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Nick
È stato il pullover a farmi capire tutto. Il vecchio pullover dell’università che all’epoca indossavano quasi tutti. Ricordo il primo giorno in cui parlai con Emma e notai che lo stemma sul suo era un po’ diverso.
L’università aveva questo emblema assurdo, che trovavi stampato dappertutto: un pellicano con una penna in bocca. Era una specie di misterioso riferimento a uno scrittore mezzo famoso che aveva frequentato l’università anni addietro. Solo che Emma aveva modificato il suo stemma scucendo il ricamo e sostituendo la penna con uno spinello. Una mossa assai audace, per quanto sottile, considerata la sua tranquillità, la sua riservatezza. Una sorta di protesta silenziosa. Non se ne accorgeva quasi nessuno, e in caso contrario probabilmente sarebbe finita nei guai, ma fu uno dei primi motivi per i quali mi sentii attratto da lei.
Ripenso a quel giorno nella sua stanza al dormitorio, quando le dissi che volevo mettere fine alla nostra relazione. Ora tutto torna. Quel giorno, Emma reagì con una serenità tale che poteva significare una cosa e una soltanto. Dicono sempre che bisogna stare attenti a chi è troppo calmo. A chi si tiene tutto dentro, pianifica in anticipo e agisce nell’ombra, mentre gli altri si preoccupano solo delle teste calde che danno in escandescenze.
Avevo ragione, all’epoca, quando temevo che Emma potesse reagire in malo modo. Me ne accorsi subito che era devastata, ma lei non ne volle parlare. Credo volessi convincermi che si stava semplicemente facendo forza, il classico buon viso a cattivo gioco. Ma adesso capisco come andò, in realtà.
E capisco anche perché Emma è tornata a essere presente nelle nostre vite, comportandosi da amica affettuosa e preoccupata. Aveva bisogno di seguire gli sviluppi dall’interno. Doveva appurare che non parlassi con nessuno delle email di Jen Hood. Voleva sapere cosa faceva la polizia, quando e in che modo. Come il colpevole che torna sulla scena del crimine per ammirarne le conseguenze. Ora che ho capito, mi sento fisicamente nauseato.
Lo sapeva che le ho chiesto di invitare Tasha a casa sua perché avevo organizzato di conseguenza l’aggressione? No. Non poteva. È impossibile. Ma poi mi balza il cuore in gola quando ricordo un altro dettaglio: Emma ha detto che Cristina e Leanne non erano riuscite a partecipare alla serata, quindi sarebbero state loro due e basta. Solo Emma e Tasha. Come mai? Aveva intenzione di cogliere l’occasione per ucciderla lei stessa? In tal caso, perché non l’ha fatto settimane, mesi, anni fa? Se voleva vederla morta, perché non l’ha uccisa? Probabilmente sapeva che non l’avrebbe fatta franca. Non ha trovato il coraggio. Forse negli ultimi giorni anche lei ha temuto che potessero scoprirla e ha deciso che non aveva più scelta. Mi sembra che continui a non essere tutto chiaro, ma al momento il mio cervello è ridotto a un immenso pantano.
È strano. Alcune cose mi paiono sempre meno comprensibili, ma molte altre sono sempre più chiare. Non capisco come ho fatto a non arrivarci prima. Forse ero come accecato. O magari non ci volevo pensare. Emma ha puntato al lungo termine e ha giocato bene le sue carte. Ha aspettato per tutti questi anni, guardando me e Tasha che ci mettevamo insieme malgrado le avessi detto che non c’era niente tra di noi, guardandoci mentre ci sposavamo e cercavamo invano di avere figli. Cosa le passava per la mente, in quei frangenti? Godeva nell’assistere alle nostre difficoltà? E come si è sentita quando finalmente siamo riusciti ad avere un figlio ed è nata Ellie?
Mi concentro, cerco di capire a che punto avrei potuto accorgermi che qualcosa non tornava. Emma era sembrata sinceramente felice quando io e Tasha alla fine le abbiamo confessato che stavamo insieme. La cosa assurda è che all’epoca non mi era sembrato affatto strano. Ero troppo innamorato, troppo preso per accorgermene. Forse mi limitai a pensare che le fosse passata. E non potevo essere più lontano dalla verità.
Il giorno in cui è nata Ellie, Emma è stata tra le prime persone a farle visita. Ricordo come se ne è rimasta lì a fissarla, con uno sguardo che a me era parso di meraviglia e stupore. Ora so cosa significava in realtà. Quello è stato il giorno in cui la sua vita è cambiata per davvero, quando ha capito che non c’era più modo di tornare indietro. E ha deciso che avrebbe dovuto fare qualcosa di drastico.
Ma perché adesso? Perché aspettare che Ellie avesse cinque anni? C’è un motivo, un significato speciale? Probabilmente no. Magari è solo perché a quel punto, considerando tutto quello che aveva accumulato dentro, è esplosa. È successo tutto in una mattinata? Passava di qui per caso o era venuta a trovarci per un qualche motivo e ha deciso di punto in bianco di cogliere l’occasione? Per certi versi spero di sì, perché l’alternativa è che ci abbia osservati e seguiti, giorno dopo giorno. Ma in tutto ciò trovo anche una forma di consolazione, perché se è vero allora io proprio non ho colpe. L’avrebbe fatto comunque, prima o poi, non appena le si fosse presentato il momento giusto.
In ogni caso, sono solo ipotesi. Ora come ora, la priorità è riavere la mia bambina.
Tremo tutto mentre mi metto le scarpe ed esco di casa. Decido di andarci a piedi. Non so bene perché, forse credo che sarà più semplice seminare chiunque mi stia pedinando. Non che la cosa abbia importanza, visto che sto per porre fine a questa storia una volta per tutte. Inoltre, voglio evitare di aggiungere un’accusa per guida in stato di ebbrezza all’elenco dei miei reati. Quando sono a Jubilee Park la mia andatura sostenuta diventa una corsa vera e propria.
Alla fine, arrivo a casa di Emma. Prima di risalire il viale mi fermo un istante per ricompormi e riprendere fiato. Se Ellie è qui, probabilmente è al sicuro. Ma se Emma si spaventa o viene colta alla sprovvista, la situazione potrebbe precipitare. Sono dolorosamente consapevole di come il coltello dalla parte del manico ce l’abbia lei.
Suono il campanello. Pochi istanti dopo sento rumore di passi, poi Emma apre la porta. Mi esibisco nel mio miglior sorriso e la saluto.