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I sogni

 

 

 

 

 

 

 

 

A volte, di notte, Thomas si svegliava di soprassalto, proprio nel bel mezzo di un sonno profondo, e per pochi istanti era in grado di ricordare cosa stava sognando. Restava sconcertato, immerso nelle fantasie partorite dalla sua immaginazione. Erano sogni molto vividi, pieni di dettagli di cui da sveglio non aveva mai avuto consapevolezza. Era un po’ come rileggere un libro e scoprire particolari che prima non era riuscito a cogliere.

Questo non faceva altro che angosciarlo ancora di più, perché la realtà non era meno confusa dei suoi sogni. Era arrivato a un punto morto della sua indagine. Le giornate si susseguivano senza progressi, improduttive, finché non arrivò il primo giorno del nuovo anno, il 1524. Il mese di gennaio passò in fretta, rapido e monotono. Thomas passeggiava per le strade in cerca di un’illuminazione, di una pista, di un miracolo.

E non otteneva niente. Anzi, stava iniziando a temere che don Fernando Colombo potesse perdere la fiducia che aveva riposto in lui. Marcos, che lo prendeva in giro e lo osservava con sospetto ogni volta che entrava o usciva dal palazzo, non aspettava altro. E l’indifferenza del Custode, che dall’alto del suo piedistallo di responsabile della biblioteca lo ignorava completamente, non era più incoraggiante.

Thomas non sapeva cosa fosse peggio, che ridessero di lui o lo snobbassero.

Con doña Manuela aveva un rapporto più onesto; lei, sempre concentrata sui suoi stufati, aveva poco tempo per gli altri, incluso per se stessa. Oppure con Víctor, indaffarato con gli orti e i giardini, gentile e taciturno.

E poi c’era Rosalía, la schiava dalla pelle nera e lucida, che era come un’estranea in quel palazzo. Sbucava dal giardino come se stesse emergendo dalla selva, e la sua ombra appariva nei corridoi come un fantasma. Più di una volta aveva pensato che l’unica spiegazione per la sua presenza lì fosse una qualche avventura amorosa con don Fernando. Il padrone di casa, però, non la degnava neanche di uno sguardo e non sembrava interessato ad altro che ai suoi libri, ragion per cui Thomas temeva così tanto che avrebbe finito per stancarsi dei suoi insuccessi al momento di ritrovare il libro perduto di Jaime Moncín.

Ma Thomas sapeva anche che vivere e lavorare lì era una meraviglia. Il palazzo di Colombo era come il monte Olimpo per gli antichi Greci. Con Siviglia ai suoi piedi, abitata dai comuni mortali, e loro lassù in alto, con tutto il sapere a portata di mano, potevano sentirsi come le divinità del passato: Zeus o Atena. Il palazzo seguiva il modello delle ville dei celebri umanisti italiani, con i bei giardini e le città a debita distanza, costruite in luoghi appartati, dove era possibile godere della tranquillità sufficiente per portare a termine studi e lavori.

La facciata principale era stata affidata ad alcuni scultori genovesi, gli stessi che avevano realizzato le altre residenze signorili del rinascimento sivigliano, come la Casa de Pilatos. Avevano usato del marmo di Carrara. Il portone era a forma di arco romanico, sorretto da colonne corinzie. Sopra l’arco risplendeva lo scudo dei Colombo, circondato da delfini.

Nella zona coltivabile compresa tra il fiume e la casa, adesso trasformata in giardino, c’erano più di cinquemila alberi, tra cui varie specie americane, piante di arance e limoni, ma anche moltissimi esemplari di piante rare e arbusti preziosi, portati da oltreoceano, tra i quali spiccavano i giganteschi alberi di sapote, piantati lungo l’argine del fiume.

Sul frontone all’ingresso avevano fatto scrivere: “Don Hernando Colombo, figlio di don Cristoforo Colombo, primo ammiraglio e scopritore delle Indie, fondò questa casa nell’anno 1526”. Era strano che avessero usato la variante spagnola del suo nome di battesimo. Hernando e Fernando significavano la stessa cosa…

Avendo studiato bene il palazzo, Thomas era arrivato a convincersi che non fosse saggio entrare nella biblioteca. Don Fernando si era detto più che sicuro che il libro non poteva essere stato rubato dai suoi lettori. Studiavano duramente per anni nella migliore università della Spagna e poi dovevano superare difficili prove d’ingresso per il posto in biblioteca. Che senso aveva rischiare tutto per portarsi via il libro di un autore sconosciuto?

Ma, allora, chi l’aveva rubato?

Chi altri aveva accesso alla biblioteca?

Il personale del palazzo sembrava fedele a don Fernando, ma era altrettanto vero che riceveva in visita tanti mercanti di libri, tipografi, cartografi… chiunque avrebbe potuto trafugarlo. Di fatto, Thomas si era reso conto che don Fernando aveva migliorato i sistemi di sicurezza della biblioteca. Il Custode ne sorvegliava l’ingresso persino di notte.

Con tali premesse, se non fosse riuscito a trovare il ladro, l’assassino o il libro rubato, quanto avrebbe pazientato ancora Fernando Colombo prima di stancarsi dei suoi fallimenti?

