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Doña Manuela
Quando ho poco denaro, io compro dei libri. E se me ne rimane un poco, compro cibo e vestiti.
Erasmo da Rotterdam
Settembre 1523
Doña Manuela non era una donna che si lasciava ingannare facilmente. Era nata a Siviglia, nel quartiere di Santa Cruz, con le sue viuzze labirintiche e piene di cortili che un tempo avevano ospitato il ghetto più popoloso di tutta la Spagna. E, più precisamente, in calle de la Pimienta. Chissà se nascere in quella via dedicata al pepe non l’avesse predestinata a diventare una cuoca. Lei ne dubitava; tutte quelle sciocchezze sul destino non la convincevano affatto.
In tanti dicevano che Santa Cruz era un quartiere maledetto, perché era stato lo sfondo di una crudele mattanza di ebrei. Sulla città di Siviglia si era abbattuta una terribile pandemia e, quando alcuni cristiani avevano visto che gli ebrei morivano meno di loro, li avevano accusati di essere la causa della diffusione del morbo, se non addirittura di avvelenare i loro figli. Il padre di doña Manuela, che era un uomo onesto, quando era piccola le aveva detto che non era andata così, che il punto era che gli ebrei, come i musulmani, si lavavano di più perché per loro era una pratica religiosa, e che il ghetto era isolato dal resto della città, quindi era più difficile che la malattia penetrasse al suo interno.
I cristiani, però, non l’avevano vista in quel modo. Erano altri tempi, e una notte avevano deciso di uccidere tutti gli ebrei. Solo in pochi erano riusciti a scappare. Il ghetto era rimasto disabitato e si era trasformato in un covo di criminali, ma alla fine la città aveva deciso di incentivare l’insediamento di nuovi abitanti, ed era stato così che il nonno di doña Manuela era arrivato in quel quartiere. La sistemazione scelta dal suo antenato non avrebbe potuto essere più sventurata; la chiamavano la casa della Susona e, quando doña Manuela ne aveva scoperto il motivo, si era ripromessa di scappare il prima possibile.
Ce l’aveva fatta a quindici anni, quando aveva sposato il figlio di un calzolaio, il quale abitava nei pressi di un teatro, ed era andata a vivere in calle Borceguinería, dove c’erano tutti i negozi che vendevano quel tipo di calzatura: le polacchine.
Doña Manuela era rimasta ben presto vedova e si era ritrovata da sola con quattro figli, tutti maschi. Per tirare a campare aveva dovuto vendere casa e bottega, e poi cercarsi un lavoro facendo ricorso all’unica cosa che sapeva fare, cucinare. Erano stati anni difficili. Mandare avanti da sola una famiglia così numerosa richiedeva molti sacrifici e le aveva inasprito il carattere, e oramai tutti i figli si erano imbarcati per le Indie e l’avevano lasciata da sola. Tanti sforzi per ritrovarsi così, vedova, senza figli né nipoti accanto.
Una ricca famiglia di commercianti che aveva fatto fortuna proprio nelle Indie aveva costruito un palazzo là dove un tempo sorgeva casa sua. Anche se non lo sapeva nessuno, doña Manuela aveva l’abitudine di andare a passeggiare nel quartiere di Santa Cruz e si sedeva davanti alla casa della Susona, a ricordare l’infanzia. Quanto rimpiangeva di essersene andata.
Thomas andò a cercare doña Manuela in cucina, dove aleggiava un profumino di porri e carne d’agnello. Prima che entrasse, la cuoca gli si parò di fronte e gli bloccò la strada.
«Era ora, mi pianti sempre in asso», disse. «Vieni, seguimi».
Senza dargli la possibilità di controbattere, doña Manuela attraversò il giardino e lo condusse davanti a una porta che dava accesso a una stanzetta sgombra, con un unico tavolo sul quale aveva sistemato degli abiti, un paio di stivali e un cappello a tesa larga.
«Don Fernando ti ha preso in simpatia, che ci possiamo fare?»
«Non sono il mostro che credete, doña Manuela».
«Questo è poco ma sicuro. Probabilmente sei anche peggio. Ma a me cosa importa?», e alzò la mano per farlo tacere. «Ora verranno a raderti e a tagliarti i capelli, così vediamo se riusciamo a darti un’aria più distinta. Io torno alle mie cose, che ho del lavoro da fare. Qua la carne la arrostiamo, mica come al nord, dove mangiate tutto crudo e azzannate la selvaggina appena caduta in trappola. Ah, che gente…».
La cuoca e le sue fissazioni, pensò il ragazzo, al quale non fu dato né tempo né modo di replicare. Esaminò i vestiti, che erano della sua taglia e di buona qualità. Si sbarazzò in fretta degli abiti che indossava e, al contatto di quel tessuto morbido e pulito sulla pelle, provò un enorme senso di gioia.
Giusto in quell’istante entrò Rosalía con una bacinella piena d’acqua calda e un rasoio.
«Sono venuta a farti la barba».
«Tu?». A Thomas iniziarono a tremare le ginocchia.
