36
Marco Polo
Continuò a leggere fino a notte fonda. Le avventure di Marco Polo gli fecero tornare in mente i suoi viaggi e quanto gli era costato arrivare fino a lì; pensò ad Anversa, a Massimiliano, ad Alonso, alla sua casa, a Saragozza, a Úrsula e a Edith… alla cucina di suo padre… a Triana e ai traffici di Sebas, alle isole delle Spezie, a tutti i libri del mondo… e finalmente si addormentò.
Dormì di filato come non faceva da molto tempo, e il mattino seguente si svegliò emozionato, come se viaggiare lungo la Via della Seta lo avesse aiutato a recuperare il buonumore. Marcos gli aprì la porta del palazzo senza neppure salutarlo, ma Thomas si presentò puntuale in cucina.
«Forza che ti si accumula il lavoro, ragazzo!». La cuoca non gli diede un attimo di tregua neppure quel giorno.
Mentre andava e veniva dalla fontana, il giovane ammirò i mille dettagli del rigoglioso giardino. Nonostante fosse di grandi dimensioni, sembrava esserci un solo giardiniere a occuparsi degli alberi. Era l’uomo che lui e Alonso avevano conosciuto la prima volta che si erano recati a palazzo; era difficile credere che una sola persona fosse in grado di farsi carico di tutto quel lavoro.
Thomas rimase sorpreso da tutta la segretezza e la sorveglianza che c’erano nel palazzo. Il personale era poco e ogni compito era ben diviso: doña Manuela non lasciava mai la cucina, Marcos non abbandonava mai il portone d’ingresso e il Custode la biblioteca. Rosalía era l’unica domestica e il giardiniere, Víctor, era l’unico che si aggirava per il giardino, potando le piante. I lettori entravano e uscivano ogni giorno, sempre controllati dal Custode e da Marcos.
Quel posto non aveva nulla a che vedere con i ricordi legati alla residenza dei Fugger, che era molto più appariscente rispetto a quella di Colombo e non aveva tutta quella vigilanza. Là, al contrario, gli inservienti e gli ospiti potevano entrare con estrema facilità.
In quel palazzo, invece, la priorità era la sorveglianza della biblioteca. Eppure, nonostante tutto, non erano riusciti a evitare che venisse rubato un libro…
Vedere la cuoca al lavoro risvegliò in Thomas alcuni ricordi legati all’infanzia: i profumi, le pentole che bollivano sul fuoco e, soprattutto, le spezie. In un certo qual modo, la donna gli ricordava suo padre e la cosa lo rallegrava, nonostante con lui apparisse distante e autoritaria.
Inoltre, la cuoca era un portento e riusciva a preparare in contemporanea vari piatti: ceci e spinaci, agnello, zuppa all’aglio e uno stufato di cipolle, lenticchie e pancetta.
Quando i piatti erano pronti, Rosalía andava a prenderli per servirli. La ragazza aveva la pelle nera come il carbone. Thomas non aveva mai visto da vicino qualcuno con la pelle tanto scura. Aveva avuto modo di vedere altre persone con la pelle dello stesso colore per le strade di Siviglia, ma in lontananza e senza avervi mai scambiato una parola. Quella donna era diversa dalle altre, e non solo per il colore e la lucentezza della pelle. Era molto attraente, alta e magra, e si muoveva con rapidità. Aveva i capelli lunghi, ricci e neri, che sembravano quasi poterti avvolgere. Thomas la trovava molto bella, forse anche troppo. Se fosse stato un eroe greco, avrebbe pensato che fosse una dea o una ninfa. Ulisse non avrebbe esitato nel conversare con lei, ma lui era più simile ad Achille: non si trovava nel palazzo di Colombo per il proprio piacere, aveva una missione da compiere.
«Ehi, tu, c’è da tagliare la legna», esclamò la cuoca in una delle tante occasioni in cui lo vide fermo a contemplare la giovane. «Quindi datti una mossa. Vieni con me e smettila di guardare quella ragazza. Sei appena arrivato e già sei lì che la guardi a bocca aperta».