Quel pomeriggio, scoraggiato, tornò al suo alloggio e, per sua sorpresa, aprendo la porta trovò Santiago Lafuente sdraiato sul suo giaciglio.

«Signor Thomas». L’uomo si ricompose il più rapidamente possibile. «Visto che tardavi a rincasare, mi sono appisolato un attimo».

«Come sei entrato?»

«Ho chiesto di te all’ingresso del palazzo. Il portiere, un uomo molto ragionevole e gentile, mi ha aperto e mi ha condotto fin qui».

«Marcos! Da non credere…».

«È saltato fuori che anche suo padre e uno zio paterno combatterono in Lombardia con i tercios del Gran Capitano», commentò Santiago.

«Con chi?»

«Be’…», ritrattò Santiago. «I soldati venivano comunemente chiamati tercios perché le varie legioni comprendevano tre tipi di combattenti: i picchieri, gli archibugieri e i moschettieri».

«E tu di quale unità facevi parte?»

«Io ero un moschettiere, quindi di quella con maggiore mobilità. Questo tipo di formazione militare costituita da tre unità fu un’innovazione voluta dall’illustre re Fernando il Cattolico, e gli permise di sbaragliare la cavalleria francese durante le guerre d’Italia. Segnarono la fine di quella che oggi viene chiamata l’Età Media!».

«Come?»

«Credo che il termine moderno sia Medioevo».

«Sì, questo lo so». Thomas brancolava ancora nel buio. «Quello che non capisco è perché hai detto che segnarono la fine dell’Età Media».

«È molto semplice. Nel corso dei secoli, tutte le più grandi battaglie furono combattute dalla cavalleria: quella di Las Navas a Tolosa, Muret, Alarcos… La fanteria era solo un complemento, non contava niente. Poco importava che contasse migliaia di fanti, alla fine a decidere tutto era sempre una carica frontale della cavalleria».

«E poi cosa accadde?»

«Che le sorti si ribaltarono di nuovo quando si tornò al sistema classico, quello della legione romana o della falange greca. Gruppi compatti di picchieri, spadaccini e balestrieri, che noi abbiamo rimpiazzato con gli archibugieri».

«Con i quali riuscivate ad arrestare le cariche della cavalleria».

«Sì, sì. E vale anche per i castelli».

«Ma, Santiago, non vorrai dirmi che anche i castelli hanno fatto la loro epoca?»

«Assolutamente sì», confermò l’anziano soldato.

«E perché?»

«Per una bombarda non c’è niente di più allettante di un torrione di quaranta pertiche e alte mura di cinta. I castelli sono diventati antiquati. Ora si costruiscono cittadelle fortificate, con fossati e baluardi. Le mura sono più basse e più larghe, per sopportare meglio gli impatti delle cannonate. Le torri non ci sono più, sostituite da casematte e garitte. Le nuove fortificazioni hanno complesse forme poligonali e sono infossate nel terreno. Basta nidi d’aquila».

«È chiaro che hai dei validi argomenti, Santiago», mormorò Thomas. «E io che pensavo che l’Età Media fosse terminata con l’invenzione della stampa».

«Come dici, signor Thomas?»

«Niente, non importa. Ma non chiamarmi così, per l’amor di Dio! Thomas, chiamami Thomas. Dimmi, ci sono novità?»

«E tante, anche». Santiago si sfregò le mani. «Dunque, ho sguinzagliato i miei contatti giù al porto e ho avuto accesso alla lista dei membri dell’equipaggio e dei passeggeri della flotta finanziata dai Cromberger nel novembre del 1504».

«Sei veramente una lince», disse Thomas, ammirato. «E in quale porto arrivò?»

«In nessun porto. Jaime Moncín non si imbarcò per il Nuovo Mondo, né su una nave di quella flotta, che effettivamente naufragò, né su nessun’altra barca partita da Siviglia nel corso di quel mese. Ho controllato bene».

«Un momento, non può essere. Forse si imbarcò con un nome falso».

«Ci ho pensato anch’io, ma l’unica cosa che ho trovato alla Casa de Contratación è stata un permesso concesso a nome di Jaime Moncín. Che senso aveva imbarcarsi con un altro nome? Avrebbe avuto bisogno di due permessi, ossia avrebbe dovuto pagare il doppio».

«Ciò significa che anche se non se ne andò con quella barca», disse Thomas, «scomparve da Siviglia quello stesso giorno».

«Forse ci furono delle complicazioni. Magari non partì per il Nuovo Mondo, ma se ne andò in un’altra città», suggerì Santiago.

«Jaime era ossessionato dal Nuovo Mondo, non ha alcun senso che non sia salpato».

«Quali altre opzioni ci restano?»

«Non molte». Thomas sospirò. «Devo parlare con Juan Cromberger. È l’unico che può aiutarci».

«Ma fai attenzione. Ricorda che i Cromberger sono una famiglia molto influente. Non insistere più di quanto sia prudente».

«E come farò a capire quando fermarmi?»

«Lo capirai perché verrò con te», rispose Santiago. «Un soldato di Sua Maestà l’imperatore non si tira mai indietro di fronte a una battaglia. Capirò io quando sarà il momento di astenersi dal fare altre domande».