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La follia
Uscendo in strada, Thomas fu accolto da un’arietta fresca, uno dei primi segnali dell’arrivo dell’autunno di quel 1523. Scese in direzione della cattedrale. La torre della Giralda era impossibile da non notare e costringeva ad alzare gli occhi fino al cielo. Era lo stesso panorama che doveva aver visto Jaime Moncín uscendo dal palazzo degli Enériz dopo aver letto i libri a cui aveva appena finito di dare un’occhiata. Come minimo si era fermato davanti alla Giralda, come stava facendo lui, a pensare agli eroi antichi, ai saggi greci, ai califfi arabi o ai cavalieri erranti.
Quella città aveva visto passare gente di ogni tipo, razza e religione. Quando era stata riconquistata da re Fernando iii il Santo, la moschea era stata consacrata e trasformata in tempio cristiano, l’attuale cattedrale, e avrebbero dovuto aggiungere come da prassi le campane e togliere il yamur dal minareto per mettervi una croce, sotto la quale in genere veniva collocata una banderuola. In quel caso, però, il yamur era rimasto al suo posto. Era stato il terremoto di cui tanto si parlava a farlo cadere.
Per quanto fosse ricca e bella Siviglia, Jaime Moncín aveva deciso di raggiungere il Nuovo Mondo, e questo dava da pensare.
Siviglia era una città in cui le attività non cessavano mai e il silenzio non esisteva. Chissà, forse Jaime cercava un luogo più tranquillo dove vivere, leggere, scrivere… per cui se n’era andato. Thomas poteva anche capirlo: detestava la confusione, ma alla fine era arrivato ad abituarsi alla città più viva e vibrante del mondo.
Stando a quanto aveva scoperto, Jaime Moncín sembrava un uomo inquieto, intelligente, con grandi capacità intellettive, anche se proveniva da una famiglia priva di risorse. L’amicizia con Miguel Enériz gli aveva dato accesso ai libri e, molto probabilmente, anche la possibilità di frequentare il collegio del convento di San Paolo. Era una persona preparata, con sogni e ambizioni, e per realizzarli aveva addirittura attraversato l’oceano.
Thomas in un certo senso riusciva a immedesimarsi con lui, e questo lo spingeva a nutrire alcuni dubbi. Dubbi con cui tornò al palazzo di Colombo, impensierito dall’affinità che provava per Jaime Moncín e, allo stesso tempo, dal mistero della scomparsa di quell’uomo e del suo libro.
«Com’è andata la passeggiata?», gli domandò Marcos. «Certa gente se la passa proprio bene…».
«Non ne hai mai abbastanza, vero?»
«A spaccare le pietre, ecco dove ti avrei messo io, così magari ti sarebbe passata la voglia di fare lo stupido e avresti smesso di essere un simile buonannulla».
«Un’altra volta, Marcos. Un’altra volta», e non gli prestò più attenzione.
Arrivato in giardino, le piante del Nuovo Mondo riuscirono soltanto ad accrescere i suoi dubbi. Si fermò ad ammirarle finché non vide don Fernando scendere la scalinata esterna del palazzo.
Gli andò subito incontro.
«Thomas, come stai? Qualche novità?»
«Ancora no, don Fernando, ma volevo parlarvi della mia ricerca».
«Ma certo. Sto andando a prendere una boccata di aria fresca. Mi accompagni?», e gli indicò il giardino.
«Sì, volentieri».
Fernando Colombo passeggiava con le mani intrecciate dietro la schiena e un portamento fiero. Thomas aveva visto persone di ogni nazionalità ed estrazione sociale, e ai suoi occhi don Fernando assomigliava più a un navigatore che a un uomo di lettere. Il suo aspetto esprimeva al meglio proprio questa strana fusione. Osservandolo, spesso si domandava se fosse il fedele ritratto di suo padre, l’ammiraglio.
«Che cosa ti preoccupa?». Ormai don Fernando lo trattava in modo sempre più amichevole.
«Jaime Moncín sta prendendo forma come un uomo dalle numerose capacità, intelligente e sensibile. Ho avuto fortuna, gli Enériz erano i suoi mecenate. Un bel giorno, però, dopo aver pubblicato il suo unico libro, lasciò tutto e si imbarcò per il Nuovo Mondo. Non riesco a capire il perché di questa decisione. Perché lasciare una città meravigliosa come Siviglia, dove oltretutto aveva grandi amici e ricchi mecenate?»
«La felicità non guarda dove nasce, ma dove può andare, come mi ha insegnato il mio amato Seneca. La natura degli uomini è molto complessa», affermò don Fernando. «Per esempio, sai perché ho creato un giardino in questo palazzo?»
«Immagino che voleste portare le Indie nel vecchio mondo».
«Esattamente, e quando passeggio tra questi alberi mi piace pensare di essere lì».
«E ci credo, siete riuscito nel vostro intento». Thomas rifletté sulle parole successive. «Voi avete viaggiato e siete stato nel Nuovo Mondo. Non vi manca? Non sentite il desiderio di tornare lì?»
«In realtà, no. Ci sono stato con mio padre e mio fratello e so cosa hanno da offrire quelle terre, ma so anche che sono più utile qui, con la mia biblioteca».
