21
Nick
Brennan mi ha riportato a casa e ha deciso che era il caso di lasciare me e Tasha da soli per un po’. Che tocco di classe. Accendi la miccia e scappa, nella speranza che tutto si risolva senza dover neanche muovere un dito. Non so se è per via dello stress, ma sto diventando sempre più cinico.
«Perché non me l’hai mai detto?», chiede Tasha dopo un po’.
«Non te l’ho neanche tenuto nascosto», rispondo.
«Non evitare la mia domanda», insiste lei. Sono stupito per quanto appare calma e razionale. In un certo senso, sembra ancor più inquietante. Mi vengono in mente solo altre due occasioni in cui Tasha, da quando la conosco, ha superato furia e disperazione per entrare in questa strana forma di trance.
«Non volevo che fosse un segreto. Ma, cerca di capirmi, quale poteva essere il momento giusto per parlarne? Una sera a cena? Durante la pubblicità mentre guardiamo Coronation Street? O magari davanti all’altare, un attimo prima di sposarci?»
«Avevo il diritto di saperlo, Nick. Ho messo la mia vita nelle tue mani», ribatte lei, a denti stretti.
«E non l’avresti fatto se l’avessi saputo? Si tratta di un unico, stupido, folle incidente. Non è durato neanche un giorno, una sera soltanto, un piccolo, stupido incidente del quale non ho mai smesso di pentirmi. Quel Nick tu neanche lo conosci. Conosci l’uomo che hai davanti a te adesso. Il padre di famiglia, che è diventato tale proprio in virtù di quell’incidente. Perché mi ha cambiato. Mi ha reso quello che sono adesso. E personalmente io ne sono grato, e dovresti esserlo anche tu».
Pessima mossa, Nick.
«Grata? Vuoi che sia grata?», strilla Tasha, la voce di almeno due ottave più alta rispetto a prima. «Nick, ti ho affidato la mia vita. E ora vengo a sapere che sei, cosa, un criminale?».
Mi nascondo la faccia tra le mani ed emetto un verso che sembra quello di un atleta alle Olimpiadi pronto a battere il record mondiale di sollevamento pesi. «Tu sai esattamente chi sono, Tasha. Non ti ho nascosto nulla. Non di proposito, almeno. Non lo capisci? Quando ripenso alla mia vita prima di quell’incidente è come se fosse un’esperienza extracorporea. Mi sembra di guardare la vita di un’altra persona. Come se fosse un film. Non ho nascosto quello che è successo; è che l’ho proprio cancellato. Volevo dimenticarlo. Avevo bisogno di dimenticarlo».
Lei alza lo sguardo su di me e ridacchia. «Stai veramente cercando di dirmi che in tutto il tempo passato insieme a me non hai mai pensato a quella sera? Neanche una volta?».
Sospiro. «Certo che ci ho pensato. Mi è passato per la mente. È ovvio. Ma non è che mi ci concentravo ogni giorno e facevo di tutto affinché tu non lo scoprissi, non ti pare?»
«E il viaggio in America?», insiste lei, come se le si fosse appena accesa una lampadina nella mente. «Quella sarebbe stata l’occasione perfetta. Potevi dirmi: “Non possiamo andare in America, perché ho la fedina penale sporca. Tanto tempo fa ho fatto qualcosa di molto stupido, ora te lo racconto”. Ma non è andata così, vero? No. Hai inventato stupide scuse sul lavoro, le scadenze e i soldi. Prova a dirmi che quella volta non me l’hai nascosto, Nick».
«Non è vero», rispondo. «Voglio dire, certo, l’incidente ha avuto il suo peso sulla decisione, ma il problema del lavoro era…».
«Basta, Nick!», urla lei. «Ammettilo. Mi hai mentito. Mi hai mentito perché non volevi che scoprissi la verità e perché tu stesso non eri capace di affrontarla. Proprio come non sai affrontare la verità della stronzata che hai fatto ieri. Un’enorme stronzata».
«Lo so che ho fatto una stronzata, Tasha. Cristo santo». In quanti modi vuole che glielo ripeta? Davvero crede che non mi senta una merda per quello che è successo a Ellie? Che non mi senta in colpa? Io voglio solo che Ellie torni qui da noi, sana e felice, e mia moglie non aiuta minimamente con le sue continue accuse. Lo so che ho fatto una stronzata.
«Davvero? Lo sai davvero, Nick? Perché secondo me non te ne rendi conto». Adesso è con il naso a pochi centimetri dal mio mento, lo sguardo puntato su di me con aria di derisione, gli occhi iniettati di sangue e la saliva che le schizza dalla bocca. «Secondo me proprio non ci arrivi». Fa un sorriso storto, sbuffa ed esce dalla sala.
Pochi istanti dopo, sento sbattere la porta della camera da letto e chiudo gli occhi. Capisco piuttosto in fretta che starmene seduto qui da solo, in silenzio, non mi fa bene, così cerco una qualche distrazione.
Vado in cucina e mi verso un bicchiere di succo d’arancia. Alzo lo sguardo verso la bambola Rosie. Prima tendevo a dimenticarmi che fosse lì, seduta sopra l’orologio, ma da quando Ellie è scomparsa non riesco più a entrare in cucina senza guardarla, e mi sembra dieci volte più grande del solito, lo sguardo torvo fisso su di me.
La tentazione di versare anche due dita di vodka nel bicchiere è fortissima, ma resisto. Bevo due grandi sorsi di succo, mi asciugo la bocca e vado verso lo studio. Il portatile è ancora acceso, quindi lo apro ed eseguo l’accesso. Mi pento all’istante di non aver preso la vodka.
C’è un’email. Un’altra.
Una metà del cervello mi urla di leggerla subito, l’altra si trattiene, per la paura di quello che potrei scoprire. Alla fine, faccio un lungo respiro e apro il messaggio.
Non contiene testo; solo una foto di Ellie. Capisco subito di cosa si tratta. Conosco a memoria ogni singola foto che ho scattato a mia figlia, ma questa è diversa. Questa l’ha scattata la persona che l’ha rapita, Jen Hood.
Le lacrime mi annebbiano la vista. La foto sbiadisce fino a diventare a malapena riconoscibile. Batto le palpebre e le lacrime scendono lungo le guance, rendendo di nuovo visibile l’immagine. Stringe tra le mani un giocattolo che non riconosco, un classico orsacchiotto di peluche. È seduta in quello che sembra un solaio o una soffitta. Ma ciò che davvero mi fa male è notare che sembra felice. Sorride.
Mi fa male la testa, e davvero non so quanto ancora riuscirò a sopportare questa situazione. La mente è un caos vorticante di confusione, e ogni altro pensiero non fa che peggiorare le cose. È tutto cupo e nuvoloso, non riesco più a vedere nulla con chiarezza. In queste condizioni disastrose provo un assurdo moto di rabbia contro Ellie. Se non fosse scomparsa, se solo si decidesse a tornare a casa, allora non saremmo più in questo casino. Torneremmo a essere felici.
Immagino che lo stress e la furia che mi pervadono non siano in realtà diretti contro mia figlia. Ce l’ho con me stesso, e con Tasha. In questo momento avrei bisogno del suo sostegno. Dovremmo supportarci a vicenda. Comincio già a capire perché le coppie in queste situazioni finiscono per divorziare. La massa sempre più grande di accuse e sensi di colpa è un vero e proprio veleno.
Se potessi fare a cambio tra Tasha ed Ellie, non avrei la minima esitazione.
Ripenso alla prima email ricevuta da Jen Hood, e in quel preciso istante so cosa devo fare.