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Juan Pablos
Giovanni Paoli, o Juan Pablos, era originario di Brescia, in Lombardia, e lavorava per la tipografia dei Cromberger da moltissimi anni. Quando era arrivato a Siviglia con il desiderio di imbarcarsi per le Indie, aveva subito dovuto fare i conti con la dura realtà: gli stranieri non potevano raggiungere il Nuovo Mondo. Così si era messo a girovagare per la città e aveva fatto ogni tipo di lavoro, dall’acquaiolo all’aiutante di un calzolaio, finché non aveva incontrato Jacobo Cromberger, che gli aveva offerto un posto nella sua tipografia. Juan Pablos era disciplinato, poco incline all’umorismo, e quando era necessario non gli importava trattenersi oltre l’orario prestabilito; più di una volta era rimasto a dormire nella stamperia.
I Cromberger si erano ben presto accorti del suo potenziale: obbediva senza reclamare, lavorava bene e non metteva mai in discussione un ordine. In poche parole, era un dipendente modello, o almeno così credevano. Perché Juan Pablos aveva continuato a tessere nell’ombra le sue ambizioni e poteva contare su una discreta quantità di denaro guadagnato alle spalle della tipografia.
Non aveva dimenticato il suo sogno di attraversare l’oceano e aveva atteso pazientemente, sapendo che un giorno o l’altro la sua opportunità sarebbe arrivata. Doveva soltanto farsi trovare pronto e cogliere al volo l’occasione propizia.
E adesso era finalmente riuscito a ottenere la sua ricompensa per tanti anni di sottomissione e aveva firmato un contratto di dieci anni con Juan e Jacobo Cromberger per andare nel vicereame della Nuova Spagna. Juan Pablos si era impegnato a stampare tremila pagine al giorno senza ricevere niente in cambio. Poi, al termine dei dieci anni di contratto, avrebbe ricevuto un quinto di tutti i guadagni ottenuti nel Nuovo Mondo, oltre a quelli delle vendite dei libri pubblicati da quel momento in poi.
«È un’operazione complessa». Juan Pablos si grattò la testa, cercando di assimilare ogni informazione.
«Tutti i libri porteranno il nome dei Cromberger e ti forniremo il necessario per la tipografia: inchiostro, caratteri, strumenti e carta», sottolineò Juan Cromberger.
«Juan Pablos, non potrai creare punzoni né fabbricare caratteri tuoi, capito?», intervenne suo padre.
«Sì, questo è chiarissimo», rispose lui con la consueta sottomissione, dopo anni agli ordini della famiglia. «Permettetemi di tornare a ripetervi che è un grande onore essere stato scelto per una simile impresa».
«Speriamo che tu non ci deluda», sottolineò Juan Cromberger. «Creerai il primo laboratorio di stampa delle Indie».
«Lo so, sembra incredibile…». Juan Pablos non sapeva come celare la sua emozione.
«E c’è dell’altro», aggiunse il padre di Juan Cromberger. «Dovrai obbligatoriamente rendere conto a una persona che cura i nostri interessi in Nuova Spagna».
«Come ordinate».
«E dovrai anche ospitarlo in casa tua».
«Nel mio alloggio?»
«Sì, c’è qualche problema?», domandò Juan Cromberger.
«No, è che…», e per la prima volta, dopo molto tempo, fece una smorfia.
«La prima tipografia del Nuovo Mondo è una grande opportunità, non la sprecare». Le parole di Jacobo Cromberger sembravano più un avvertimento che un augurio.
«Questa concessione non ci è stata regalata. Dobbiamo avere le nostre garanzie», intervenne di nuovo suo figlio.
«Perché dite così?». Juan Pablos si sentiva incalzato dai due tipografi.
«Ora che ci hanno concesso il monopolio della pubblicazione e distribuzione dei libri nel Nuovo Mondo, gli altri stampatori sivigliani sono disposti a distribuire i loro libri a un prezzo più basso del nostro al fine di ostacolarci e toglierci questo privilegio».
«Non sappiamo ancora se sarà redditizio», mormorò Cromberger padre.
«Questo affare ci interessa per molte ragioni, padre. Non dimenticare che vendiamo schiavi per il Nuovo Mondo. E non solo, ma anche gioielli. Per noi è più fondamentale l’industria mineraria che il settore tipografico nel vicereame della Nuova Spagna. Là ci sono molte miniere d’argento».
«Dobbiamo sempre andare avanti, checché ne dicano gli altri», affermò Jacobo Cromberger. «Nella vita occorre porsi un obiettivo e dobbiamo lottare per raggiungerlo. Se non potremo galoppare verso di esso, allora correremo; se non potremo correre, allora cammineremo; e se non riusciremo a proseguire, arretreremo e cambieremo strada, ma sempre continuando a puntare l’obiettivo finale».
«Metterò in marcia la tipografia, ve lo assicuro», disse Juan Pablos, con tutta la convinzione di cui era capace.
«È ciò che ci aspettiamo da te».
Stavolta Thomas aveva lasciato un biglietto sotto il vaso azzurro alla finestra, insieme ad alcuni vestiti, proprio come indicato da Sofía. Nel biglietto le dava appuntamento prima del tramonto davanti alla Puerta del Perdón della cattedrale. Lui era arrivato un’ora prima e aveva chiesto a Sebas le tonache da religioso. Una l’aveva indossata lui, mentre l’altra l’aveva lasciata sul davanzale. Poi era entrato nella cattedrale e aveva svolto qualche indagine preliminare. Ora era tutto pronto e aspettava con ansia l’arrivo di Sofía, che lo raggiunse travestita da novizio.
