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La fuga
Thomas chiese una mattinata libera al lavoro inventandosi dei dolori di stomaco e andò al molo per negoziare con i baschi. Alla prima imbarcazione alla quale si avvicinò non ricevette una buona accoglienza; il capitano era un marinaio mal visto che non voleva saperne di trasportare viaggiatori a bordo. Con il successivo ebbe un po’ più di fortuna e poté spiegargli le sue intenzioni, ma gli indicarono un prezzo talmente alto che fu costretto a desistere. Provò con altre due imbarcazioni, ottenendo lo stesso risultato. Allora, alquanto scoraggiato, se ne andò in una locanda e prese una zuppa calda, perché la nebbia che era scesa durante la notte non accennava a sparire e il freddo penetrava fin dentro le ossa. Gli si era chiuso lo stomaco e mangiò solo metà della sua zuppa, nonostante fosse molto gustosa.
«Non la finisci?», chiese l’uomo seduto accanto a lui, con un terribile accento francese.
Thomas si voltò e vide che si trattava di quel grosso basco che aveva conosciuto al porto poco dopo essere giunto ad Anversa, lo stesso che gli aveva parlato del commercio della lana in città.
«No, mangiatela voi, se volete».
«Oggi è il mio giorno fortunato», e quel marcantonio prese la scodella, bevve la zuppa come se fosse acqua e fece la scarpetta con un pezzo di pane.
Il basco indossava lo stesso cappello rosso che portava la prima volta che l’aveva conosciuto, aveva una lunga barba, folta e scura, e le mani più grandi che avesse mai visto.
«Siete di nuovo ad Anversa».
«Sei molto perspicace», mormorò mentre mangiava, «ripartiremo presto».
«E dove andate? Lo posso sapere?»
«A casa, su quella nave, la San Juan», e la indicò. Dalle finestre della locanda era possibile vedere una splendida nave, in perfette condizioni. «È spettacolare, vero? Non troverai imbarcazione migliore per solcare l’oceano Atlantico, ci ho viaggiato fino a raggiungere le acque oltre la Scozia», disse l’uomo, compiaciuto, «e torneremo indietro trasportando tessuti pregiati, un carico prezioso».
«Credevo ci fossero ancora delle rivolte a Castiglia».
«Sì, i comuneros, ma abbiamo saputo che il giorno di San Giovanni c’è stata un’aspra battaglia e i ribelli sono stati decapitati, quindi il commercio della lana tornerà presto a fiorire e noi vogliamo essere pronti».
«A quale porto della Spagna siete diretti?»
«A Bilbao, e non vedo l’ora di arrivare», rispose, con gli occhi che gli brillavano.
«Quando salperete?»
«Domani all’alba».
«Posso farvi una domanda?», chiese cautamente Thomas.
«Ci mancherebbe, dopo avermi dato da mangiare! Dimmi, ragazzo».
«Il vostro capitano accetterebbe a bordo dei passeggeri?». Voleva approfittare di quell’occasione. «Io e la mia sposa».
«Sì, credo di sì. Non sarà economico, il viaggio attraverso il canale è pericoloso, non si sa mai che venti soffieranno in questo periodo dell’anno e gli inglesi… non ci si può fidare di loro».
«Sono consapevole dei pericoli, ma ci preme raggiungere la Spagna».
«E perché? Avete affari lì?». Il marinaio basco rimase a guardarlo in silenzio, come se stesse aspettando una risposta convincente.
«Esatto, ho sentito che stanno giungendo nuove spezie dalle terre scoperte da Colombo», rispose Thomas con tono più deciso, per apparire più credibile. «Per questo voglio andarci, sono interessato al commercio di nuovi prodotti».
«Io non me ne intendo molto di spezie», il basco si accarezzò la barba, «ma se vuoi navigare con noi ti presenterò al capitano».
«Non sapete quanto ve ne sono grato».
«E basta con questi modi formali, il mio nome è Gorka, ma tutti mi chiamano il Gigante».
«Io sono Thomas e vi chiamerò Gorka».
La cosa sembrò fargli piacere e lo accompagnò fino alla San Juan. Il capitano gli fece domande molto più incisive, ma il tema delle spezie sembrò convincerlo. Thomas fece ricorso a tutto quello che aveva appreso da Massimiliano sul Nuovo Mondo e sulle isole delle Spezie per riuscire ad abbindolarli, proprio come faceva il napoletano durante i suoi spettacoli. Lo stesso Thomas era talmente preso da ciò che raccontava che perfino Gorka rimase affascinato dalle sue storie sulle meraviglie d’oltreoceano. I suoi risparmi, però, non erano sufficienti per pagare quel passaggio, ma pensava di sapere come recuperare la somma mancante.