«No, io non guardavo niente».
«Se ti trovo a parlare con lei o ti sorprendo a spiarla, prendo il coltello e risolvo subito il problema», lo avvertì, guardandogli il cavallo dei pantaloni. «Forza, che non ho tempo da perdere!».
Thomas la seguì per un lungo corridoio fino a un secondo giardino, dove c’erano altri tipi di alberi dai tronchi robusti.
«Lì c’è l’ascia. Taglia la legna in pezzi grossi quanto due palmi, accatastala e, quando hai terminato, vieni a chiamarmi».
«Quanta volete che ne tagli?»
«Come quanta? Tutta! Nel tuo paese non si lavora molto, vero? Qui sei in Spagna, sei a Siviglia, vediamo se cominci a rendertene conto!».
Quella sera arrivò a letto distrutto, eppure continuò a leggere il libro di Marco Polo.
Fu una delle settimane più dure che avesse mai vissuto. Alcuni tronchi erano talmente grandi che ci aveva messo quasi un’ora per tagliarli. Nella sua vita aveva sempre lavorato tanto, ma lì gli erano venuti i calli alle mani e ogni sera arrivava al letto esausto ma, al tempo stesso, felice, perché la notte poteva distrarsi, evadere grazie alla lettura.
Quanto gli era mancata!
Terminò il libro di Marco Polo e ne chiese un altro al Custode. L’uomo gli dava un solo libro per volta, e dopo quello di Marco Polo ebbe modo di leggerne uno di Platone, seguito poi da un testo di Agostino d’Ippona, e infine da uno di Isidoro di Siviglia. Thomas non poteva scegliere, prendeva quello che gli veniva dato e leggeva tutto con lo stesso entusiasmo.
Per quanto i libri riuscissero a fargli sentire di meno la stanchezza, il taglio della legna risultò essere una vera e propria tortura. Quando finì il lavoro, entrò orgoglioso in cucina, dove la cuoca stava sbattendo le uova a un ritmo frenetico.
Thomas non capiva da dove riuscisse a prendere tutta quell’energia.
«Ho finito di tagliare e impilare la legna».
«Perfetto. Ora andiamo, le galline stanno facendo poche uova. Vai e puliscile».
«Ma… ho bisogno di riposare. Sono giorni che lavoro come un mulo», si lamentò Thomas. «Non posso aiutarvi qui in cucina, preparare qualche piatto?»
«Cucinare, tu? Tu non sai cosa significhi lavorare. A me sembra tanto che a voi del nord non piaccia sudare, vero?», e lo guardò in malo modo. «Forza, che sono circondata da fannulloni!».
Non gli rimase altro da fare che obbedire. Ogni mansione che la cuoca gli affidava era peggiore della precedente, e Thomas non riusciva a capire per quale motivo lo odiasse così tanto. Forse perché era straniero, o perché non si fidava delle sue intenzioni nei confronti del padrone, don Fernando Colombo, esattamente come il temuto Marcos.
Dopo aver terminato con le galline, la cuoca lo mise a lavorare nell’orto della cucina. Il caldo di Siviglia era intenso e lui passava le giornate sotto il sole cocente. La sua pelle, che non era abituata a tutto quel caldo, divenne talmente rossa che doña Manuela gli diede alcuni unguenti. Dovette applicarli sulla pelle, interrompendo il lavoro, cosa che fece infuriare ancora di più la cuoca. Thomas, rassegnato, imparò ad accettare il suo atteggiamento e cercò di distrarsi con le piante del Nuovo Mondo che popolavano quell’incredibile giardino.