Non si salutarono e Thomas le indicò di fare silenzio portandosi un dito alla bocca e facendole cenno di accompagnarlo. Entrarono insieme nell’immenso tempio cristiano e, proprio come da programma, si incamminarono verso la porta della torre campanaria.
L’uomo di guardia davanti alla porta della Giralda allungò una mano e Thomas gli diede due monete. Non appena furono sulle scale, si tolsero i cappucci.
«Pronta?»
«Davvero saliremo in cima alla Giralda?»
«Siamo venuti per questo. Preparati perché non ci sono gradini, ma rampe», spiegò Thomas.
«Dici che non ci sono gradini…».
«Sono rampe. Sono più comode, ma dovremo salire molto. La Giralda è la torre più alta del mondo e desidero salire in cima a questo campanile dal primo giorno che sono arrivato a Siviglia».
«E hai dovuto aspettare di farlo con me…». Sofía gli sorrise.
«Sì. Andiamo! La guardia non ci ha dato molto tempo».
Cominciarono a salire le rampe. I due terzi inferiori della torre corrispondevano al minareto dell’antica moschea della città, di epoca almohade, mentre la sommità era una costruzione aggiunta in epoca cristiana per ospitare le campane.
Le rampe erano ripide e sembravano non finire mai, tanto che Sofía perse la cognizione del tempo e dello spazio. Dopo così tanti giri, aveva l’impressione che stessero salendo fino al cielo.
Cominciarono ad ansimare per lo sforzo, e Thomas le offrì la mano per aiutarla a superare l’ultimo tratto. Raggiunsero una botola, la aprirono e presero una boccata d’aria fresca. Quindi salirono alla sezione superiore, dove c’era una terrazza con quattro archi dai quali potevano affacciarsi.
Ed eccola lì, ai loro piedi. Siviglia.
La città si vedeva perfettamente, dalla Puerta de Córdoba a quella de la Macarena, con il fiume dall’altro lato, e verso nord un labirinto di strade, vicoli e piazze, con le chiese e i tetti che spiccavano su tutto il resto.
«Che meraviglia, Thomas. Che bellezza… Tutti gli edifici storici, anche quelli più famosi, e le viuzze. Il fiume, Triana…».
«Dov’è il palazzo di Colombo?»
«Là, dall’altra parte della città», rispose Sofía. «E guarda, laggiù in fondo si vedono il monastero di San Isidro e le rovine della vecchia Siviglia, l’antica Italica fondata dai Romani. Mio nonno mi ci portava sempre, da bambina. Giocavamo a cercare le monete antiche».
«E ne trovavate tante?»
«No davvero, ma quelle rovine mi sono sempre piaciute. Andare là è come viaggiare nel tempo, tornare a un’epoca passata».
«Tu credi?»
«Sì. Ora viviamo in un’epoca nuova, moderna, ma quelle sono le nostre origini. Siviglia è nata lì, e a me piace pensare a come dovevano essere gli uomini e le donne che la costruirono».
«Io preferisco Triana», disse Thomas, osservando il quartiere in questione. «La chiesa di Sant’Anna è favolosa, e il vecchio castello… che peccato che adesso sia la sede dell’Inquisizione».
«Quella fortezza fa paura a molti».
«A te no?», le domandò lui, fissando il castello.
«Mia madre dice che una buona cristiana non ha nulla da temere, ed è la verità».
«Temo che tua madre si sbagli. A volte la verità non basta», e Thomas distolse lo sguardo dalle mura della fortezza.
«Hai visto laggiù?». Sofía gli indicò l’acquedotto dall’altro lato di Siviglia. «Sono gli archi di Carmona, che riforniscono d’acqua la città. Non è incredibile che l’acqua arrivi da tanto lontano?»
«Io trovo ancora più straordinarie le barche che risalgono il fiume», e le indicò una grande nave che avanzava lentamente verso la Torre dell’Oro. «Che cosa porterà nelle sue stive?»
«Oro, argento, animali mai visti prima, frutti proibiti». Sofía si spostò di lato, come se stesse improvvisando un passo di danza. «Chi lo sa?».
Si avvicinò a un altro arco.
«Chi l’avrebbe mai detto che sarei salita quassù», disse poi, sorridendo.
«Per questo ho deciso di portarti con me, perché tu capissi che tutto è possibile. E che potremmo anche fuggire da Siviglia su una di quelle barche, come adesso siamo qui insieme».
«Ne sei davvero sicuro?»
«Sicurissimo».
La terrazza in cima alla Giralda era molto piccola e, voltandosi, Sofía si ritrovò tra le braccia di Thomas, che la attirò a sé. Lei fece scivolare le mani dietro la nuca del mercante di libri e si baciarono. Thomas chiuse gli occhi e assaporò le labbra della sua amata. La strinse a sé, sentendo il suo corpo tra le proprie braccia, e per un attimo il tempo parve fermarsi e calò un assoluto silenzio. Lassù in alto, ebbe la sensazione di volare e si abbandonò a quel sogno dal quale non si sarebbe mai voluto svegliare.
Proprio allora sentirono dei passi e la botola si aprì.
«Andiamo! Tra un attimo saliranno a suonare le campane». Era la guardia della torre. «Dovete scendere immediatamente».