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Nick
La scarsa produttività delle mie giornate di lavoro mi risulta evidente quando vedo quanto riescono a concludere queste persone in appena un paio d’ore. Gli agenti hanno guardato in tutta la casa, hanno esaminato le telecamere a circuito chiuso della zona e bussato alle altre case del quartiere. Hanno portato via la macchina con un carro attrezzi – a quanto pare, la vettura è la scena di un crimine – e adesso nel nostro soggiorno c’è una detective, convocata per arrivare fino in fondo a questa faccenda prima ancora che io ne accetti per davvero la realtà.
Si è presentata come Jane McKenna. Immagino che i suoi colleghi di sesso maschile la vedano un po’ come una scassapalle. È assurdo pensare a cose del genere, con tutto quello che sta succedendo, ma il mio istinto di scrittore vuole conoscere il carattere di una persona nell’istante stesso in cui la incontro.
«Ellie ha fratelli o sorelle?», chiede, l’ennesima di una lunga serie di domande. L’agente investigativo Brennan è seduto in poltrona, un tizio abbastanza banale che non ha detto quasi nulla.
«No», rispondo. «È figlia unica». Già solo pronunciare queste parole mi fa rivivere ricordi atroci e sentimenti di gioia. Il dolore di quando appurammo che non potevamo avere figli e la felicità di quando scoprimmo che Tasha era incinta. «In realtà neanche ci aspettavamo di avere Ellie», aggiungo.
La McKenna è incuriosita.
«Ci avevano detto che non saremmo riusciti ad avere figli. Prima che nascesse Ellie, intendo. Tasha aveva una forma grave di endometriosi. I dottori sostenevano che le aveva danneggiato le ovaie. Ci spiegarono che, di conseguenza, non potevamo avere figli. Abbiamo provato la fecondazione in vitro tramite la sanità pubblica, ma non ha funzionato. Per farlo in una clinica privata ci volevano decine di migliaia di sterline, e non avevamo a disposizione quelle cifre. Quindi venimmo praticamente a patti col fatto che certe cose non sarebbero cambiate. Poi, dopo, scoprimmo che Tasha era incinta».
«Deve essere stato davvero sorprendente», commenta la McKenna.
«Può dirlo forte. E lo fu ancor più per i dottori. In realtà, la notizia arrivò sui giornali», racconto, mentre vado verso il mobiletto e rovisto nel cassetto centrale, dal quale tiro fuori un piccolo raccoglitore ad anelli. «La chiamarono “la bimba del miracolo”».
Passo il raccoglitore alla McKenna che sfoglia le pagine plastificate, scrutando i ritagli di giornale. Brennan le si affianca per dare un’occhiata.
«Una sfida alle leggi della natura», recita la detective, leggendo uno dei titoli.
«Già. Un evento davvero straordinario. Devo confessare che non eravamo poi così contenti di tutta quella pubblicità, ma sapete come funzionano certe cose».
Vedo che gli occhi della McKenna hanno smesso di muoversi, ma la detective sta ancora fissando i ritagli di giornale.
«Lei è uno scrittore, non è così?», mi chiede. «Horror metropolitano, giusto?»
«Esatto, proprio così», rispondo, sentendomi per chissà quale motivo un po’ in imbarazzo.
«Ho visto i suoi libri. Black Tide. Era uno dei suoi, giusto? Devono essere passati un paio d’anni, ormai».
«Poco più di cinque».
«A breve distanza dall’uscita di questo articolo, giusto?», chiede lei, spostando finalmente lo sguardo su di me. «Una tempistica perfetta. Di sicuro avrà contribuito a spingere il romanzo».
Non credo di capire dove stia andando a parare. «Immagino di sì», rispondo. «Ora che ci penso, fu Peter, il mio agente, a raccontare l’intera vicenda alla stampa. Sosteneva che ne sarebbe venuta fuori una storia di interesse umano, o cose del genere».
La detective annuisce in silenzio e torna a guardare i ritagli di giornale. Mi accorgo che Brennan mi sta scrutando di sottecchi.
«Se credete che abbiamo messo al mondo una bambina solo per promuovere un accidenti di libro, cazzo, vorrei davvero che fosse così facile», dico, mentre sento la furia che ribolle in superficie. «Ci abbiamo provato per anni, anni, ad avere un figlio. Secondo voi, se fosse stato possibile riuscirci così, a comando, non l’avremmo fatto prima?»
