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Il segreto
Thomas si affrettò a tornare al palazzo di Colombo. I lettori se n’erano già andati e Marcos si era piazzato davanti alla porta con uno sguardo arcigno.
«Il buonannulla… Ma quante volte entri ed esci, per l’amor di Dio?»
«Da quanto tempo sei al servizio di don Fernando?»
«Che domande mi fai?»
«Non sono in vena di scherzi, Marcos. Rispondimi!», esclamò Thomas, snervato.
«Da sempre». Marcos sembrava sorpreso. «Cioè, da quanto è stato costruito questo edificio».
«E doña Manuela e il Custode?»
«Anche loro. Siamo venuti tutti e tre insieme a don Fernando».
«E Víctor?»
«Lui è arrivato dopo. Era di qui, di Siviglia».
Thomas si prese un istante per pensare.
«Ha sempre fatto il giardiniere? Non l’avete mai visto disegnare o scrivere?»
«Víctor? Si può sapere perché mi stai facendo tutte queste domande? Che cosa stai tramando?». Marcos gli mostrò di nuovo il suo lato più scontroso.
«Rispondi e basta. È importante».
«Per quello che vale, ricordo che disegnò le piantine della casa».
«Come le piantine?»
«Sì, Víctor disegna benissimo», rispose Marcos, innervosito dall’interrogatorio.
«Capisco. E sai se si dedica anche alla scrittura?»
«No, non credo», e si strinse nelle spalle. «Che succede, Thomas?». Era la prima volta che lo chiamava per nome.
«Non ne sono ancora sicuro. Tu diresti che Víctor è un uomo pericoloso?»
«Assolutamente no. Non esce mai da questo giardino».
«Esatto. Essendo di Siviglia, non è strano che non esca mai? Non ha famiglia, amici, conoscenti?»
«Ora che mi ci fai pensare… un po’ sì», concesse Marcos.
«Andiamo! Dobbiamo chiarire alcune cose con lui».
«Prima vado ad avvisare il Custode, così ci accompagnerà».
«Cosa aspetti, allora? Sbrigati».
Thomas se lo lasciò alle spalle e proseguì da solo fino ai primi alberi portati dal Nuovo Mondo. La rigogliosità di quel giardino non cessava mai di sorprenderlo. Quelle erano le stesse piante delle stampe; Víctor aveva disegnato il Nuovo Mondo da un giardino sulle sponde del Guadalquivir. Marcos e il custode della biblioteca lo raggiunsero un attimo dopo.
«Dove alloggia?»
«In un’alcova sopra i magazzini», spiegò Marcos, stranamente collaborativo. «Seguimi, ti faccio vedere».
«C’è qualcun altro a palazzo?»
«Solo doña Manuela. Don Fernando è andato a parlare con il vescovo», rispose mentre arrivavano a una scala di legno. «Thomas, vuoi dirci cosa sta succedendo? Non ha alcun senso».
«Thomas», e il Custode prese la parola. «Spero che ci sia una buona ragione».
«C’è eccome. Portatemi all’alcova di Víctor».
«Diamogli retta, Marcos, e togliamoci subito il pensiero».
Raggiunsero il lato opposto del giardino e Marcos si fermò davanti a una scaletta di legno.
«I pioli», e gli indicò un punto più in alto, «a partire dal quarto sono inagibili. Non so perché».
«Lo so io perché», intervenne Thomas. «Perché nessuno possa sorprenderlo mentre è là dentro. Non ci sono altri accessi?»
«Non che io sappia».
«Devono esserci per forza. Pensaci, Marcos», lo incitò il Custode. «Nessuno conosce questo palazzo meglio di te».
«Dalla cucina, il corridoio in fondo comunica con un cortile. Là, in una porzione di muro che è stato riportato alla luce mentre edificavano il palazzo, c’è una porta che non si usa mai. Fu lasciata su insistenza di don Fernando, e da lì si possono raggiungere alcune delle finestre al piano superiore del granaio», spiegò Marcos.
«Vecchio volpone».
«Detto da te, poi…».
«Andiamo, che ci stai tenendo sulle spine». Il Custode gli diede una spinta. «Già sto facendo anche troppo per aiutarti, quindi ti conviene avere ragione».
Seguirono il percorso indicato da Marcos e in effetti arrivarono ai resti di un muro di cinta. Lo scalarono senza problemi e si ritrovarono davanti a due finestroni. Thomas spiccò un salto, si aggrappò al davanzale e riuscì a entrare nel granaio. Era vuoto, così avanzò e raggiunse la scala di legno con i pioli mancanti. In cima c’era una porta. Doveva essere la stanza di Víctor.
Thomas alzò una mano e chiese ai suoi compagni di pazientare un attimo. Poi si portò l’indice alla bocca per segnalare a entrambi di fare silenzio e dire che sarebbe entrato per primo. Marcos e il custode della biblioteca annuirono.
Spinse con cautela la porta, ma non cedette.
Non potendo perdersi d’animo, fece qualche passo indietro, prese la rincorsa e la spalancò con una pedata tremenda, tanto che la porta andò a sbattere contro la parete e tornò verso di lui.
Si precipitò dentro.
«Jaime Moncín! Víctor! Lo sappiamo che sei tu!». Lo cercò ovunque con lo sguardo.
«Qua non c’è nessuno», disse Marcos, che era entrato dopo di lui.
Thomas si avvicinò alla finestra.
Affacciandosi, vide degli appigli di legno inseriti nella facciata del granaio. Fungevano da scala e proseguivano fino a un muretto vicino. Non erano molto sicuri, ma erano l’ideale per entrare e uscire senza essere visti dal palazzo.
«Siamo arrivati tardi», commentò il Custode. «Che succede con Víctor? Come lo hai chiamato?»
«Vi ha ingannati per tutto questo tempo. Il suo vero nome è Jaime Moncín».
«Lo scrittore che stavi cercando… e che cosa ci faceva qui?», domandò Marcos.
«Bella domanda». Thomas si voltò e osservò di nuovo la stanza. Non c’erano tavoli, solo un giaciglio di fronte a un armadio, con una gamba sostituita da un pezzo di legno dalla forma rettangolare. Il mercante di libri si guardò attorno e non trovò nient’altro. «Marcos, aiutami a spostare l’armadio». Prese posizione accanto al mobile.
«Che sciocchezza. Perché?»
«Dammi retta. Se poi mi sarò sbagliato, dopo avrai tutto il tempo per farmi una bella ramanzina. È un buon compromesso, no?»
«Una baggianata bella e buona, semmai, come c’era da aspettarsi da una testa bacata come la tua».
«Vieni o non ce la fai?»
«Ma sarà mai possibile…». Afferrò il mobile con entrambe le mani e spinse con forza.
Thomas cercò di imitarlo e per poco non fecero cadere il mobile. Per fortuna le gambe ressero e riuscirono a spostarlo verso destra, fino a liberare un buco abbastanza largo, dal quale poteva tranquillamente passare una persona.
«Solo un pazzo come lui poteva pensare che quell’uomo nascondesse qualcosa dietro questo armadio», osservò il Custode.