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Nick

Mi sembra che la macchina sbandi in curva molto più del solito, ma so che non è un problema meccanico: è il risultato delle sostanze che nuotano nella chimica del mio cervello. Ho raggiunto l’età per la patente da poco più di un anno, ma provo comunque un grande senso di sicurezza nel seguire con relativa facilità queste tortuose strade di campagna.

Stringo più forte il volante, le nocche diventano bianche. Sento il sangue che mi pulsa nelle tempie; un ritmo stranamente irregolare. Continuo a ripetermi nella mente la sua frase. È stato allora che tutto ha cominciato a degenerare. Era una frase ironica, quasi una presa in giro. E non credo che stesse scherzando. Da quel momento, ogni altra parola ha dato un giro di vite, conficcandosi dentro di me fino a diventare insopportabile. Non ci sono state discussioni, solo la crescente consapevolezza e l’accettazione di ciò che avrei fatto stanotte. Prima però doveva dissiparsi la foschia rossa della rabbia. Non era più possibile tornare indietro. Quando oltrepasso un confine, lo faccio per davvero.

Dallo stomaco comincia a risalire una leggera sensazione di nausea, ma riesco a resistere. So che è generata da diversi fattori, adrenalina, alcol, droghe e un immenso coacervo di emozioni. So che l’eccitazione è perversa, ma questo non mi impedisce di sentirmi bene. È la sensazione di quando sai che stai per ottenere giustizia.

Nell’ultimo paio d’anni ho scritto un sacco di poesie e qualche racconto. In una di queste storie, un uomo viene rapito mentre è a letto, portato nei boschi e legato a un albero, dove viene lasciato a riflettere e a pentirsi dei suoi peccati. L’idea mi è venuta un paio di mesi fa, alle prime ore del mattino. Non riuscivo a dormire, non riuscivo a rilassarmi. Così sono andato a fare una passeggiata. Conosco i boschi come il palmo della mia mano, e quella notte erano stranamente pacifici. Non ho avvertito alcuna minaccia, non ho provato nessun sentimento di inquietudine, al contrario di quello che mi aspettavo. Mi sentivo invece a mio agio, lucido.

Quando scrivo entro davvero nella mente dei personaggi. Divento come loro. Sento il loro dolore, la rabbia, il trionfo. Mi piace. Implica che per poche, brevi ore, non sono più me stesso. Quando lei, stasera, ha fatto quel commento, sono stato catapultato di nuovo nella mente del rapitore di quel racconto. Un uomo che attende in silenzio il momento giusto, va con calma per la sua strada, fa quello che deve. Ma, dentro di lui, c’è un vero e proprio incendio. Pensa a tutte le cose che la sua vittima gli ha detto o fatto nel corso degli anni. E sa che otterrà giustizia.

Un rapido sguardo allo specchietto retrovisore, appena un secondo. Ha la testa ciondoloni, le rimbalza il mento contro le spalle ogni volta che il peso del corpo tende la cintura di sicurezza. Ridacchio quando mi rendo conto che mi sono addirittura preso la briga di metterla seduta e agganciarle la cintura. Almeno non può dire che non mi sono preso cura di lei.

Quando lascio la strada principale e mi immetto nella radura tra gli alberi, spengo i fari lasciando accese solo le luci di posizione, per non attirare attenzioni inopportune. Rallento – sono costretto a farlo, per la scarsa illuminazione – e avanzo ancora fino a trovare il posto perfetto.

Spengo il motore, ma lascio accese le luci di posizione. Ho bisogno di poter vedere quello che faccio. Il lieve bagliore illumina l’albero come un faro marittimo.

Scendo dalla macchina e vado verso il sedile posteriore, apro la portiera e sgancio la cintura di sicurezza. Faccio fatica a infilare le braccia sotto le sue e a issarla fuori, ma alla fine ci riesco. È un peso morto. Le scarpe producono due tonfi pesanti quando i piedi scivolano giù dal sedile e battono contro il metallo della macchina man mano che continuo a trascinarla, poi si sentono due rumori più sommessi quando finiscono nel fango.

Sorrido tra me e me, diventando sempre più simile al personaggio del mio racconto. Rivivo ogni sua sensazione: la rabbia, la percezione dell’ingiustizia, il piacere sempre più acuto per la vendetta imminente. E questo mi dà le energie ulteriori di cui ho bisogno per fare ciò che devo. La trasporto per qualche metro ancora, poi la appoggio a terra prima di tornare alla macchina per prendere la fune.

Ci impiego un’eternità per adagiarla contro l’albero e liberarmi le mani così da potermi concentrare sulla corda. Per quanto lei sia minuta, sembra cinque volte più pesante del solito. Alla fine, riesco ad appoggiarla con la schiena a ridosso del tronco e le blocco le ginocchia, così smette di cadere in avanti e posso legarle le mani dietro l’albero e poi annodare i piedi al tronco. A quel punto, so che non potrà più andare da nessuna parte. Mi sporgo verso di lei e le do un bacio sulla fronte. Non so perché, ma mi sembra giusto.

Senza quasi rendermene conto, torno in macchina e riavvio il motore. Prende vita con un rumore meraviglioso, sembrano le fusa di un gatto, un suono che mi accoglie come fosse un vecchio amico. Le luci dei fari tremolano quando parte il motore e io lancio un’occhiata ad Angela, con la testa appoggiata al petto. La prima cosa che mi viene in mente è che domattina le farà male il collo. Magari passerò a portarle qualche antidolorifico. Magari no.