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Tasha
I dottori, in ospedale, proprio non ci arrivavano. Ogni volta che mi chiedevano come mi sentissi, rispondevo che non sentivo nulla. No, la testa non mi fa male. No, le giunture non sono rigide. Rispetto a quello che ho dovuto superare negli ultimi giorni, il dolore fisico è del tutto irrilevante. Non mi spaventa.
Non ho idea di cosa sia successo. Ricordo solo di aver sentito quel singolo passo. È questa la cosa davvero assurda. Non c’è stato nessuno che mi è venuto contro o che è balzato fuori da chissà dove. Solo quell’unico passo. Quasi fosse lì appostato, tra le ombre, in attesa che passasse qualcuno. Che passassi io.
In ospedale la polizia mi ha chiesto se avevo qualcosa con me al momento dell’aggressione. Ho risposto che non riuscivo a ricordare, ma che di solito non esco di casa a mani vuote. Non ricordo se avevo del denaro addosso. Probabilmente no. Non credo di aver preso la borsa, perché stavo solo andando a casa di un’amica e non avrei avuto bisogno di denaro. Inoltre, una donna che si aggira da sola di notte con una borsa diventa un bersaglio. Mi hanno chiesto del cellulare, ma non lo so. Immagino di averlo portato con me. Non è qui, adesso, ma non mi importa. Non voglio chiamare nessuno. Non voglio che nessuno mi telefoni. Voglio solo rannicchiarmi e morire.
Al piano di sotto adesso c’è Jane McKenna, ma non voglio vederla. Sento che lei e Nick stanno parlando, ma non capisco cosa si stanno dicendo. E neanche questo mi interessa, a meno che non sia qui per annunciare che hanno trovato Ellie.
So che mi sto piangendo addosso e lo detesto. Non è da me. Sono il tipo di persona che si riprende e va avanti, ma in questo momento non è poi così facile. Ho spento la TV qui in camera perché è piena di merda che ti ottunde il cervello. Parliamoci chiaro, io ho un gran bisogno di ottundere il cervello, ma l’immondizia che trasmettono semplicemente non mi impegna abbastanza. Riesco ancora a sentire i miei pensieri, cupi e invadenti. Non li voglio sentire. Voglio che spariscano. Ho bisogno di potermi concentrare su qualcosa abbastanza a lungo affinché si disperda la nebbia, devo smettere di sentirmi come se il mondo mi fosse esploso addosso. Ho bisogno di un senso di normalità.
Con un gemito, mi sporgo a raccogliere la borsa del portatile accanto al letto, con costole e braccio che protestano. Sono caduta in una posizione innaturale, secondo i dottori. Non so bene come avrei potuto sceglierne una naturale; sono quasi sicura di aver perso i sensi prima di finire per terra. In ogni caso, adesso è il mio corpo a pagarne le conseguenze.
Abbasso la cerniera della borsa e tiro fuori il mio computer argentato, lo apro e lo accendo. Il suono di benvenuto è rassicurante, concreto. Riconoscibile. Lo sentivo ogni giorno, quando tutto era ancora normale. Quando avevo mia figlia con me. Quando tutto era come avrebbe dovuto essere. Prima che la mia vita finisse sottosopra.
Nella casella di posta del lavoro, ci sono centonove email in arrivo. Scorro l’elenco e ne vedo alcune che immagino siano di colleghi che mi augurano buona fortuna e si rammaricano per la notizia della scomparsa di Ellie. Queste non le voglio leggere, quindi apro solo quelle che hanno per oggetto argomenti chiaramente collegati al lavoro. Per lo più sono messaggi che ricevo insieme al resto della squadra, o mandati da persone che adorano aggiungere quaranta destinatari a un’email che dovrebbe essere vista da uno soltanto. Ora come ora, sono grata a queste persone. Grazie a loro posso sedermi e leggere quello che sta succedendo, posso costringere il cervello a concentrarsi su qualcosa senza però il bisogno di lavorare per davvero. Mi sento coinvolta. Mi sento di nuovo utile.
In realtà io trovo il lavoro davvero rilassante. Molti dicono che è stressante e devono trovare modi per riprendersi dopo le giornate in ufficio. Per me, funziona al contrario. Io lo trovo calmante, quasi terapeutico. Richiede proprio il giusto livello di impegno mentale, il giusto livello di routine. È un po’ come il cucito, o la pittura: ti devi concentrare, ma comunque sai sempre quello che stai facendo. Un equilibrio perfetto.
Mi sento in colpa per aver aperto il portatile e aver letto le email di lavoro mentre la polizia gira in lungo e in largo a cercare la mia bambina? Sì, forse un po’, ma mi serve. C’è chi si dà all’alcol o alla droga, io uso il lavoro. Credo che nessuno mi criticherebbe se mi scolassi una bottiglia, in questa situazione, quindi l’unica differenza è che il portatile non mi rovina il fegato.
Cosa strana, sento che il mal di testa comincia a passare mentre leggo le email. Ce n’è una che raccoglie ventisei messaggi relativi alla discrepanza in un qualche conto. Nulla che mi riguardi o interessi, ma informarmi al riguardo, sapere di essere inclusa, mi fa sentire di nuovo importante. È strano da dire, ma è vero. E, per qualche fugace istante, riesco a dimenticare tutto e fingere – per una manciata di secondi – che tutto sia di nuovo come prima.