32

Il carcere

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimase in prigione per cinque giorni che gli sembrarono settimane, il tempo sufficiente per poter riflettere meglio su quanto accaduto nella locanda. Faticava a credere che Alonso fosse davvero morto; chissà che fine avrebbe fatto senza l’aiuto e i consigli del mercante.

Il tempo scorreva lentamente rinchiuso in quella cella buia. Il suo compagno si distraeva facendo dei disegni sulle pareti e aiutandosi con un pezzetto di metallo. All’inizio non gli prestò molta attenzione, ma col passare delle ore alzò lo sguardo e vide che stava disegnando una nave, e anche con una certa abilità. Non era stato l’unico a ingannare il tempo disegnando, perché notò che le pareti della cella erano piene di volti, croci, animali e altre figure impossibili da identificare. Ma per lo più erano ricoperte da tacche usate per tenere il conto del passare dei giorni. Vedendo che una fila di tacche andava da un lato all’altro della parete, Thomas venne assalito dallo sconforto. Le contò tutte, erano settantacinque.

Quella notte le guardie entrarono all’improvviso e lo afferrarono per le braccia. Thomas oppose istintivamente resistenza, e loro lo colpirono alla schiena con un bastone. Il giovane lanciò un grido di dolore che risuonò in tutto il carcere e che gli tolse la voglia di continuare a dimenarsi.

Lo trascinarono in uno stanzone e gli ammanettarono i polsi a degli anelli. Poi udì uno stridore. Gli anelli erano attaccati a delle catene e queste a una carrucola, che vari uomini azionarono tramite delle corde. All’improvviso, Thomas si sentì sollevare da terra, e il metallo gli stirò talmente tanto la pelle che quasi sentì le ossa delle mani rompersi.

«Perché mi fate questo? Basta, per favore!».

Non ottenne risposta.

Tirarono ancora di più e il dolore divenne insopportabile, tanto che pensò che sarebbe morto in quel preciso istante. All’improvviso, lasciarono la presa e gli gettarono addosso un secchio d’acqua gelata che lo fece riprendere.

«Cosa mi costringi a fare…», a parlare era Miguel de las Cuevas, che apparve di fronte a lui, come un incubo. «Sarebbe tutto più semplice se tu collaborassi».

«Io non ho fatto niente».

«Vedi? Mi riferisco proprio a questo… non ti ho ancora fatto alcuna domanda e già neghi. Credi davvero che sia lo spirito giusto? Quanta credibilità pensi di avere adesso?»

«A voi non interessa la verità».

«Tiratelo di nuovo su», ordinò Miguel de las Cuevas.

«No!», il grido divenne interminabile quando le catene lo risollevarono, e Thomas sentì tutte le ossa del corpo, polsi, braccia e spalle cominciare a scricchiolare.

Lo abbassarono nuovamente e gli gettarono addosso un’altra secchiata di acqua gelida, che non servì a mitigare il dolore; anzi, lo rese ancora più consapevole.

«Bene, bene. Sono certo che adesso avrai capito la situazione. Che cosa hai da dirmi sulla morte di Alonso Rodríguez?»

«Non l’ho ucciso io, lo stimavo molto, era il mio mentore!».

«E chi lo ha ucciso, allora? Tu cos’hai visto? Dormivi nella stessa stanza, qualcosa avrai pur visto o sentito».

«Non lo so, non mi sono accorto di nulla, dormivo…».

«Hai un sonno bello profondo. Che assurdità».

«Per favore, non sollevatemi di nuovo, abbiate pietà», supplicò Thomas.

«Questo dipende da te, ma pare che tu non l’abbia ancora capito», e Miguel de las Cuevas alzò la mano.

I suoi uomini tirarono di nuovo le corde e, quando il corpo di Thomas arrivò in alto, il giovane svenne dal dolore.

Quando si svegliò, Thomas era molto confuso, dolorante, e gli girava la testa.

Non ricordava che giorno o che ora fossero né tantomeno dove si trovasse. Quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, vide le umide mura del carcere di Plaza de San Francisco e il grosso soldato spia seduto contro la parete.

«Ahi», si lamentò mentre cercava di muoversi.

«Lodato sia il Signore».

«Che cos’è successo, sono ancora qui?»

«Perdinci, ti hanno dato una bella lezione. Hai dormito un giorno intero, ma sono venuti due volte a curarti le ferite, quindi ti vogliono vivo».