Perlomeno mangiava bene. Doña Manuela era una tiranna, ma anche un’eccellente cuoca, e poi c’erano i giardini che Thomas adorava, con quegli alberi insoliti che esercitavano un forte richiamo su di lui. Inoltre, da qualche giorno aveva visto crescere delle strane piante che poi seppe essere pomodori. Massimiliano gli aveva raccontato che nel Vicereame della Nuova Spagna erano soliti arrostirli o stufarli e li utilizzavano anche per fare delle salse, sia con i rossi che con quelli verdi. Invece in Spagna veniva usato solo come pianta ornamentale.
Massimiliano gli aveva sempre detto che la società non si era ancora resa conto dell’importanza della scoperta di Colombo, che era stata sottovalutata e, sebbene se ne stesse cominciando a comprendere la grandezza, ancora non era chiaro ai più quanta ricchezza ci fosse nel Nuovo Mondo.
Si chiese cosa ne fosse stato del buon Massimiliano, come se la stesse passando ad Anversa. Gli sarebbe piaciuto poter stare a Siviglia assieme a lui, lo avrebbe aiutato a ritrovare quel libro e si sarebbe occupato delle proprie attività. Se Alonso fosse stato ancora vivo, era certo che lui e il napoletano sarebbero diventati ottimi amici. Malgrado l’avesse abbandonato, ne sentiva molto la mancanza, e i mesi che aveva trascorso a viaggiare col cantastorie del Nuovo Mondo erano stati i più felici della sua vita.
Thomas continuava a non entrare mai nel palazzo, ma ne conosceva perfettamente lo spazio esterno. Era ubicato in un luogo singolare, al di sopra di un alto muro che lo difendeva dalle piene del fiume. Calcolò che da un angolo all’altro il palazzo fosse lungo duecento piedi, e presentava due piani che si sviluppavano in altezza, con sale dai soffitti bassi e stalle molto alte. Da lì era possibile godere di una vista stupenda su un monastero di frati certosini, almeno stando a quanto gli aveva detto la cuoca.
Quella sera don Fernando apparve nell’orto annesso alla cucina.
«Thomas, come ti tratta doña Manuela?»
«A essere sincero, è piuttosto dura, ma i suoi piatti sono una vera delizia».
«Parole sante, ragazzo. Hai lavorato bene questa settimana. Ti ho osservato, sebbene tu non te ne sia reso conto, e so anche che hai letto senza tregua. Ti avrà sorpreso che ti abbia fatto lavorare così tanto, vero?»
«Sì».
«Dovevo metterti alla prova», affermò. «Cerca di capire. In fondo ti avevo appena conosciuto, e poco dopo il tuo capo è morto assassinato. Sei venuto a cercare un libro che è stato inspiegabilmente rubato, quindi capirai bene che è facile farsi una cattiva opinione di te, Thomas».
«Sì, lo capisco».
«Hai letto il libro di Marco Polo? Cosa ne pensi?»
«Che mi ha fatto venir voglia di seguire la Via della Seta e arrivare fino in Cina, signore».
«Proprio quello che pensò mio padre, ma viaggiando verso il lato opposto». L’uomo si fermò a riflettere. «Sono stato occupato a investigare su Jaime Moncín e la sua misteriosa opera. Nessuno ne conosce gli scritti, nessuno lo ricorda, sembra non essere mai esistito».
«Com’è possibile?»
«Me lo chiedo anch’io. In passato poteva anche essere una cosa normale, ma con l’invenzione della stampa non possiamo permettere che nessuno scrittore cada nel dimenticatoio. Questa è la battaglia più dura. La mia biblioteca è come un castello della memoria assediato dalle forze dell’oblio. Ma noi vinceremo, Thomas, vinceremo…», disse, stringendo i pugni. «Mi dispiace molto per lui…».
«Per Jaime Moncín?»
«Sì. Sai quanti testi antichi non sono mai giunti fino ai giorni nostri? Quanto sapere, esperienze, ragionamenti sono andati perduti?»
«Più di quanto possiamo immaginare, suppongo».
«Questo non dovrà accadere mai più. Noi veglieremo sui libri, non andranno più perduti, non ci sarà più nessuno scrittore che sarà dimenticato come è accaduto a Jaime Moncín», sentenziò don Fernando con la voce rotta dall’emozione.
