34
Don Fernando Colombo
Sebas si fermò in una casa nei pressi della chiesa di Sant’Anna e ne uscì con un paio di sacchi in mano.
I due raggiunsero la Puerta del Arenal. Le guardie poste a controllare gli ingressi e le uscite dalla città non riuscivano mai ad avere il pieno controllo di chi passava da lì; potevano essere anche delinquenti, bastava solo non attirare troppo l’attenzione per varcarla senza problemi.
«Fai attenzione qui dentro. Le strade di Siviglia sono strette e piene di viandanti, stalle, spazzatura, rottami vari, bancarelle… e le piazze sono piene di banchi, depositi e chioschi», disse con occhi vigili. «Qui è molto facile venire derubati, violentati o ammazzati».
«Non mi sembra che tu abbia una buona impressione di Siviglia».
«Amo Siviglia, ma ne conosco i rischi, e l’unica cosa che voglio è potermi guadagnare da vivere in questa città». Tirò fuori dai sacchi degli abiti. «Forza, mettiti questo».
«Ma è una tonaca da novizio…».
«Dammi retta, ho preso questi abiti quando hanno fatto pulizia nel convento della Santissima Trinità. Li uso molto. Giro per Siviglia vestito così e riesco a passare inosservato», disse Sebas mentre si infilava la tonaca. «E guarda dove metti i piedi, che con questo abito si tira su tanta sporcizia».
La gente era abituata a gettare rifiuti ed escrementi per strada, si lasciavano scarti di materiale da costruzione, si scavavano buche, si buttava via acqua sporca. I bandi del Consiglio dei ventiquattro avevano proibito di gettare per strada carcasse di animali morti, letame e urine, ma era stato tutto vano.
«Siamo arrivati». Si fermarono davanti al palazzo di Colombo.
«Questa è solo una perdita di tempo».
Thomas cominciò a innervosirsi e lanciò uno sguardo a Sebas, che sembrava tranquillo. Non sapeva se fosse un bene o un male. Attesero davanti al palazzo fino a quando non videro arrivare una carrozza e il portone arancione iniziò ad aprirsi. Sebas lo guardò sorridente, sembrava che avesse calcolato tutto.
«Andiamo, e lascia parlare me. Tu china il capo per non farti vedere in volto e stai zitto». Si portò un dito sulle labbra per ricordargli di fare silenzio.
Sebas andò diretto verso la carrozza ma, prima che potesse raggiungerla, fu intercettato da Marcos, che gli impedì di avanzare.
«Dove andate?»
«Fratello», e Sebas si fece il segno della croce, lasciandolo di sasso. «Vorremmo vedere don Fernando Colombo, è imprescindibile che parliamo con lui».
«E chi siete?»
«Lodato sia Nostro Signore! Lodato sia Dio, sempre!», cominciò a gridare Sebas, muovendosi verso il portone socchiuso.
«Ma che cosa fate?». Sentendolo gridare, Marcos rimase sbalordito.
«Don Fernando Colombo! Aiutateci, per carità! Viva l’ammiraglio!». Sebas gridava talmente forte che avrebbero potuto sentirlo fino alla cattedrale.
«Volete stare zitto?». Marcos cercò di metterlo a tacere, ma Sebas si muoveva da una parte all’altra, senza smettere di gridare e richiamare l’attenzione. Una volta superato il portone, la carrozza si fermò nei giardini del palazzo.
«Dov’è il figlio di Colombo? Solo lui può aiutarmi! Colombo! Il Nuovo Mondo ha bisogno di voi!».
«Questo frate è pazzo». Marcos cercò di afferrarlo, ma Sebas si divincolò e cadde a terra.
Fernando Colombo apparve sulla porta, furioso.
«Si può sapere che cosa sta succedendo? Sono Fernando Colombo. Che succede? Perché tutto questo trambusto? Chi mi chiama?».
Sebas, che era a terra, fece un segno a Thomas, il quale si precipitò verso Colombo, scoprendosi il volto.
«Di nuovo tu!».
Marcos lo riconobbe e reagì immediatamente. Lasciò andare Sebas e afferrò Thomas per i polsi, torcendoglieli con forza.
«Lasciami!». Thomas si contorceva per il dolore. «Don Fernando, ascoltatemi, in nome di ciò che avete di più caro!».
