevo disturbarvi…».

«Al contrario, mi hai salvato. Stavo impazzendo. Questa mappa sarà la mia rovina».

«Qualche problema?»

«Sempre i soliti. Oggigiorno le mappe sono più importanti che mai, per questo devono essere precise. Un errore, una minuscola deviazione… e le conseguenze possono essere terribili. In cosa posso aiutarti, Thomas?»

«Si tratta di Víctor. Voglio dire, di Jaime Moncín».

«Maledetta canaglia! Come ha osato derubarmi… e io che l’ho ospitato in casa mia!».

«Volevo chiedervi proprio questo. Come arrivò da voi?»

«Per puro caso», rispose il figlio di Colombo, adirato. «Anni fa. Stavo cercando di capire dove erigere il palazzo e fu lui a raccomandarmi questo posto. Mi aiutò persino con i progetti iniziali».

«E come si presentò, ve lo ricordate?»

«Credo che avesse con sé una lettera di raccomandazione».

«Santo cielo! E l’avete conservata?»

«Naturalmente. Per chi mi hai preso, Thomas?»

«Ho bisogno di vederla».

«Prima dobbiamo trovarla», e si diresse verso uno scaffale. «Doveva essere il ’20 o il ’22. Vediamo. La corrispondenza la tengo qui, ma quel tipo di documento è legato al palazzo, quindi potrebbe essere altrove».

Don Fernando Colombo andò dall’altro lato della stanza e aprì un armadio di notevoli dimensioni. Ci frugò dentro e tirò fuori un fascio di documenti legati con un cordino sottile. Li appoggiò sul tavolo e cominciò a esaminarli.

«Devo ammettere che la biblioteca è più ordinata della mia documentazione personale», mormorò.

«Siete sicuro di aver conservato quella lettera?»

«Sì, ma trovarla non sarà facile, credimi».

«E Víctor non vi ha mai raccontato nulla della sua vita?»

«Cielo, no! Si occupava del giardino. Parlavamo soltanto delle piante che arrivavano dal Nuovo Mondo e del modo in cui si adattavano al clima di Siviglia».

«Non trovavate che fosse una persona piuttosto colta?», indagò Thomas.

«Sì, certo, ed era uno dei motivi per cui lavorava per me. Era educato e conosceva bene tutte le specie. Da questo punto di vista non mi sono mai potuto lamentare. Senza di lui, questo giardino non sarebbe stato possibile».

«Non gli avete mai chiesto come facesse a conoscere così bene quelle piante?»

«In realtà no, ma ora che mi ci fai pensare, è strano». Don Fernando aggrottò la fronte, pensieroso. «Perché è vero, sapeva tutto, come se l’avesse letto da qualche parte o gliel’avessero raccontato».

«Don Fernando, le piante vi sono state procurate dagli Enériz, e Miguel Enériz era un grande amico di Jaime Moncín».

Fernando Colombo perse la sua espressione pacata e tranquilla.

«Ecco la lettera». Sfilò il documento in questione e lo lasciò sul tavolo.

Era una lettera di raccomandazione firmata proprio da Miguel Enériz.

Thomas uscì immediatamente e andò al palazzo degli Enériz, ma all’entrata incontrò alcune difficoltà. Insistette talmente tanto che gli permisero di aspettare nel cortile interno dove, circondato da busti e sculture romane, aspettò pazientemente Miguel, che arrivò da solo, con un’aria poco amichevole.

«Si può sapere cosa succede? Non ho l’abitudine di ricevere ospiti inattesi, soprattutto a quest’ora. Spero che sia per una buona ragione».

«Jaime Moncín».

«Ancora con questa storia?», disse Miguel Enériz, esasperato.

«È qua a Siviglia. È sempre stato in città e voi lo sapevate».

«Di cosa diavolo state parlando? Siete impazzito?»

«Non mentite».

«Come osate? Ma lo sapete con chi state parlando? Potrei farvi uccidere seduta stante».

«Don Fernando Colombo è al corrente di tutto, perciò dovrete affrontare le conseguenze delle vostre azioni».

«Ma… di cosa parlate? Sono vent’anni che non vedo Jaime», dichiarò con categoricità, tanto che Thomas dovette interrompersi.

«Una domanda. Avete fornito piante e semi per il giardino di don Fernando, giusto?»

«Sì, e quindi?»

«L’uomo che si occupava di quel giardino, l’uomo che si faceva chiamare Víctor, in realtà è Jaime Moncín».

«Cosa? Ma questo è impossibile… Jaime è vivo e si trova a Siviglia? Non posso crederci».

«Non fingete, voi stesso lo mandaste da don Fernando con una lettera di raccomandazione. E immagino che gli abbiate anche dato informazioni sulle varie specie del Nuovo Mondo, mentre lui le curava e realizzava disegni e stampe per i tanti libri che sono stati pubblicati in materia».

«Altolà!». Miguel Enériz alzò le mani. «Un momento», aggiunse con tono più pacato. «Ripetete da capo quello che avete detto».

Thomas rimase sorpreso dalla richiesta, ma obbedì e ripeté tutto in modo più calmo e dettagliato.

«Sentite, posso giurare davanti alla Beata Vergine che non vedo Jaime Moncín da vent’anni. Però mi era arrivata voce del fatto che poteva essere ancora vivo e a Siviglia, anche se io non ci ho mai creduto. O forse non volevo crederci…».

«Perché non me ne avevate accennato?»

«Vi ho appena detto che non l’avevo più visto, e di sicuro non sapevo che lavorasse nel palazzo di Colombo, spacciandosi per un’altra persona. È vero che procuriamo le specie vegetali per quel giardino, ma non abbiamo mai raccomandato del personale».

«Menzogne!», e a quel punto Thomas tirò fuori la lettera che gli aveva dato don Fernando. «Qua c’è la vostra firma. Negatelo, se ne avete il coraggio!».

Miguel Enériz prese il documento e gli diede una rapida scorsa.

«È una lettera di raccomandazione, sì, ma questa non è la mia firma».

«Però c’è il sigillo della vostra famiglia, o volete negare anche questo?», insistette Thomas.

«Sì, è vero, ma posso assicurarvi che non l’ho apposto io. Questa firma, questa calligrafia, è di mia sorella, Julia. Non so perché l’abbia scritta né con quale autorizzazione abbia usato il sigillo».

«Vostra sorella?»

«Sì, è la sua calligrafia. La conosco bene».

«E dov’è?», domandò subito Thomas.