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Nick
La combinazione di pane bruciacchiato e caffè vecchio non è mai stata la mia preferita, ma mi ci sto abituando. Funziona così, dopo un po’.
Ormai neanche mi prendo più la briga di grattar via la parte nera dalle fette di toast, ma il caffè finisce ancora nel microonde. Il caffè freddo è una cosa, ma questa bevanda tiepida sembra più che altro piscio di cane. Già tirare avanti a caffeina è un problema, almeno che abbia un buon sapore.
Il forno suona tre volte per avvisarmi che è pronto, il tono acuto mi trapassa il cranio mentre mastico un boccone di pane, facendo cadere sul pavimento grosse briciole annerite.
Il pensiero che continua a imperversare nella mia mente è che questo libro maledetto non vedrà mai la fine. La settimana prossima sarà un anno da quando ho cominciato a scriverlo e ho già bucato la terza consegna. Pete mi ha detto che sarà l’ultima proroga. E lo so che fa sul serio, questa volta. Sto davvero cominciando a chiedermi se non sarebbe meglio cancellare tutto e ripartire con un’altra idea. Qualsiasi cosa, pur di non restare con un nulla di fatto.
Tasha trascina una scalciante Ellie in cucina, e io già provo nostalgia per il suono del microonde.
«Adesso farai la brava per papà, vero? È molto stressato, da qualche giorno, e ha bisogno che lo lasci tranquillo».
Tasha non è mai riuscita ad accettare che a volte le cose che fa mi infastidiscono. Per lei è sempre colpa mia, perché sono “stressato”.
«Ha cinque anni», le dico, masticando un altro boccone, mentre mi siedo a tavola. «Non le può capire certe cose. Se devi lanciarmi una frecciatina, fallo e basta».
«Ehi, come vuoi. Scatenati, tesoro», risponde lei, e scompiglia i capelli della piccola mentre mi sorride. Ellie comunque non è felice. Non posso biasimarla. Io sono ormai adulto e comunque non mi piace essere sveglio a quest’ora. Non appena i lamenti della bimba salgono di volume, Tasha prende la bambola Rosie da sopra l’orologio della cucina e gliela piazza tra le mani. Ellie smette di piangere all’istante.
«Vorrei che smettessi di dargliela, Tash. Non è un giocattolo».
«Certo che lo è, Nick. È una bambola di pezza».
Tasha proprio non lo vuole capire. Ellie adora la bambola Rosie, ma a me non piace che lei gliela conceda ogni volta che fa i capricci. La teniamo sopra l’orologio della cucina e per i miei gusti è fin troppo simile a una versione deforme dello spaventapasseri di un film horror, con le pagliuzze incollate che sporgono dai pantaloni e dalle maniche, e un cappello di paglia di sghimbescio sulla testa. Anche mia madre la teneva in cucina. Gliela comprammo poco dopo la morte di mio padre. Uno di quegli stupidi regali “appena l’ho vista ho pensato a te”, cose del genere, eppure per lei era preziosissima. Ogni volta che Ellie andava a trovarla voleva giocarci, malgrado la tenerissima età. Ne era affascinata. E dovevamo fare in modo che la maneggiasse con cautela, perché non era vissuta come un giocattolo, nonostante quel che dice Tasha.
Non ho granché per ricordare mia madre, ma la bambola Rosie (lo sa Dio perché la chiamasse così) è un piccolo simbolo che se ne sta seduto fuori portata e veglia su tutti noi. Mia madre è morta poco prima del secondo compleanno di Ellie, per lo stesso tipo di cancro che si era portato via il marito otto anni prima. E quindi vedere Tasha che somministra distrattamente la bambola Rosie a Ellie come una sorta di biberon o coperta di Linus mi dà davvero fastidio.
«Credo solo che dovremmo farci attenzione», ribadisco. «Tutto qua».
Tasha viene da me e mi dà un bacio sulla testa. «Non succede niente. Ellie è una brava bambina. E in ogni caso ha funzionato, no? Ora, manda giù quel caffè e smettila di fare la femminuccia lagnosa».
«Cos’altro ti aspettavi, Tash? Sono le cinque del mattino. Proprio non capisco perché ci imponi questi folli orari solo perché tu devi andare a una maledetta conferenza».
«Fidati di me, Nick, meglio così piuttosto che costringere me a passare tutta la giornata a chiedermi se ti sei almeno alzato dal letto ricordandoti di portare Ellie a scuola», mi risponde lei, mentre riempie la ciotola di Ellie con cereali ricoperti di zucchero. Grandioso. Proprio quello di cui ha bisogno una bimba di cinque anni emotivamente instabile a quest’ora del mattino.
«Più o meno verso che ora tornerai?»
«Tardi. Se la conferenza finisce in orario, dovrei venir via alle sei ed essere a casa per le dieci, con un po’ di fortuna. Sempre se i treni non si riempiono di impiegati pendolari».
Per un istante, aggrotto la fronte. Proprio non si rende conto di essere una di loro. Il suo lavoro è molto più importante di qualsiasi cosa facciano gli altri per vivere, e sarà sempre così.
«Bene. Ora scappo», aggiunge Tasha, per poi prendere la borsa dallo schienale della sedia e schioccare un bacio sulla guancia di Ellie. «Passa una buona giornata, a scuola. Datti da fare e comportati bene. E tu, divertiti», aggiunge, mentre mi saluta con un infantile cenno della mano, piegando e raddrizzando le dita tutte insieme.
Qualche secondo e non c’è più, restiamo solo io ed Ellie. Come sempre.