«Questo mi rende più tranquillo», disse Thomas, dolorante. «O forse no…».

«Come stai?», gli chiese l’altro, aiutandolo a tirarsi su.

«Non sopporterei un’altra tortura del genere».

«Ascolta, io ho visto molta gente morire sul campo di battaglia. Non è piacevole, ma fa parte della vita. Io so solo una cosa, più tardi arriva e meglio è. La morte è qualcosa di terribile», gli disse il vecchio soldato.

«Questo lo so. Mia madre è morta quando ero solo un bambino».

«Non hai capito, non parlo della morte di qualcuno, ma della morte in sé».

«Che vuoi dire?», chiese Thomas, cercando di sopportare il dolore diffuso in tutto il corpo.

«Io ho visto la morte in faccia, una notte, quando venne a cercare un soldato per portarselo via».

«Non capisco».

«La morte era lì, l’ho guardata negli occhi. Sapevo che sarebbe venuta, e quando è arrivata ho visto anche altre cose. Ho visto me stesso. La morte sa quando verrà il momento per ognuno di noi e, se la guardi negli occhi, potrai scoprirlo anche tu».

«Vuoi dire che quella notte sei riuscito a vedere la tua morte?». Thomas si dimenticò per un attimo dei suoi dolori.

«Sì, esatto».

«Non ci credo, saranno state allucinazioni».

«Guardami bene, credi davvero che non sappia quello che ho visto?», gli chiese il vecchio soldato. «Da quella notte in poi, se la morte è nelle vicinanze io la sento, come un presentimento».

«Riesci a prevedere il momento in cui una persona morirà?»

«No, non sono uno stregone! Riesco ad avvertirne la presenza, ma non a capire per chi sta arrivando», gli disse, guardandolo negli occhi. «E adesso mangia qualcosa, ragazzo. Questo lo hanno lasciato per te e devi rimetterti in forze. Bisogna andare avanti, che la morte non ci perseguita, per ora. Te lo dico io», e gli strizzò l’occhio, divertito.

Il giorno seguente, misero nella loro cella due galiziani che avevano provato a imbarcarsi da clandestini per il Nuovo Mondo. Erano giovani e di poche parole. Le guardie si esercitarono un po’ su di loro riempiendoli di botte.

Nel frattempo, il vecchio soldato e Thomas approfondirono la loro conoscenza. L’uomo gli disse di chiamarsi Santiago e di essere nativo di Logroño, di essersi imbarcato da giovane per Napoli, dove aveva vissuto prima di arruolarsi al servizio del Gran Capitano in un corpo speciale di combattimento, composto da tre distinte unità: gli archibugieri, i moschettieri e i picchieri. Gli raccontò di aver sconfitto la celebre cavalleria di Borgogna del regno di Francia.

Intanto, aveva finito di disegnare la nave sulla parete della cella. Il disegno era ben fatto e si distinguevano i tre alberi, le vele e la bandiera con la croce di Borgogna.

Thomas non sapeva se credere a tutte le storie che gli raccontava Santiago. Alcune sembravano frutto di fantasia, altre invece parevano molto reali, e non sapeva mai se le sue fossero verità o bugie. Se tutte quelle avventure erano vere, di certo Santiago era uno degli uomini più straordinari che avesse mai conosciuto. Ma quell’uomo aveva un’aria in un certo qual modo spensierata, se non addirittura frivola; raccontava tutto con troppa leggerezza e Thomas non riusciva a capire se la sua fosse solo una facciata. Tuttavia, il giovane cominciava a sospettare che Santiago fosse una persona forte, della quale si poteva fidare…. e un giorno decise di farlo.

«Forse mi puoi aiutare», gli confidò quando nessuno poté sentirli.

«Niente mi farebbe più piacere, dimmi».

«Santiago, cerco un libro che è stato rubato».

«Che tipo di libro?»

«È di uno scrittore poco conosciuto. Non ne furono venduti molti esemplari all’epoca, circa vent’anni fa».

«Ma hai detto che è stato rubato?»

«Sì, perché ne abbiamo casualmente trovata una copia nella biblioteca di un nobile e, quando siamo andati a cercarlo, era sparito», spiegò Thomas a voce bassa.

«Vale molto?»

«No, è più il capriccio di un collezionista».

«Fai attenzione, la gente con i soldi non ragiona come noi. Se ti hanno incaricato di trovarlo, non fidarti».

«Non fidarti di cosa?»

«Di tutto!».

