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Nick

Mi sveglio di soprassalto quando Ellie ridacchia guardando la TV.

Per un momento sono come stordito, mi sono chiaramente svegliato nel momento sbagliato rispetto al ciclo del mio sonno. Batto le palpebre e guardo l’orologio appeso alla parete. Merda.

In questo momento posso decisamente fare a meno dell’ennesima tirata di orecchie da parte di Tasha o della scuola, pronte entrambe a ricordarmi che ho la responsabilità di far arrivare Ellie in classe in orario. Questo lo so già, ma non basta. È che proprio non me la cavo con le responsabilità. È così da sempre.

Cerco di far indossare la divisa a Ellie in tutta fretta. Lei la detesta, e neanche io la adoro. Il pessimo tessuto grigio sembra più adatto a un gulag russo che a una scuola pubblica. E, avendo visto l’interno della Hillgrove, direi che non ci sono poi grandi differenze. Ricordo che i miei giorni alle elementari erano pieni di colore e risate. Ogni volta che entro nella scuola di Ellie, mi sento depresso.

Lei si dimena quando provo a infilarle il maglione da sopra la testa, come fa ogni singolo giorno della settimana. Dobbiamo sempre seguire questa stupida routine, il che la rende dieci volte più dura per me.

«No, ho troppo caldo», strilla lei.

«Be’, se la smetti di agitarti ne avrai di meno, non ti pare? Ora prepara le tue cose e mettiti il maglione».

Sembra davvero il giorno della marmotta, questa scena noiosa e spossante che mi ricorda che è solo lunedì, e ci sono altri quattro giorni consecutivi da cominciare così.

Mi aggiro per la stanza a caccia delle varie cosine di cui ha bisogno per la scuola: tuta e scarpette per l’educazione fisica, l’elenco delle letture, le figurine. Sono abbastanza sicuro che ai miei tempi ci limitassimo a giocare nella sabbia.

Sono quasi sepolto sotto la cassettiera, nel tentativo di pescare la calza sportiva mancante, quando sento il campanello. Lo ignoro. Chiunque sia, può aspettare. Di sicuro saranno i testimoni di Geova o qualcuno che prova a vendermi finestre a doppi vetri.

Cinque minuti dopo, lo zaino pronto, infilo le scarpe ai piedi di Ellie, ondeggiandole e spingendole per facilitare l’operazione. La prendo in braccio e la porto giù per le scale per risparmiare secondi preziosi. È arrivata la posta, ed è sul tappetino d’ingresso. Ci sono solo due fatture con la scritta in rosso “Ultimo avviso” questa volta, un miglioramento rispetto a sabato. Le metto sul tavolino nel corridoio e mi appunto mentalmente di prenderle più tardi e pagarle.

Accompagno Ellie fuori dalla porta e lungo il viale d’accesso. C’è una lieve foschia nell’aria, ma nulla che non si possa diradare nel volgere di un’ora circa. Dovrebbe essere una bella giornata. Magari riuscirò persino a mettermi in giardino col portatile e lavorare un po’ lì fuori. Tranquillità, silenzio e la luce del sole. Non si può chiedere di meglio.

L’automobile mi avvisa con un bip che le serrature sono disattivate e così apro lo sportello posteriore, metto Ellie nel sedile per bambini e le aggancio la cintura di sicurezza. Questi sedili sono davvero assurdi. Magari la tengono anche al sicuro, ma la piccola sembra più un’astronauta che sta per viaggiare nello spazio che una bimba di cinque anni pronta a un viaggio in macchina fino a scuola, a venti all’ora. Lo zaino si è afflosciato accanto a lei, e siamo pronti a partire. Proprio quando sto per mettere in moto, Ellie ricomincia a strillare.

«Il mio disegno!».

Sospiro. Non mi merito tutto questo, proprio no. «Quale disegno, tesoro?», le chiedo, sforzandomi di sembrare quanto più possibile calmo e sotto controllo. Non voglio che si accorga della mia frustrazione. Di solito questo serve solo a farla agitare ancora di più, e a quel punto la situazione finisce sempre per degenerare.

«Ho fatto un ritratto alla signorina Williams», mi risponde, guardandomi con quel suo torvo cipiglio, sicura che l’avrà vinta.

«Non puoi portarlo un altro giorno?», le chiedo, accostando la chiave all’accensione mentre mi rendo conto che stiamo perdendo secondi preziosi e che di sicuro la signorina Williams preferirebbe avere Ellie in classe in orario e non un suo disegno a pastello.

«No! Mi serve!», dice mia figlia, palesemente agitata. Chiudo gli occhi, e per un istante sento che mi bruciano. Decido di minimizzare le perdite.

«Va bene. Tu resta qui. Vado io a prenderlo», le propongo, poi tolgo la chiave dal quadro e me la metto in tasca. «Dov’è?»

«In cucina. Vicino al tostapane». Ha radicalmente cambiato espressione ora che sa di aver vinto. Sa con precisione quali pulsanti premere. Non ho dubbi che diventerà uguale alla madre, decisa a fare sempre tutto a modo suo, costi quel che costi.

Attraverso di corsa il viale fino alla porta. Apro e vado in cucina. Vicino al tostapane, appoggiato al tagliere di legno, c’è un foglio di carta A4 con il disegno di quello che somiglia vagamente a un essere umano. Non saprei. Potrebbe anche essere un dinosauro, o una capra. Io so solo che il mio dovere di padre responsabile è dire: «Oh, ma che bello!», ogni volta che me ne mostra uno. Tasha riesce sempre a sembrare sinceramente impressionata, lo fa molto meglio di me. Scuoto il capo, prendo il disegno e torno fuori.

Risalgo in macchina e infilo di nuovo la chiave nell’accensione, mentre con il foglio tenuto sopra la spalla sinistra chiedo a Ellie: «Era questo?».

Non ottengo risposta.

Mi volto indietro.

L’auto è vuota.