«Tranquillo, l’ho fatto tante volte. Ho un debole per il collo degli uomini».
Thomas si innervosì ancora di più. Era consapevole del doppio senso della frase.
«Siediti qui e tira indietro la testa». Rosalía gli prese la nuca per fargli trovare la posizione giusta.
Gli coprì il petto con un panno e prese la lama affilata con la mano sinistra.
«Non eri destra?»
«Ci sono cose che si possono fare con entrambe le mani».
Thomas riusciva a sentire il suo profumo. Rosalía emanava un odore dolce, con una nota agrumata. Quando la lama gli sfiorò il collo, il ragazzo si irrigidì, ma a tranquillizzarlo fu la mano che la serva dalla pelle nera gli appoggiò sulla spalla. Era bello sentirla dietro di sé, percepire il battito del suo cuore, respirare la stessa aria che respirava lei.
La ragazza non aprì bocca.
Gli rase il viso con estrema meticolosità, facendogli ruotare la testa con la mano destra e disegnandogli il profilo della gola con la sinistra. Thomas smise di pensare, si rilassò completamente, chiuse gli occhi e si abbandonò alle sensazioni che stava provando.
Rosalía gli fece girare la testa, gli passò con delicatezza la lama su una guancia e poi si dedicò all’altro lato, e a quel punto Thomas aprì gli occhi e incrociò quelli di lei, concentrati sul filo del rasoio, che sfiorava la pelle senza arrivare a tagliarla. Finché non lo guardarono e la lama si fermò.
Rimasero a quattro dita di distanza per un istante che parve durare un’eternità.
«Ora dobbiamo tagliare i capelli», disse lei.
Mise via il rasoio, bagnò il viso di Thomas con l’acqua della bacinella e glielo asciugò con il panno. Poi prese un paio di piccole forbici lucenti con la stessa mano di prima, mentre con la destra sceglieva le ciocche da accorciare.
Tagliò la prima, poi la seconda, e così via. Si rimise dietro di lui, gli spinse in avanti la testa e fece scivolare la mano dalla nuca alla sommità del capo, un movimento talmente piacevole che Thomas si lasciò sfuggire un profondo sospiro.
Rosalía prese un’altra ciocca e diede un taglio netto, e così facendo gli accorciò tutta la capigliatura.
L’ultima persona che gli aveva tagliato i capelli era stata sua madre quando era bambino, e la ricordava come un’esperienza noiosa. Con Rosalía, invece, stava vivendo qualcosa di eccitante, sensuale, immensamente piacevole.
Udirono dei passi e, con un movimento brusco, la ragazza si affrettò ad accorciargli la frangia senza tante cerimonie.
«È pronto?», domandò doña Manuela.
«Sì, aveva un sacco di capelli», rispose la schiava.
«Bene! Ora sembri quasi un uomo. Ti manca solo di comportarti come tale. Vieni con me, andiamo».
«Grazie», disse Thomas a Rosalía.
«È stato un piacere», rispose lei a testa bassa.
Se ne andò confuso. Lui per primo non sapeva cosa fosse successo.
Lasciò il palazzo di Colombo a metà mattinata. Ora sì che aveva l’aspetto di un vero mercante di libri, come Alonso. Tornare a dedicarsi alla ricerca del volume scomparso gli riportò alla mente la triste dipartita del mercante. Serbava ancora il suo ricordo, e anche le sue ultime perle di saggezza. Aveva promesso a don Fernando che sarebbe riuscito nell’impresa e avrebbe trovato quel libro. Tuttavia, era il primo ad avere seri dubbi in merito e temeva fosse più un vano desiderio che una possibilità concreta. Ciononostante, l’unica cosa che poteva fare era riprendere la ricerca là dove l’aveva lasciata Alonso. Così decise di costeggiare le mura di Siviglia, diretto al monastero della Trinità, che non era lontano.
Era un complesso di notevoli dimensioni e si trovava nella zona nord della città. Accanto al monastero scorreva un ruscello. Venne ricevuto da un monaco trinitario, frate Antonio, che si mostrò cordiale e disposto ad aiutarlo.
Lo avvisò che frate Augusto era molto avanti con gli anni e si distraeva con enorme facilità, ragion per cui si trovava lì e non al convento di San Paolo. Nonostante questo, era ancora un grande oratore e, nelle giornate migliori, era persino possibile conversare con lui.
Il monaco era su una balconata nella parte assolata del monastero, seduto su una comoda poltrona. Il passare del tempo non era stato clemente con lui: la vecchiaia era impressa sul suo volto, il colore della pelle tendeva al giallognolo e il corpo sembrava ripiegato su se stesso, come se le ossa non sopportassero più il peso della carne.
«Frate Augusto, avete visite», disse il suo accompagnatore.
Il monaco si voltò verso Thomas.
«È nuovo nella classe?»
«Io…». Thomas pensò alla risposta da dargli. «No, ma mi hanno detto che siete un ottimo professore».
«Sciocchezze, si fa quel che si può».
