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Il Custode

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Custode sembrava non avere nome, tutti lo chiamavano così, incluso don Fernando. Era di Cordova; suo padre era un maestro e per questo aveva ricevuto un’ottima educazione. Aveva seguito le orme del genitore, specializzandosi nello studio delle opere classiche quando ancora c’erano pochi libri appartenenti a quel genere. Poi, con l’arrivo della stampa, in Spagna c’era stata una rinascita del sapere dei testi greci e romani. Il Custode aveva il compito di controllare il lavoro dei lettori, coloro che riassumevano e classificavano i libri, e di supervisionare il buono stato e la sicurezza della biblioteca del Nuovo Mondo.

Era orgoglioso di essere il bibliotecario e ogni volta che passava davanti alla scultura che si trovava al centro della biblioteca si fermava a guardarla. Quella scultura rappresentava Demetrio Falereo, il primo bibliotecario della leggendaria biblioteca di Alessandria, scelto per ricoprire quella carica da Tolomeo i, il generale di Alessandro Magno che era diventato governante d’Egitto dopo la sua morte, creando una dinastia che aveva dominato l’Egitto per tre secoli.

In un certo senso, lui e don Fernando erano parenti. Sua madre era una cugina di secondo grado della madre di don Fernando, e si era presa cura di lei per qualche anno. Da giovane aveva lasciato Cordova per trasferirsi a Granada, aveva assistito all’insediamento dei Re Cattolici e lavorato nell’Alhambra, dove inizialmente aveva ricoperto la carica d’intendente, ma il re Fernando il Cattolico aveva mostrato grande interesse per i libri presenti nell’Alhambra e aveva affidato proprio a lui il compito di ordinarli e classificarli. In seguito, era andato a Barcellona assieme al corteo del defunto principe Giovanni, dove per uno strano caso del destino aveva ritrovato il suo giovane nipote, Fernando. Era stata una gioia per entrambi, e da allora il figlio di Colombo non se n’era più separato, facendolo diventare il suo braccio destro. Era stato lui a riportare a Siviglia i resti di Cristoforo Colombo. L’ammiraglio era morto a Valladolid, dove era stato sepolto, ma i figli avevano insistito affinché venisse riportato a Siviglia, così gli avevano affidato l’incarico. Non era stata un’impresa semplice, per questo don Fernando lo aveva ricompensato mettendolo a capo dei lavori del suo palazzo, che all’epoca stava costruendo su una vecchia discarica della muraglia e, successivamente, a capo del suo più grande tesoro, la biblioteca del Nuovo Mondo.

Il Custode e Marcos stavano parlando di Thomas mentre Colombo lo accompagnava in cucina.

«Non mi piace che uno sconosciuto gironzoli qua a palazzo», disse il Custode. «Farò in modo che non duri a lungo».

«Vuoi che scopra qualcosa di più su quanto accaduto in quella locanda?», si offrì Marcos.

«Ma con discrezione», ribatté l’altro, «che a Siviglia si viene a sapere tutto».

«Certamente».

Thomas accompagnò don Fernando, costeggiarono l’edificio dal lato del giardino e il giovane restò a bocca aperta. La varietà di piante e alberi era incredibile, e Thomas pensò che se Massimiliano avesse potuto vedere quel giardino ne sarebbe rimasto estasiato. Alberi dai tronchi enormi con radici visibili in superficie, fiori immensi dai petali gialli, frutti di tutti i colori, profumi che mai aveva sentito prima, troppe cose da guardare, troppe sensazioni. C’era anche un orto rigoglioso che sembrava allungarsi a perdita d’occhio. Era un vero e proprio pezzo di Nuovo Mondo tra le mura della vecchia Siviglia.