«Abbassa la voce!», lo rimproverò Thomas.

«Scusami, voglio dire che è probabile che non ti abbiano raccontato tutta la verità. Sei a Siviglia per via di quel libro?».

Thomas annuì.

«Peggio ancora».

Videro un’ombra e smisero di parlare, poi sentirono dei passi solitari. Miguel de las Cuevas aprì la porta della cella.

«Penso proprio che tu sia una spina nel fianco», disse, guardando Thomas.

«Vi ho già detto che non ho niente a che vedere con la morte di Alonso».

«Sono stato nei posti che avete visitato nei giorni scorsi e tutti hanno detto che facevate troppe domande».

«Non so cosa significhi», balbettò Thomas, intimorito.

«A nessuno piace che dei forestieri vadano in giro per Siviglia a fare domande, a prescindere dal motivo, che sia la ricerca di un libro o dei chiodi della croce di Cristo. In un modo o nell’altro, avete finito per creare dei problemi al sottoscritto».

«E questo che cosa significa?»

«Che attiravate troppo l’attenzione e che a Siviglia tutti sanno tutto…», affermò Miguel de las Cuevas. «Non mi stupisce che abbiano sgozzato il tuo collega, quello che non capisco è perché abbiano lasciato in vita te».

«Neppure io», disse Thomas.

«Immagino, inoltre sembra che tu abbia un angelo custode… cosa che capisco ancora meno», disse l’ufficiale, guardandolo di traverso. «Puoi andare».

Thomas non si mosse.

«Non mi hai sentito? Non te lo ripeterò. Ti ho appena detto che hai un angelo custode, perciò vattene!».

Thomas si alzò di scatto; non vedeva l’ora di uscire da quel luogo tremendo.

«Aspetta, non così in fretta. Continuo a non capire cosa sia accaduto quella notte, quindi non voglio altri problemi da te. Già me ne creano abbastanza i furfanti di Triana, la gentaglia dell’Arenal e tutti quelli che vengono qui con l’intenzione di imbarcarsi per le Indie», gli disse con tono minaccioso. «Questa città non fa per te. Faresti meglio a girare alla larga».

«Io non ho fatto niente».

«Trovarsi a Siviglia è già fare qualcosa. Nessuno viene qui senza motivo».

«Non potete obbligarmi a lasciare la città», affermò Thomas una volta in piedi, debole per i giorni di prigionia.

«Certo che posso».

«Hanno ucciso un mio amico, non me ne andrò senza sapere chi è stato».

«Io invece ti dico che te ne andrai eccome», e Miguel de las Cuevas gli rivolse un sorriso intimidatorio. «Non ha senso che ti abbiano lasciato in vita, a me non la dai a bere».

«Posso andare?».

Miguel de las Cuevas si fece da parte, facendogli una falsa riverenza, poi gli indicò il corridoio.

Thomas strinse i pugni e avanzò a passo deciso fino alla porta. Si girò per salutare Santiago.

«Addio, soldato, e buona fortuna».

«Addio», disse l’omaccione, «e buona fortuna anche a te. Fai attenzione, ragazzo».

Thomas lasciò la prigione. La città pullulava di gente: si guardò i vestiti, erano sporchi e maleodoranti, sembrava un barbone. La luce gli dava fastidio agli occhi dopo tutti quei giorni di penombra. Entro i confini delle mura e tra le strette viuzze della città, aveva ancora la sensazione di essere prigioniero; aveva bisogno di spazi aperti per tornare a sentirsi libero, ma non sapeva dove andare.

Uscì dalla Puerta de Jerez e proseguì fino alla spiaggia. Le vele delle caravelle e delle navi si stagliavano all’orizzonte, mentre il fiume era pieno di imbarcazioni più piccole. Siviglia sembrava davvero il centro del mondo, del nuovo e del vecchio.

Guardò il fiume e le barche che lo popolavano, immaginò di viaggiare su una di esse e quel pensiero lo risollevò dallo sconforto che lo aveva attanagliato dopo la morte di Alonso e i giorni passati in prigione.

Andare nel Nuovo Mondo, perché non poteva essere quello il suo destino?

Quale luogo migliore per essere libero?

Senza passato, senza conti aperti.

Era quello che doveva fare, imbarcarsi per viaggiare verso ponente.

Ma come? Quello era il grosso problema da risolvere.