Tornò al lavoro e rimase fino a tardi per recuperare le ore perse, ma anche per restare da solo e poter sottrarre una copia delle tesi di Lutero senza essere visto. Passò tutta la notte a introdurre le pagine nella fodera di un mantello che aveva comprato quel giorno stesso.
Si incontrò di nuovo con Massimiliano, al quale chiese un aiuto economico. Thomas fu molto insistente e, nonostante le reticenze dell’amico, alla fine riuscì a spuntarla.
«Va bene, ti aiuterò. Poi aspetterò di vedere cosa succede quando Clementine se ne sarà resa conto».
«Magari non accadrà».
«Sì che accadrà». Massimiliano sospirò, rassegnato. «Prendi, conserva anche questo», e gli diede una piccola borsa legata con vari lacci.
«Cos’è?»
«Un regalo, qualcosa di meglio del denaro, una cosa che rende amici e, molto più importante, che è in grado di aprire delle porte. Saprai farne buon uso, amico mio», e lo abbracciò. «Abbi cura di te, Thomas. Buona fortuna».
«Anche tu, Massimiliano».
In quel momento, al giovane tornò alla mente tutto quello che avevano vissuto assieme. Doveva la vita a quella canaglia e, nonostante fossero stati vari mesi senza parlarsi, sapeva che era un brav’uomo. Erano cambiati molto rispetto ai giorni in cui si spostavano di città in città, a bordo del loro carro. In quel periodo Thomas aveva imparato tanto ed entrambi sapevano cosa rappresentavano l’uno per l’altro.
Il giovane mise via la borsa e proseguì il suo cammino, raggiunse il mercato e fece scorta di tutto il cibo che riuscì a permettersi. Prima dell’alba era di fronte alla casa dei Thys con una lucerna in mano. Edith doveva essere puntuale, dovevano arrivare al porto in tempo; il capitano era stato molto chiaro, non li avrebbero aspettati.
La nebbia persisteva e Thomas lo considerò un cattivo presagio. Fu allora che vide una figura avvicinarsi, aveva un mantello con un cappuccio nero sopra la testa, come quando l’aveva vista dirigersi verso il convento. Lo raggiunse e scoprì il capo. Thomas non avrebbe mai dimenticato quello sguardo color smeraldo, il più bello che avesse mai visto. Non aveva alcun dubbio, amava quella donna e avrebbe cominciato una nuova vita con lei, lontano da lì.
Le si avvicinò per abbracciarla, ma Edith rimase ferma come una statua e dall’oscurità sbucò una figura maschile, quella di Carlos.
Thomas si meravigliò molto, che cosa ci faceva assieme a Edith?
Si preoccupò ancora di più quando, oltre a Carlos, apparvero il signor Thys e alcuni dei nuovi apprendisti.
Edith rimase immobile e abbassò lo sguardo, e solo allora Thomas capì cosa stava accadendo. Gli uomini di Thys lo afferrarono da dietro e lui non oppose alcuna resistenza.
«Toglietegli il mantello», ordinò il tipografo, «e datemelo subito».
Tirò fuori un pugnale e tagliò la stoffa del mantello, lasciando che le pagine del libro di Lutero si sparpagliassero a terra.
«Ragazzo, sono stato generoso con te e questo è il tuo modo di ripagarmi».
«Signor Thys, io amo vostra figlia».
«Zitto, svergognato!».
«È la verità e anche lei mi ama, chiedeteglielo! Non potete obbligarla a sposare un uomo che neppure conosce».
Edith restava in silenzio senza guardare Thomas, stringendo i denti, quasi sul punto di scoppiare a piangere.
«Sei un bastardo», disse Thys, «l’hai abbindolata promettendole l’impossibile e non solo. Carlos mi ha detto che di notte vi incontravate nella tua stanza, e per fortuna che non è rimasta incinta, altrimenti ti avrei sventrato con le mie mani!».
«Carlos, come hai potuto?»
«Io lavoro per il signor Thys e lui sa come ricompensare la mia lealtà», gli rispose, facendo spallucce. «E te l’avevo detto che avevo un piano».
«Tutto ha un prezzo, vero?», bisbigliò Thomas, ricordando le parole di Conrad.