Raggiunsero una porta angolare che dava su un cortile interno di forma quadrata, con un pavimento lastricato a formare dei cerchi concentrici. Lì c’erano altre tre porte; attraversarono quella centrale e raggiunsero una dispensa piena di profumi intensi. Thomas non riusciva a riconoscerli tutti; identificò alcune spezie che aveva imparato a conoscere lavorando con suo padre, ma si confondevano con altre erbe a lui sconosciute. Poco più avanti si apriva un ampio spazio, al centro del quale c’era un accogliente camino pieno di pentole e recipienti di mille forme e dimensioni. Appesi alle pareti c’erano svariati utensili da cucina, ma a risaltare più di ogni altra cosa erano l’ordine e la pulizia. Non somigliava per niente alla cucina di suo padre ad Augusta, dove era difficile trovare qualsiasi cosa, anche se lui diceva di sapere perfettamente dove teneva ogni utensile o condimento. Quella cucina, invece, era talmente ben organizzata che si aveva il timore di toccare qualsiasi cosa.

«Doña Manuela, vi ho portato un aiutante».

«Io non ho bisogno di nessuno», disse una voce profonda.

Era bassa e larga, e teneva i capelli nascosti sotto un fazzoletto. Aveva il viso pallido e rotondo, con piccoli occhi neri che risaltavano per la loro profondità. Si trovava dietro un tavolo di legno e stava affettando delle cipolle, talmente concentrata a fare il proprio lavoro che non alzò neppure lo sguardo.

«Desidero che gli troviate un’occupazione».

«Don Fernando, voi vi occupate dei vostri libri, ma qui, tra le mie pentole, comando io», disse la donna, sollevando lo sguardo assieme al coltello che stava usando.

«Mi rendereste molto felice se lo accettaste qui». L’uomo si fece da parte. «Lui è Thomas».

«E da dove avete tirato fuori una simile mostruosità?», chiese lei, squadrandolo dall’alto al basso. «Era in svendita al mercato del Malbaratillo?»

«Ha avuto varie peripezie, per questo il suo aspetto non è dei migliori. Viene da Anversa e suo padre era un cuoco, vero?»

«Esatto, era uno dei migliori».

«E cosa ne sanno di cucina ad Anversa?»

«No, mio padre era di Augusta», puntualizzò Thomas.

«Peggio ancora, non so neppure dove si trova». Doña Manuela posò il coltello e si pulì le mani con uno strofinaccio che teneva attaccato alla vita.

«In Germania, signora».

«Uno straniero. Gli stranieri non ne sanno niente di cucina andalusa, non mi servirai neppure per scaldare una zuppa…».

«Andiamo, doña Manuela, dategli un’opportunità. Io me ne vado, trattatelo bene».

La donna continuò a lavorare senza prestargli la minima attenzione.

«Vorrei chiedervi un’altra cosa, don Fernando», disse Thomas all’improvviso, mentre Colombo usciva.

«Certo, dimmi, vediamo cosa posso fare».

«Quando lavoravo nella tipografia di Anversa, leggevo tutto quello che veniva stampato. Ogni notte lottavo contro il sonno per riuscire a terminare un nuovo libro. Mi manca leggere, e qui avete la biblioteca migliore al mondo, perciò mi chiedevo se…».

«Vuoi leggere i miei libri?»

«Se non vi disturba, sì».

Don Fernando restò a fissarlo in silenzio.

«D’accordo, ma potrai prendere solo un libro alla volta».

«Certo».

«Parlerò con il Custode. È lui che controlla il registro di tutto quello che esce dalla biblioteca. Dovrai fare così, ma adesso concentrati sulla cucina, che è il tuo lavoro».

«Mille grazie, don Fernando».

Quando il nobile se ne fu andato, la cucina ripiombò nel silenzio. La cuoca continuava a ignorare Thomas e lui, non sapendo cosa fare, si diresse verso la donna e le si fermò accanto. Dopo qualche istante, doña Manuela lo guardò e finalmente gli rivolse la parola.

«Là fuori c’è un pozzo. Lavati bene e butta via quei vestiti sporchi».

«E cosa mi metto?»

«Santa pazienza, se esci da quel corridoio troverai un vecchio ripostiglio con la porta deformata. Là dentro troverai dei vestiti da uomo. Qualcosa ti andrà, e ritieniti fortunato di poter contare sull’aiuto di don Fernando».