«Riuscirci sarebbe davvero una grande impresa». Thomas non trovò parole migliori per esprimere ciò che sentiva. Il figlio di Colombo gli sembrava una figura epica, esattamente come il padre.
«Da quanto tempo lavoravi con Alonso Rodríguez?»
«Qualche mese», confessò.
«Non molto…», mormorò don Fernando. «I miei contatti hanno tentato di scoprire qualcosa di più su quel libro rubato, sullo scrittore, e hanno cercato qualunque altra informazione a essi collegata. Come ti ho già detto, però, per mia enorme sorpresa non hanno trovato nulla, esattamente come è accaduto a te e Alonso. Non è normale. Secondo me qualcuno si è scomodato a cancellarne ogni traccia, e questo rende la cosa ancora più interessante, tu non credi?»
«Immagino di sì».
«Un libro che parla d’amore… forse il sentimento più complicato da spiegare. Non tutti lo vediamo allo stesso modo. L’amore si confonde con il desiderio, con l’ossessione, l’affetto, il possesso, la paura della solitudine…», l’uomo parlava con un gradevole tono di voce. «Thomas, sei mai stato innamorato?».
Quella domanda fu come un pugno nello stomaco per il ragazzo, che deglutì e respirò a fatica.
«Sì, anche se non è finita bene».
«Ho la sensazione che in amore le cose non vadano mai come si desidera, non trovi? È come se desiderassimo sempre ciò che non possiamo avere e, nell’improbabile caso in cui riusciamo a ottenerlo, poi ne restiamo delusi, o semplicemente perdiamo tutto l’interesse».
«L’amore dev’essere qualcosa di impossibile, come diceva Platone».
«Forse sì», affermò don Fernando con aria rassegnata. «Bene, torniamo al discorso che più ci interessa. In base a quanto mi hai detto, nel libro c’erano stampe di grande qualità ed espressività. Quel testo mi intriga molto. La biblioteca è tutta la mia vita e non posso permettere che uno dei miei libri sparisca così».
«Certo che no». Thomas non sapeva cosa dire. «Anche Luis de Coloma era molto interessato».
«Sì, ma de Coloma è un collezionista, io no. Io sono un servo della Corona, dell’impero spagnolo. Quel libro deve saltare fuori, capisci? Quindi pensa bene a come risponderai alla mia domanda: credi di essere in grado di poterlo ritrovare?»
«Sì», rispose deciso, quasi senza riflettere. «Certamente!».
Nemmeno lui sapeva come avesse potuto rispondere con tanta determinazione, aveva agito d’istinto, in modo impulsivo, ma era convinto di poter seguire le orme del mercante di libri barcellonese, Alonso Rodríguez, onorandone la memoria.
«Bene, era quello che volevo sentire. Mio padre mi ha insegnato a fidarmi delle persone che si mostrano determinate. Potranno anche sbagliare, capita a tutti, ma come si suol dire, chi ben comincia è a metà dell’opera. Seneca, uno scrittore romano nato a Cordova, qui nei dintorni, scrisse che quando non si sa verso dove navigare, nessun vento sarà mai favorevole».
«Sagge parole».
«Per questo voglio che tu continui con la nostra ricerca, se davvero ti senti all’altezza di farlo».
«Assolutamente. Grazie, signore».
«Ti darò lo stesso compenso che avevo offerto a suo tempo ad Alonso. Se ti accadrà qualcosa, qualsiasi cosa, io negherò di conoscerti. Non voglio avere alcun tipo di problema», lo avvisò don Fernando. «Chiaro?»
«Sì, chiarissimo».
«Non puoi andartene in giro con quei vestiti e quella barba, non ispiri alcuna fiducia. Dirò a doña Manuela di farti avere l’aspetto di un uomo perbene», e rimase in silenzio per qualche istante. «Thomas, non deludermi».