«Non c’è persona migliore di Carlos per assicurare un futuro alla tipografia», affermò Thys. «Ci imparenteremo con quei nobili. Saranno anche distinti ed eleganti, ma sono degli inetti e dei fannulloni».
Thomas avrebbe dovuto immaginarlo, Carlos era sempre stato ambizioso e pragmatico, mirava alla tipografia e ogni mezzo era lecito pur di ottenerla.
«Non lascerò che la mia attività vada perduta», continuò il signor Thys. «Carlos si occuperà di tutto fino a quando non nascerà il mio primo nipote».
«Non potete costringere Edith a sposare un uomo che non ama!».
«Certo che posso, sono suo padre, vero, figliola?», e la guardò. «È vero che farai quello che ti dico io? Edith, non ti sento!».
Non c’era più traccia dell’affabile tipografo dal quale era stato accolto; si era trasformato in un uomo aggressivo e privo di alcuna pietà. Era sparita anche la donna coraggiosa che tanto amava, e che ora si mostrava timorosa e soggiogata.
«Sì, padre», rispose Edith a testa bassa.
Quelle parole spezzarono il cuore di Thomas che, abbattuto, non aveva più la forza per tenersi in piedi; per fortuna lo tenevano i due apprendisti.
«Edith…», disse, col cuore addolorato.
La giovane neppure lo guardava, aveva perso la sua forte personalità, era solo una figlia sottomessa, la stessa che aveva visto la prima volta, quella che camminava dietro la madre, silenziosa e a capo chino. Thomas si chiese quale fosse la vera Edith, quella che aveva di fronte o la ragazza di cui si era innamorato. A ogni modo, solo lui aveva visto la sua parte migliore. L’impossibile!
Dunque Platone aveva ragione, l’amore era davvero impossibile.
Quando la guardò un’ultima volta, gli occhi verdi di Edith erano più spenti che mai e le sue labbra sigillate, incapaci di pronunciare una sola parola.
«Bisogna saper occupare il posto che Dio ci ha dato», continuò il signor Thys, «non dobbiamo bramare ciò che non ci appartiene. Eri un buon apprendista, avevi un grande futuro, perché hai dovuto rovinare tutto, ragazzo?»
«Perché amo vostra figlia». Thomas guardò Edith e le si avvicinò, facendo un ultimo tentativo. «Edith, ti amo. Guardami, possiamo ancora avere un futuro insieme, se vuoi. Guardami, amore mio!».
«E questo…». Il signor Thys tirò fuori il libro di Abelardo ed Eloisa. «Come osi dare un libro del genere a mia figlia? Ragazzo, la vita non è sempre come quella che raccontano nei libri».
«La storia di Abelardo ed Eloisa è vera», affermò Thomas.
«Due amanti che decidono di fuggire assieme, ignorando gli ordini della famiglia e senza contrarre matrimonio, è una follia!».
«L’amore è follia».
«Guarda come sono finiti, separati, lei in un convento e lui castrato. Davvero è questo che vuoi? Che ti castriamo?», disse Thys, prendendo il pugnale attaccato alla cintura.
Thomas cominciò a tremare e fece per liberarsi, ma i due uomini lo tenevano ben stretto. Il respiro gli si fece affannato e il cuore iniziò a battergli sempre più forte, quasi come se stesse per scoppiare.
Edith avanzò di qualche passo e, per la prima volta, toccò il braccio del padre per placarne la furia.
«Padre, non fatelo, abbiate pietà di lui», gli disse, singhiozzando, «lasciatelo andare, proibitegli di tornare qui, ma non deturpatelo in questo modo, non è cristiano».
«Va’ via, figliola», disse il signor Thys, «togliti di mezzo, è meglio che tu non assista».
«No, questo è troppo! Promettetemi di non castrarlo».
«Basta con queste sciocchezze, ti ho detto di andare via. Hai già fatto abbastanza andando a letto con lui. Se qualcuno lo dovesse venire a sapere, chi vorrebbe più sposarti?»
«Non castratelo, padre! Giuro che sposerò chiunque voi vogliate, senza protestare né opporre alcuna resistenza».
Thys guardò sua figlia e annuì. Edith si voltò per dirigersi verso casa.
«E voi dategli una bella lezione, ma senza castrarlo», ordinò ai suoi uomini. «Che sia una lezione che non possa dimenticare, e mettetelo sulla nave con la quale voleva portarsi via mia figlia». Poi, rivolgendosi a lui, lo minacciò: «Se torni ad Anversa, non sarò così magnanimo. Ti ucciderò con le mie mani. A mai più, tedesco».