«Grazie. Avete ragione, sono fortunato».

Doña Manuela rispose con una specie di grugnito. Thomas seguì le sue indicazioni ed effettivamente trovò dei vestiti, ma erano tutti di taglia molto grande. Prese quelli che gli parvero più piccoli e uscì a cercare il pozzo. Riempì un secchio d’acqua e se lo gettò addosso, ma era talmente gelida che rischiò un infarto. Si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno, si denudò e tornò a gettarsi addosso un altro secchio pieno d’acqua. Si strofinò con le mani, continuando a lavarsi, e l’acqua gelata fu una vera panacea per i colpi presi e le ferite, e lo aiutò anche a dimenticare i dolori dell’anima.

I vestiti gli stavano ancora più larghi di quanto pensava, tanto che dovette legarli in vita con una corda e rimboccarli. Ciononostante, tornò in cucina con un aspetto molto più ordinato.

«Che tipo… certo che da una rapa non si cava il sangue», sospirò la donna. «Vedi quei catini impilati in quell’angolo, vicino alle teste d’aglio?», gli disse, senza alzare la testa. «Bisogna portarli tutti fuori alla fontana, in giardino, pulirli, asciugarli e rimetterli a posto».

«Tutti?». Thomas ne contò almeno una trentina.

«Sì, tutti».

«Mi ci vorrà l’intera giornata».

«E anche parte di quella di domani», aggiunse lei, «ma non credo tu abbia di meglio da fare, quindi sbrigati! Li voglio puliti e splendenti, come nuovi».

Capendo che gli conveniva obbedire, Thomas prese i primi due e uscì fuori. La fontana era piuttosto distante e i catini pesanti, e il lavoro fu lungo ed estenuante sotto il caldo sole estivo di Siviglia. Da lì, però, poteva ammirare il giardino con le sue piante e i suoi fiori.

Proprio come aveva detto doña Manuela, non riuscì a terminare il lavoro quel giorno stesso. Non appena ebbe finito il suo turno, la cuoca gli parlò lo stretto necessario e lo indirizzò da Marcos.

«Seguimi, ti faccio vedere dove dormirai». Poi, con tono minaccioso, aggiunse: «Te lo dirò una volta sola. Conosco i tipi come te. Non ti permetterò di creare alcun tipo di problema a don Fernando e non otterrai nulla da lui, di questo mi assicurerò io stesso».

Uscirono dal palazzo e si diressero verso una casetta annessa. Era di legno e con il tetto spiovente, mentre le finestre davano sui frutteti pur non facendo parte del complesso del palazzo.

«Entra, dormirai qui».

Era una piccola capanna, ma pulita e luminosa, con un vero letto e un giaciglio dall’aria molto comoda. C’era anche una grande scrivania sulla quale vide un libro, della carta, un pennino e delle candele. Le piccole finestre affacciavano su una bellissima porzione del giardino. Si sedette sul letto e ricordò le parole della cuoca. Poteva davvero ritenersi fortunato.

«Domani puntuale in cucina, all’alba», gli disse Marcos prima di chiudere la porta.

Thomas si mise comodo e per qualche minuto rimase a contemplare gli alberi del Nuovo Mondo che tanto gli piacevano fuori dalle finestre. Notò che la porta aveva un chiavistello. La chiuse, prese la carta e la annusò; era bianca come quella di Anversa e aveva un profumo meraviglioso.

Aprì il libro. Si intitolava I viaggi di Marco Polo, e Thomas rimase colpito nel vedere che sulla prima pagina c’era una frase scritta a mano: “Libro di proprietà di Fernando Colombo”, mentre all’interno c’era un foglio piegato a metà, con una nota che diceva:

Che ti serva per sognare, proprio come fece mio padre.

Fernando Colombo.

“Che gentile”, pensò Thomas.

Emozionato per tutta quella successione di eventi, per tutto quello che gli era accaduto nella vita, per i buoni e i cattivi momenti, Thomas si distese sul letto e cominciò a leggere il libro.