«Come ti permetti, canaglia?». Marcos sembrava godere mentre lo stringeva con più forza. «Sei un assassino, uno sporco traditore».
«Don Fernando, io non ho nulla a che vedere con la morte di Alonso. Era mio amico e voi lo sapete benissimo». Quando si inginocchiò, sopraffatto dalla forza del suo avversario, Thomas emise un lamento.
«Fratelli, conosco quest’uomo e dice la verità, per questo l’ho accompagnato. Dio, nella sua infinita saggezza, seppe ascoltare, e io prego che un uomo di cotanta grandezza in entrambi i mondi possa seguire il Suo esempio», disse Sebas, ormai in piedi e con tono solenne.
Thomas emise un altro gemito di dolore.
«Aspetta». Don Fernando Colombo alzò un braccio e Marcos si fermò. «Fallo parlare. Visto che hanno messo su tutto questo teatrino, almeno sentiamo il perché».
«Ma, mio signore…».
«Marcos, fermati», gli ordinò.
«Non li ascoltate, mio signore», protestò l’uomo.
Colombo si diresse verso Thomas e Sebas.
«Entrate, ditemi cos’è accaduto e deciderò il da farsi», disse Colombo. «E lui chi è?»
«Solo un umile servo del Signore», rispose Sebas, levando lo sguardo al cielo. «Vi lascio, ho altri fedeli da assistere. Lodato sia Colombo! Gloria a lui!».
Sebas fece l’occhiolino a Thomas e se ne andò, appostandosi nelle vicinanze del palazzo, mentre tutti gli altri raggiunsero la scalinata. Thomas raccontò tutta la sua storia a uno stupefatto Colombo, senza tralasciare alcun dettaglio: l’omicidio, il carcere, le indagini su Moncín.
«Mi dispiace per la morte di Alonso Rodríguez e anche per il trattamento che hai ricevuto», disse il figlio di Colombo. «Mi fido della tua parola, non ti ritengo capace di uccidere il tuo amico».
«Grazie, don Fernando».
«Sospetti che l’uccisione di Alonso sia legata alla ricerca del libro?»
«Credo di sì, ma non ne conosco ancora il motivo».
«Mi sembra tutto così strano», disse don Fernando, sospirando. «Devi fare attenzione. Di certo il tuo aspetto è inguardabile. Resterai qui, riposerai e lasceremo passare qualche giorno. Meglio che tutti pensino che tu abbia lasciato la città».
«Non vorrei essere di disturbo».
«Mio signore, con tutto il rispetto…», intervenne Marcos, indicando Thomas. «Non sappiamo nulla di lui, credete davvero che convenga tenerlo così vicino alla biblioteca? Potrebbe essere una spia, è uno straniero».
«Hanno ucciso il suo capo a causa di un incarico che gli avevo affidato io».
«E la giustizia crede che lui sia implicato», insistette Marcos.
«Io non c’entro nulla con l’omicidio».
«Lo senti, Marcos? E poi ci sarà utile. Vediamo, Thomas, che cosa sai fare?», chiese don Fernando.
«Ad Anversa lavoravo in una tipografia».
«Io non ho alcuna tipografia. Compro libri, non li stampo», puntualizzò don Fernando. «Magari potrai dare una mano nel palazzo mentre sei qui», e il figlio di Colombo fissò Thomas, in silenzio. «Marcos, possiamo trovargli un lavoro?»
«Non saprei, mio signore. Mi sembra tanto un buonannulla. Sa fare tutto e niente».
«In qualche cosa potrà pur essere d’aiuto. Per pulire le stalle, o il giardino…».
«La cucina», disse Thomas, esitando. «Mio padre era un ottimo cuoco. Lavorava per una ricca famiglia di banchieri e commercianti e io lo aiutavo spesso».
«Cuoco…». Don Fernando si voltò verso il suo aiutante. «Abbiamo bisogno di qualcuno in cucina?»
«Lo ignoro, quello è il regno di doña Manuela, lo sapete. In cucina comanda lei e soltanto lei».
«Certo», e don Fernando sorrise. «Va bene, puoi lavorare nella cucina del mio palazzo, e nel frattempo noi cercheremo quel libro per tutta Siviglia. Vieni, ti accompagnerò io stesso da doña Manuela».