«Non ho insinuato nulla del genere, signor Connor», risponde la McKenna, con un sorriso disarmante. Torna a guardare i ritagli di giornale e annuisce.
Un agente in divisa bussa alla porta già aperta per attirare la nostra attenzione.
«Scusate il disturbo», esordisce, mostrando il cellulare che regge in una mano protetta da un guanto, «ma ho trovato questo in cucina. È suo?»
«Già», rispondo, per poi alzarmi e allungare un braccio. «Grazie».
«Ah, no, spiacente», risponde il giovane, lasciandolo cadere in un sacchetto di polietilene. «Temo che dovremo portarlo via con noi».
Guardo la McKenna, in cerca di spiegazioni.
«Ellie ha un suo cellulare?», domanda la detective.
«No, certo che no», rispondo. «Ha cinque anni».
«Allora ha ragione l’agente», mi spiega lei. «Avremo bisogno di fare dei controlli. È possibile che sua figlia abbia provato a contattare qualcuno tramite quel cellulare. Ci sono portatili o altri computer in casa, qualsiasi cosa che Ellie possa aver usato?»
«Be’, sì, ovvio. Io ho un MacBook nello studio. Tasha ha un portatile e un tablet, ma li ha portati con sé. È andata a una conferenza. Sta tornando a casa, ma ha preso il treno quindi non so quanto ci impiegherà. Però Ellie in realtà non li usa. Ha solo cinque anni». Resto un attimo in silenzio, e a quel punto ripenso all’ultima domanda della detective. «Ma cosa intende con “contattare qualcuno”?».
La McKenna lancia un’occhiata all’agente in divisa, che subito lascia la stanza. «In un sorprendente numero di casi riguardanti bambini scomparsi o rapiti, risulta che il minore avesse già avviato una qualche forma di rapporto con il futuro rapitore. Ora, ovviamente non sappiamo per certo che sia questo il caso di Ellie, ma dobbiamo assicurarci di avere sotto mano ogni prova per valutare tutte le possibilità, soprattutto tenendo in considerazione la sua età».
Ancora non mi pare che la cosa abbia senso. «Ma perché vi servono il mio portatile e il cellulare?».
La detective McKenna fa un sospiro rumoroso. «Dobbiamo solo controllare che non abbia avuto contatti online con nessuno. Sono operazioni di routine».
Questa eventualità non mi era neppure passata per la mente. «Ma Cristo santo, ha cinque anni!».
«Lei non immagina di cosa siano capaci già a quell’età», risponde la donna, in un tono molto più calmo del mio.
So che devo tenere a freno la frustrazione e non perdere la pazienza, se voglio davvero che riescano a trovare Ellie in fretta.
«Quale scuola frequenta sua figlia?», vuole sapere la McKenna. «Ha chiamato per chiedere se per caso ci è andata da sola?».
La prima cosa che mi viene da pensare è che ci sono agenti a setacciare le mie cose, mi hanno confiscato l’automobile e il cellulare, ma non si sono neppure presi la briga di controllare se Ellie era semplicemente a scuola. «Sono stati loro a chiamare me», rispondo. «Volevano sapere come mai non fosse lì».
Mi rendo conto di come mi sta guardando la detective, e so a cosa sta pensando. Sta pensando che è assurdo che io non abbia chiamato subito la scuola, aspettando invece una loro telefonata. E ha ragione. È assurdo.
«Che scuola frequenta?», ripete.
«La Hillgrove», rispondo.
La detective socchiude gli occhi. «È parecchio lontana», commenta. «Di sicuro non rientrate nella circoscrizione scolastica di quell’istituto».
«Già, è vero», ammetto. «Per un po’ è andata alla Parkview, ma poi Tasha ha avuto una discussione con il preside per una qualche peculiarità comportamentale di Ellie. E non voleva mandarla alla St Hilda perché è una scuola religiosa».
La McKenna annuisce. Riesco di nuovo a capire a cosa sta pensando. La solita madre esigente e impicciona.
«È che a volte è più semplice lasciar fare, non trova?», le chiedo.
Lei si limita a un sorriso.