Proseguì lungo la muraglia, che in quel punto non era in buono stato: le case erano addossate l’una all’altra, ogni tipo di costruzione era stato tirato su senza cura né misura, e in alcuni punti si erano accumulate montagne di spazzatura. Quella che una volta era una formidabile struttura difensiva era diventata una rovina in sfacelo.

Quando la temperatura cominciò a scendere, nell’Arenal furono accesi vari fuochi e Thomas cercò rifugio nei pressi dei falò. Rimase sorpreso dalla quantità di gente che frequentava la zona: bambini, anziani e persone molto povere. L’Arenal era pieno di capanne che, per quanto umili, erano comunque un tetto sotto il quale dormire. Sul fiume, invece, si potevano ammirare le sagome di eleganti imbarcazioni. Davvero uno strano contrasto, a Siviglia non era tutto oro quello che luccicava.

Fermo accanto a uno dei falò c’era un uomo dai capelli neri, con la sommità della nuca calva. Sembrava un frate. Circondato da una ventina di bambini, il presunto frate stava raccontando una storia davanti al fuoco. Thomas rimase a osservarli, pensando che prima della creazione dei libri le conoscenze, i pensieri e le leggende si trasmettevano oralmente. Un gruppo di persone attorno a un fuoco. La gente memorizzava le storie e le tramandava di generazione in generazione, ma molte di esse venivano inevitabilmente alterate o si perdevano per strada. La memoria di tanti popoli e civiltà sarebbe stata dimenticata, mentre adesso i libri erano diventati i guardiani della memoria e difendevano gli uomini dall’oblio.

Thomas sentiva la mancanza di Alonso. Il cercatore di libri era diventato un grande amico, gli aveva insegnato tanto: le sue letture di Platone e Omero, le sue abilità come attore… non avrebbe mai dimenticato neppure il fatto che lo aveva portato per la prima volta a teatro.

Ma Alonso ormai non c’era più e lui era di nuovo solo al mondo. La sua vita era una serie di alti e bassi inaspettati. Era caduto più volte, ma almeno sapeva cosa voleva: raggiungere le Indie e da lì, partire alla volta delle isole delle Spezie. Prima o poi avrebbe realizzato quel sogno.

Si allontanò dal cantastorie e si rannicchiò tra i rifiuti, talmente stanco da non rendersi conto che qualcuno lo stava osservando.

Si svegliò all’alba al suono dei rintocchi della cattedrale. La Giralda si innalzava sopra i tetti di Siviglia, e per un attimo Thomas la paragonò alla torre Nueva di Saragozza, ma quella era molto più alta. I Greci l’avrebbero considerata come una sorta di sfida alle divinità del monte Olimpo, le quali non avrebbero di certo esitato a distruggerla, sentendosi minacciati dal suo potere. La Giralda, invece, aveva superato indenne un terremoto, protetta dalle sante Giusta e Rufina. Quanto era diverso il mondo cristiano da quello pagano.

La mattinata all’Arenal gli sembrò interminabile. Non sapeva dove andare, così si intrattenne pensando al Nuovo Mondo, gli tornò alla mente Luna, ricordò quanto gli piaceva giocare con lei e quanto aveva pianto la sua morte, e decise che una volta giunto nel Nuovo Mondo per prima cosa avrebbe comprato un lama.

Era affamato. A un tratto, vide passare un monaco con una Bibbia tra le mani, e la vista di quel testo sacro gli fece tornare in mente la sua ricerca.

Sembrava che i libri fossero gli oggetti che guidavano la sua vita, ne illuminavano il cammino rischiarandolo dalle ombre. I libri lo avrebbero condotto fino al Nuovo Mondo, ne era certo.

Quella Bibbia era un segno.

E all’improvviso si rese conto che l’unica persona che avrebbe potuto aiutarlo era il proprietario della maggiore biblioteca della città: don Fernando Colombo.

Doveva andare al suo palazzo, convincerlo della sua innocenza e persuaderlo a portare avanti la ricerca del Moncín. Superò a passo deciso l’arco del Postigo fino a raggiungere l’Arenal, aggirò la muraglia fino alla Puerta de Goles, e in lontananza vide il palazzo di Colombo che dominava la città dall’alto. Raggiunse la collina e bussò alla porta arancione. Quando si aprì, si ritrovò di fronte Marcos, che lo riconobbe all’istante.

«E tu che vuoi, adesso? Santo Iddio! Da dove arrivi con questo odore puzzolente?»