«Vi lascio da soli». L’altro religioso tornò sui suoi passi, e frate Augusto si rivolse di nuovo al suo visitatore.
«Quanti anni hai? Sembri grandicello».
«È che sono alto».
«Sì, sì, lo vedo», disse il frate. «Qua i bambini non vengono più. Prima il collegio era pieno e c’erano tanti ragazzini intelligenti».
«Vi ricordate dei vostri alunni?»
«Certo», confermò lui. «Di tutti».
«E di un certo Jaime Moncín? Di lui vi ricordate?»
«Jaime Moncín…».
«Frequentava il collegio di San Paolo».
«Non mi ricordo». Sospirò. «Sai, sotto gli scantinati del convento ci sono le gallerie in cui vennero tenute prigioniere santa Giusta e santa Rufina».
«Non lo sapevo».
«Sì, sì. E c’è anche un pozzo, la cui acqua ha proprietà curative per intercessione delle sante. Ho chiesto di essere portato laggiù, ma non vogliono darmi retta», aggiunse con tristezza.
«Anche a me piacerebbe assaggiare quell’acqua».
«Non dubitare, ragazzo, non dubitare», e rimase con lo sguardo perso nel vuoto.
Il tempo passava, ma frate Augusto non parlava e non si muoveva. Thomas non sapeva cosa fare.
«Perdonate, frate Augusto, vi sentite bene?»
«Sì, sì. E voi chi siete?»
«Sono venuto a chiedervi dei vostri alunni».
«Ah, sì, sì. Come mi ricordo di loro…».
«Jaime Moncín. Di lui vi ricordate? Era un vostro alunno».
«Certo, certo. Jaime, un bravo ragazzo».
Thomas, agitato, si sedette accanto al monaco.
«Vi ricordate dei suoi genitori?»
«Sì, bravi cristiani, gente umile. Jaime ebbe molta fortuna».
«In che senso?»
«Aveva un amico, Miguel, il figlio degli Enériz». Tossì. «Furono loro a insistere affinché Jaime fosse ammesso al collegio».
Enériz… era un cognome che a Thomas suonava familiare. Dove l’aveva già sentito? Si fece pensieroso e domandò al monaco: «Quindi gli Enériz pagarono gli studi a Jaime?»
«Fecero una generosa donazione per una pala d’altare della Vergine. Jaime disegnava molto bene».
«Ne siete sicuro? Disegnava bene?»
«Secondo me sì».
«E come se la cavava come scrittore? Immagino che si leggessero molti libri in collegio».
«No, quello no. Disegnava dei veri capolavori, lo spronavo sempre a farlo».
«Ma non scriveva?», insistette Thomas.
«Io ho visto le sante proteggere la Giralda».
«Come dite?»
«Durante il terremoto, santa Rufina e santa Giusta apparvero per evitare che la torre crollasse. Tutta Siviglia tremò, i muri delle case si riempirono di crepe, caddero le tegole dai tetti e le volte della cattedrale scricchiolarono come se volessero seppellirci vivi là sotto. Pregammo, pregammo molto, e le sante salvarono la Giralda».
«Questo è successo ai tempi del terremoto, frate Augusto, ma io vi stavo domandando di un vostro alunno, Jaime Moncín. Ricordate se avesse mai detto che voleva diventare uno scrittore?»
«Non me lo ricordo. Lui e Miguel Enériz stavano sempre insieme, erano molto amici. Ho sempre pensato che Jaime sarebbe diventato un pittore e che la famiglia Enériz avrebbe cercato di promuoverlo, ma…».
«Ma? Accadde qualcosa?».
Frate Augusto tornò a fissare il vuoto per un lungo istante.
«Mi avete sentito? State bene?».
Visto che non apriva bocca, Thomas andò a cercare il monaco trinitario, e quando tornarono da frate Augusto la situazione non era cambiata.
«Gliel’avevo detto che ha giornate sì e giornate no. Non riesce a ragionare lucidamente più di tanto. Non dovete prendere per oro colato tutto quello che dice».
«Voi credete?»
«Soffre di demenza senile, anche se, a volte, chi viene colpito da questo tipo di infermità ricorda meglio fatti successi trent’anni fa che quello che ha mangiato ieri. Non si può mai sapere in questi casi», sentenziò il religioso.
«Mi ha parlato del terremoto e delle sante Rufina e Giusta».
«Sì, fu un terremoto terribile. Stava per venire giù la Giralda… riuscite a immaginare la disgrazia? Ma le sante fecero un miracolo».
«Quando è successo?»
«Nell’anno quarto, credo. Sì, era il 1504», rispose il monaco.
«Lo stesso anno in cui scomparve Jaime Moncín». Thomas si fece pensieroso. «Molte grazie, siete stato davvero gentile».
«Non c’è di che. Vi accompagno e vado, che devo celebrare la messa. In questo convento si celebrano molte funzioni perché, per privilegio di papa Gregorio xiii, per ogni messa che celebriamo salviamo un’anima dal purgatorio».
«Ma non mi dite, davvero lodevole».
«È così. Ed è un’opera più che necessaria».