59
Nick
Salgo i gradini due alla volta, pestando con forza i piedi mentre urlo il nome di Ellie. Arrivato in cima, mi rendo conto che non sono mai stato quassù. Mi sento disorientato. In tutti gli anni che Emma ha vissuto qui, non ci ha mai invitati al piano di sopra. Non che fosse costretta, ma mi pare comunque strano.
Non ne ha mai avuto motivo. Siamo stati qui appena una manciata di volte e sempre per bere un bicchiere o mangiare qualcosa insieme. Considerando che c’è un bagno anche al pianterreno, che senso aveva venire quassù?
Mi guardo intorno, in cerca di una botola per la soffitta. Non ce ne sono. Lungo il corridoio conto tre porte, tutte chiuse. Mi fermo ad ascoltare davanti a ciascuna stanza. Neanche riesco a rammentare bene il filmato. Era davvero una soffitta? Possibile che si trattasse di uno sgabuzzino, una camera per gli ospiti? No, era senz’altro una soffitta. Poi mi accorgo di un’altra rampa di scale. Posso solo ipotizzare che mi condurranno alla meta.
Salgo anche queste di corsa. In cima c’è solo una porta di legno marrone, solida e austera. Null’altro. Incombe davanti a me, l’ultima barriera che mi impedisce di riavere finalmente mia figlia. La chiamo a gran voce e sento la sua risposta: «Papà». In un istante, il cuore mi esplode e va in frantumi. L’adrenalina mi scorre a fiumi nelle vene, faccio fatica a respirare. La concentrazione è assoluta, non vedo altro. Solo la porta che ho di fronte e l’immagine di Ellie in piedi oltre la soglia, terrorizzata. Do uno strattone alla maniglia, prendo la porta a spallate, ma è inutile.
«Tesoro, allontanati dalla porta», urlo. «Sto arrivando». Cerco di parlare in tono forte e sicuro, ma è come se fossi attraversato da scariche di corrente elettrica, e mi rendo conto che ho la voce di uno scolaretto.
Tra qualche secondo mi riprenderò mia figlia. E metterò fine a tutta questa storia. Mi sembra di avere le gambe di gelatina, ma so che devo assolutamente trovare la forza e la volontà per superare questa porta. Poi non mi resterà altro da fare.
Quando indietreggio per partire alla carica, Emma mi stringe un braccio intorno al collo. Per un istante, sembra che mi stia sfondando la trachea, e reagisco d’istinto. Succede tutto in una frazione di secondo. Senza neppure pensare, afferro il braccio e tiro verso il basso, e mi sento invadere dall’adrenalina quando lo piego e giro di lato, e l’osso si rompe col rumore del fucile per il tiro a segno in una fiera di paese.
Lei ulula per il dolore quando libero il braccio e, sempre seguendo l’istinto, porto su una gamba e scalcio all’indietro, sentendo lo scarpone che impatta contro il suo stomaco e poi più nulla, solo aria e silenzio, seguiti infine dall’orribile tonfo della sua testa che sbatte contro una parete alla base delle scale. Sembra siano passati minuti, ma non possono essere stati più di uno o due secondi al massimo.
Torna il silenzio.
Capisco subito che questa volta non si riprenderà dal colpo alla testa. Non ho bisogno di girarmi a controllare per esserne sicuro – è bastato sentire quel suono – eppure lo faccio lo stesso. Ha gli occhi puntati davanti a sé, vuoti e vitrei, con rivoli di sangue che colano dalle narici. Sul volto è stampata un’espressione di dolore. Non si tratta di un dolore fisico, è angoscia pura. La sua anima sembra vuota.
Non mi fermo neppure a chiedermi come potrò spiegare tutto questo, o cosa comporta per il mio futuro. Non mi interessa. Ho una sola cosa in mente adesso. Una sola cosa conta, conta più di qualsiasi altra al mondo. Mi scaglio contro la porta con tutto quello che ho. Una volta, due. La spalla urla per il dolore, uno strazio che mi percorre il braccio e tutta la schiena. Lo ignoro. Non esiste sofferenza maggiore di quella che provo al pensiero di essere arrivato così vicino a riavere la mia Ellie senza riuscirci. Finalmente, al terzo assalto, la porta cede.
C’è bisogno che passi un secondo perché tutto torni normale. Perché il boato del legno scheggiato smetta di riecheggiare nella soffitta. Perché la nube di polvere possa diradarsi. Perché la mia vista si abitui alla luce fioca.
La stanza è praticamente buia, se non per il bagliore giallastro di una lampadina che penzola da una delle travi. In un angolo, vedo due occhi spaventati e stanchi che mi guardano da dietro una scatola di cartone. È così confusa. Immobile, confusa e spossata, tutto insieme. Mi si scioglie il cuore.
«Va tutto bene, tesoro», le dico, sforzandomi di sembrare quanto più calmo e rassicurante possibile. Sono tutt’altro che sereno, in realtà, ma voglio che Ellie smetta di preoccuparsi, di avere paura. Con ogni probabilità, l’ha già fatto fin troppo a lungo in questa settimana. E il pensiero mi spezza il cuore. «Sono io. Papà». Mi trema la voce. Deglutisco, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Quando mi avvio verso la scatola, Ellie striscia fuori, si alza lentamente in piedi e poi viene da me e mi cinge le gambe con le braccia. Restiamo così per un minuto intero, incapaci di staccarci, prima che io mi chini a prenderla in braccio.
La guardo negli occhi e vedo che la paura e la stanchezza hanno già cominciato a dissiparsi. Sostituite piano piano dalla felicità e da quella contentezza infantile che gli adulti non sono più in grado di provare. Sembra davvero esausta. Ma ha capito che sono io. E sa di essere al sicuro.
Io mi sento travolgere da una sensazione di serena familiarità. Il peso della mia stanca bambina, il tepore della pelle vellutata, il suo odore così peculiare. Tutte le cose di cui ho sentito la mancanza, le cose che ho sognato. Le cose che temevo di non riavere mai più.
In questo momento, tutto sembra di nuovo giusto. Malgrado Emma che giace, morta, ai piedi delle scale, malgrado il mio matrimonio che cade a pezzi e la polizia che cerca disperatamente di incastrarmi per qualsiasi cosa, nulla di tutto ciò ha importanza. Sono disposto a pagare anche di più, per il semplice fatto che Ellie è di nuovo insieme a me. Solo questo conta. Sempre e solo questo.
Quando ci avviamo verso la porta e giù per le scale, verso il cadavere di Emma, stringo forte la mia bambina, facendole affondare il viso contro una mia spalla. Non voglio che veda questa scena. Ne ha già sopportate abbastanza, non c’è bisogno che sappia come è andata a finire. Deve solo capire che è al sicuro e che non dovrà mai più preoccuparsi di nulla. Penserò a tutto io.
Quando usciamo dalla casa, l’aria fredda della notte mi frusta la pelle e mi sento cadere addosso le prime gocce di pioggia. Mentre in qualsiasi altro momento mi darebbe un fastidio infernale, non mi dispiace neanche un po’. Per la prima volta da tanto, tanto tempo, i miei sensi si sono risvegliati.