«Più utile per chi?»
«Per il mondo, per la Spagna. Noi uomini non dobbiamo essere egoisti, Thomas, non dobbiamo pensare solamente ai nostri interessi. Credi che Giulio Cesare stesse pensando al suo futuro quando attraversò il Rubicone? O quando i Re Cattolici iniziarono la conquista del regno di Granata? C’è sempre un fine maggiore al quale dobbiamo ambire».
«E non è possibile anche nel Nuovo Mondo?»
«Io non credo».
«Un uomo che ho conosciuto nei pressi di Milano diceva di essersi imbarcato insieme a vostro padre. Probabilmente viaggiaste insieme. Mi disse che l’ammiraglio perse le sue quattro navi e naufragò su un’isola, ma non ricordo quale».
«È vero, il quarto viaggio di mio padre fu pieno di disavventure, per non dire di peggio», e fece una pausa. «Intuisco che indagando sul passato di Jaime Moncín ti sia venuta voglia di viaggiare, dico bene? Sei uno straniero, però, quindi per te sarà impossibile salpare verso il Nuovo Mondo».
«Lo so, ma pensavo che… e questo è un altro dei motivi per cui volevo parlarvi, magari potreste intercedere per me».
«Cosa intendi dire?»
«Non pretendo che mi paghiate il viaggio, ma che mi aiutiate a imbarcarmi verso quelle terre».
«Caspita, questo non me l’aspettavo, davvero». L’espressione di don Fernando si annuvolò. «Non mi puoi chiedere una cosa simile. È illegale».
«Certo, avete ragione».
«La legge è la legge, e solo l’imperatore può cambiarla», dichiarò Fernando Colombo.
«Perdonatemi, non avevo alcun diritto di chiedervi una cosa del genere».
«Il dono di alcuni è servire Dio, quello di altri è essere utile all’imperatore sui campi di battaglia. C’è chi costruisce cattedrali che né tu né io saremo mai capaci di erigere, neanche se vivessimo mille anni», rifletté don Fernando, con le mani ancora intrecciate dietro la schiena. «Doni distinti, migliori o peggiori, più o meno utili. C’è chi passa tutta la vita a cercare il proprio dono senza riuscire a trovarlo, e questa è la cosa più triste che ci possa accadere».
«Cosa state cercando di dirmi con questo?»
«Che devi concentrarti sul libro rubato e sul ladro. Dimostrami che è questo il tuo dono, giovane mercante di libri. Mi hai assicurato che saresti riuscito a ritrovarlo. Fallo!».
«Ma certo, non era mia intenzione abbandonare la ricerca. Per prima cosa troverò il libro. Spero di riuscirci».
«Lo spero anch’io. Non amo perdere tempo, né sbagliarmi sulle persone».
«Vi assicuro che non succederà. Non con me».
«Ciascuno di noi serve a un bene superiore. Apparteniamo al più grande impero del mondo, del vecchio e del nuovo. Le sue navi e i suoi eserciti sono come le braccia e le gambe di un uomo. Li usa per muoversi e per difendersi. Proprio come noi, un impero ha bisogno di un cervello, di una testa che lo diriga».
«L’imperatore».
«No. Sua Altezza, l’imperatore Carlo, non può dominare il mondo intero. Un solo uomo non è sufficiente», spiegò don Fernando, alzando la mano destra e tendendo l’indice.
«Allora non capisco».
«La conoscenza, questa deve essere la testa dell’impero. Se avremo tutti i libri del mondo, se ne entreremo in possesso, non ci saranno nemici in grado di batterci».
«Libri…».
«Sì. Né armi né eserciti, né flotte né castelli o terre…», snocciolò Fernando Colombo. «I libri sono… come te lo spiego? I libri ci permettono di sapere cosa pensano migliaia di uomini, ciò che fu decifrato dai saggi dell’antichità, cosa scopre un genio dall’altro capo del mondo. I libri ci insegnano la storia. Possiamo imparare da essa per non commettere gli stessi errori dei nostri antenati. I libri ci mostrano la parola del Signore. Cosa ne sarebbe di noi senza le Sacre Scritture? I libri sono una mente immensa, che abbraccia il sapere di tutta l’umanità. Senza di loro… saremmo poco più che animali. Ogni generazione dimenticherebbe le nozioni apprese dalla precedente e così via fino alla fine dei tempi».
Thomas rimase colpito dalla passione con cui si esprimeva don Fernando, che prese fiato e deglutì.
«Ma… ci saranno migliaia di libri in tutti i regni del mondo».
«Decine di migliaia», lo corresse Fernando Colombo.
«Davvero ambite a possederli tutti?»
«Sì», rispose senza esitare, con un’espressione talmente decisa che sembrava impossibile trovare una sola falla nei suoi ragionamenti. «La mia biblioteca conterrà tutti i libri esistenti, in tutte le lingue e di tutti i generi, che si trovino entro i confini della cristianità o al di fuori di essa. Vedrai».
Thomas si strinse nelle spalle e sospirò.
Don Fernando Colombo si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi.
«Tu pensi che sia una follia, ma lo dissero anche a mio padre quando presentò la sua idea e propose di viaggiare verso ponente. E poi scoprì il Nuovo Mondo».