«Sono venuto a parlare con don Fernando Colombo. È accaduta una cosa terribile che deve assolutamente sapere».

«Hai ammazzato il tuo collega, quello che sembrava un poco di buono. Lo sappiamo già».

«Il mio amico non era un poco di buono, e poi, come avrei potuto ammazzarlo? Devo vedere don Fernando», e fece per entrare.

«Fermo lì!». Marcos tirò fuori un pugnale e lo sollevò all’altezza del petto. «Vattene da dove sei venuto o andrai a fare compagnia al tuo amico, non te lo ripeterò due volte».

«Va bene». Alzò le mani. «Calmati».

«Non ti azzardare a tornare o non sarò così indulgente».

Thomas indietreggiò e si allontanò dal palazzo sotto lo sguardo attento di Marcos. Lo maledisse per non averlo lasciato entrare e, pieno di rabbia, pensò di tornare indietro e colpirlo, ma non sarebbe stata una mossa avveduta, così decise di ritirarsi e uscì di nuovo dalla Puerta de Goles.

Stanco e contrariato, guardò dall’altro lato del fiume. Oltre le grandi imbarcazioni era possibile scorgere un ampio sobborgo e il ponte fatto di barche che univa le due sponde del fiume. Decine di imbarcazioni erano state posizionate in maniera tale da formare una lunga fila e sopra di esse erano state disposte delle assi di legno per creare un passaggio transitabile. Mentre lo attraversava, Thomas si chiese se quella struttura sarebbe stata in grado di resistere a un’eventuale piena del fiume. Di certo non ci si sarebbe voluto trovare, nel caso fosse accaduto.

Non appena toccò terra, tirò un sospiro di sollievo. Si trovava in un quartiere completamente diverso rispetto alla Siviglia che aveva visto fino a quel momento. C’erano più trambusto, un miscuglio di razze e indumenti, e la gente vestiva in maniera differente rispetto al centro città. Faceva molto caldo, le donne portavano i capelli sciolti e ampi vestiti, e non avevano nulla a che vedere con le figure femminili ben coperte, più simili a suore, che popolavano l’altro lato della città.

Ma la cosa che attirò più di ogni altra la sua attenzione fu il profilo scuro e tenebroso di un castello, che dominava tutto il paesaggio di quella sponda del Guadalquivir.

Per le strade di quel quartiere era possibile vedere un po’ di tutto: c’erano uomini che bevevano, combattimenti tra galli agli angoli delle strade e un ciarlatano, salito su alcune casse di legno, che cercava di vendere un unguento miracoloso contro ogni tipo di malattia, alcune delle quali Thomas neppure conosceva. C’erano anche un anziano che batteva le mani mentre una ragazzina ballava con le braccia tese verso il cielo. Thomas andò verso di lei.

«Come si chiama questo posto?»

«Questa è Triana», rispose lei, senza smettere di battere le mani.

«Non si direbbe neanche di essere ancora a Siviglia».

«Perché Triana è Siviglia, ma Siviglia non è Triana».

Thomas si mise a ballare assieme alla piccola.

Si rese conto che su quella sponda del fiume c’erano molte taverne, ma non voleva metterci piede per nessun motivo al mondo. Cominciò a girovagare per le stradine del quartiere, dove erano disseminati numerosi laboratori di ceramica, fabbri, falegnamerie, si vendeva pesce fresco a ogni angolo e il vino scorreva a fiumi.

Poco distante c’era il porto de las Muelas, dove si stagliava quel castello, imponente e tenebroso, che sembrava uscito da un romanzo cavalleresco. Thomas immaginò che nelle sue viscere ci fossero prigioni buie e umide, nelle quali i condannati soffrivano le peggiori torture.

Distolse subito lo sguardo da quelle mura, temendo che qualcuno lo potesse vedere dall’interno, e si diresse verso il fiume.

Si tolse i vestiti e li lavò strofinandoli contro i sassi. Si immerse completamente per darsi una lavata, poi mise i vestiti ad asciugare e si distese al sole. L’acqua ebbe il potere di farlo sentire meglio e di schiarirgli un po’ le idee.

Poi si recò in una locanda, piccola e senza taverne nelle vicinanze. Era gestita da una donna soprannominata la Santa, come lei stessa gli aveva detto. Aveva una capigliatura folta e riccia che le ricadeva sopra le spalle, gli occhi grandi sempre spalancati e un neo proprio sotto il naso. Zoppicava leggermente.

«Qui non voglio problemi», lo avvertì.

«Da me non ne avrete, ve lo assicuro».

«I sivigliani vengono qui ogni notte per divertirsi. Qualcuno esagera un po’ troppo con il vino e poi sono guai».

«Io non bevo».

«Sicuro?»

«Quanto è vero che mi chiamo Thomas. Non mi piacciono i problemi, quindi potete stare tranquilla».

«Dicono tutti così, poi però portano qui la prima che capita e mi tocca sentire tali oscenità da farmi anche passare la voglia di andare a messa», mormorò lei, aggiustandosi i capelli.

«Io vorrei solo mangiare un pasto caldo, ma non ho soldi».

«Non penserai mica che qui si faccia beneficenza».

«Magari potrei pagarvi in qualche altro modo».

La Santa lo squadrò da capo a piedi.

«Bisogna pulire le stalle, ma ti avverto che sono ridotte davvero male».

«Lo farò».

«Bene, siediti lì», disse, indicandogli un tavolo vicino. Dall’altro lato c’era una mezza dozzina di uomini che mangiavano.

La Santa gli portò una scodella di brodo bollente con dei pezzi di carne e un piatto di ceci con gli spinaci. Provò a servirgli del vino, ma Thomas la fermò.

«Allora acqua, è più economica», disse lei prima di allontanarsi.

La zuppa era molto buona, si sentiva il sapore della carne, anche se Thomas preferiva non sapere di che animale fosse, ma apprezzò soprattutto i ceci, tanto da chiederne una seconda porzione.

«Ma dovrai lavorare di più», lo avvertì la locandiera.

Mentre era intento a gustarsi la seconda razione di ceci, sentì due uomini seduti a un altro tavolo discutere delle dimensioni dell’isola Hispaniola. Thomas aveva letto tanto sul Nuovo Mondo ed era in grado di dire chi dei due aveva ragione, ma preferì non intervenire ed evitare di cacciarsi in qualche altro pasticcio. Continuò a mangiare i ceci quando alle sue orecchie arrivò un’altra conversazione, che richiamò maggiormente la sua attenzione. Un giovane individuo con lunghi capelli neri stava cercando di convincere un altro uomo, più anziano, rispetto al senso delle frasi scritte sul pezzo di carta che teneva in mano.

«Ti giuro su mia madre, pace all’anima sua, che questo contratto è di quella casa», e gli mise una mano sulla spalla. «Fidati di me».

«Mi sembra economico».

«È così, anche se vorrei affittarlo a un prezzo più alto».

L’uomo più anziano guardava il documento con aria dubbiosa.

«Ma se è scritto lì, non lo leggi?», insisteva il giovane.

Thomas notò l’espressione dell’uomo più anziano e intuì subito quello che stava per accadere. Cominciò a innervosirsi, strinse le mani attorno alla sedia e continuò ad ascoltare i due uomini, cosa che lo rese ancora più nervoso.

«Basta! Mi stai prendendo in giro», e i toni della conversazione cambiarono.

«Perché dici così?»

«Mi hai preso per uno stupido?». L’uomo si alzò e si rimboccò le maniche della camicia. «Non mi faccio prendere in giro da nessuno, io».

Partì un pugno che il giovane riuscì a malapena a schivare, poi ne seguì un secondo che il ragazzo evitò gettandosi a terra, e si trascinò come un verme fino al tavolo dov’era seduto Thomas. Afferrò una sedia e la lanciò contro l’anziano, per poi scappare a gambe levate dalla locanda.

«Maledetto!». La Santa arrivò di corsa con un coltello in mano. «Se quel farabutto prova a ripassare da qui, giuro che gli taglio quel coso che gli pende tra le gambe».

Thomas le diede una mano a rimettere a posto e poi passò l’intera serata a pulire le stalle. La Santa rimase soddisfatta del suo lavoro e, una volta che ebbe terminato, gli diede un pezzo di pane con il salame.

Lo stomaco pieno lo fece sentire molto meglio e si incamminò fino alla chiesa di Sant’Anna. La vista da lì era bellissima, e rimase a guardare la città, assorto nei suoi pensieri.

«Chi non ha visto Siviglia non ha visto meraviglia», disse una voce alle sue spalle.

Thomas si voltò e rimase sorpreso nel trovarsi di fronte lo stesso giovane che lo aveva aiutato al mercato del Malbaratillo.

«Che ci fai a Triana?», gli chiese Sebas.