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Nick
La lunga passeggiata verso casa mi concede un bel po’ di tempo per riflettere. La mia nuova via di uscita sembra l’opzione più semplice, ma comporta un gran numero di difficoltà. Se proprio devo convincere qualcuno a fare il lavoro sporco al posto mio, la prima, ovvia domanda è chi. Il come lo lascerò alla persona in questione.
Da un bel po’ ormai un pensiero mi si agita nei recessi della mente, ma sono restio a prenderne atto. Un mio vecchio amico di scuola è stato in prigione, in passato. Uso la definizione “amico di scuola” perché da quei tempi quasi non ci siamo più visti, ma all’epoca stavamo sempre insieme. Grandi amici. Nessuno di noi era un ragazzo modello, ma Mark Crawford andava anche oltre. Non era violento né aggressivo, ma aveva senz’altro un animo ribelle.
Otteneva sempre quello che voleva. Non faceva nulla nel modo consueto o secondo le regole, e riusciva ad approfittare di ogni situazione. Se durante le lezioni di educazione fisica giocavamo a cricket, aveva una chiave infilata nell’elastico dei pantaloncini, perfetta per incidere solchi e linee nella pallina affinché ruotasse secondo traiettorie meno prevedibili. Ed era l’unico ragazzo di mia conoscenza che non prestava mai attenzione in classe eppure riusciva sempre a superare gli esami. Anche questo fa pensare a qualcosa di sinistro. C’era sempre qualcosa di sinistro, se Mark Crawford era coinvolto. Quando aveva ventidue anni, fu beccato per aver organizzato un complesso piano criminale di riciclaggio di denaro destinato al fisco che comprendeva una cerchia ristretta di società fondate solo e unicamente a tale scopo.
Dopo la scuola in pratica non ci siamo più incontrati dal vivo, ma grazie a Facebook, che pure uso ben di rado, siamo riusciti a restare in contatto. A Tasha non ho mai raccontato granché sul suo conto. Se avesse conosciuto il suo passato si sarebbe già fatta dei pregiudizi prima di conoscerlo, così non ho perso tempo a entrare nel dettaglio. Tutto questo, però, è irrilevante ormai. L’unico pensiero che mi campeggia nella mente è che Mark Crawford conosceva gente. Brutta gente. Gente che potrebbe aiutarmi a uscire da questo casino e riportare Ellie a casa.
Ora come ora nulla mi farebbe più contento che avere fiducia nella polizia. Ma il problema è che riesco anche ad analizzare la situazione dal loro punto di vista. Una bambina scompare e nessuno vede niente. Aggiungiamo a questo il fatto che il testimone principale – un testimone “affidabile”, senza macchie sulla fedina penale – sostiene che il padre non l’ha mai messa in macchina. Chi potrà mai essere il sospettato? Eccomi qua. Pensando a Derek, digrigno i denti.
In ogni caso, da dove cominci a cercare se non sai neppure da che parte è andata una volta superato il viale di casa? Secondo logica, il primo passo sta nel provare a capire chi possa averla rapita, e da lì stabilire dove si trovi.
Devo far capire a tutti che Derek sta mentendo. Che stanno sprecando tempo prezioso indagando su di me invece di cercare mia figlia.
La conseguenza di tutto ciò è che al massimo la polizia può vagare in giro a casaccio e appendere manifesti. Si era pensato di mettere ancor più pressione sul rapitore tramite i media, ma temono che questo possa spaventarlo e spingerlo a fare del male a Ellie. Quando mi hanno sottoposto la questione, mi sono detto assolutamente d’accordo. Dopo tutto, io so che qualcuno l’ha rapita e che, proprio come ipotizzano loro, potrebbe lasciarsi prendere dal panico. Questo però non lo potevo rivelare alla polizia.
Non ho intenzione di mentire: mi sono spesso chiesto come sarebbe la mia vita senza Tasha. Ho sempre detto che se non mi fossi sposato e accasato, con ogni probabilità ora sarei in viaggio verso l’Oriente o l’Australia. Di sicuro non sarei immerso fino al collo nel mutuo per una casa nella stessa, schifosa città dove sono cresciuto, senza la minima speranza di venirne via. Per tanti versi, la vita sarebbe molto più semplice senza Tasha.
Ora non potremmo certo permetterci di viaggiare. Non adesso che siamo sposati, con una figlia e il mutuo, per non parlare di tutto il resto che ne consegue. Di sicuro Tasha non sarebbe disposta a rinunciare alla sua preziosa carriera. Ma io ed Ellie, noi due soltanto? Sì, così potrebbe funzionare. Soprattutto se non avessimo più motivi per restare.
Un altro pensiero mi si affaccia alla mente. Tasha è assicurata. È stata una decisione sulla quale lei stessa ha insistito, quando ci siamo sposati e abbiamo comprato casa. Abbiamo anche fatto in modo di includere apposite disposizioni per i figli, qualora ne avessimo avuti, ai quali sarebbe andato del denaro in più se uno di noi due fosse venuto a mancare. Le compagnie di assicurazione pagano in caso di omicidio? Dopo tutto, devo ipotizzare che il verdetto sarà questo, se non riesco a far sembrare tutto un incidente. No. Allontano questa ipotesi dalla mente. Devo farlo sembrare un incidente. O al limite un delitto che io non potrei aver commesso in nessun modo. A quel punto non mi resterebbe che vendere la casa e riscuotere il denaro dell’assicurazione, così io ed Ellie avremmo abbastanza di che vivere con agio mentre giriamo il mondo. Potrei addirittura assumere un qualche insegnante privato per mia figlia e farlo venire con noi.
Sembrano fantasie fin troppo spinte, perché è tutto molto diverso dal modo in cui siamo abituati a vivere, ma quando ti siedi e metti le cose nero su bianco ti rendi conto di quanto poco ci vorrebbe per cambiare drasticamente la tua vita. Se lo vuoi, certo. Se non fosse stato per la scomparsa di Ellie, con ogni probabilità avrei fatto come la maggior parte della gente, continuando a tirare avanti. La scelta più facile, immagino. Ma, adesso, questa scelta non è più possibile. Non sono nelle condizioni di tirare avanti. Ora la situazione deve cambiare. Voglio riavere la mia Ellie.
Una volta Mark mi parlò di un tizio del posto che aveva conosciuto in prigione e che, sosteneva, gli avrebbe potuto fare un “favore” se mai ne avesse avuto bisogno. Stringo le dita intorno al cellulare in tasca mentre cammino, consapevole che non appena lo tirerò fuori per comporre il numero di Mark avrò compiuto un gesto irrevocabile. Al momento, però, questo non mi sembra grave. A sembrarmi grave è il fatto che la mia bambina sia scomparsa, finita tra le grinfie di chissà quale psicopatico. Per riaverla, devo solo fare questa telefonata e porre fine alla farsa che è il mio matrimonio, tornando così libero di vivere come desidero, con Ellie di nuovo accanto a me. Libero e lontano da timori e preoccupazioni.
Ma sarei davvero libero? Che succederà dopo la morte di Tasha? La polizia sospetterà di me, senza alcun dubbio, ma potrei dimostrare che non sono stato io. Di sicuro crederanno che abbia avuto comunque un ruolo, capiranno probabilmente che ho organizzato il tutto. Ma dovranno dimostrarlo al di là di ogni ragionevole dubbio. Avranno bisogno di prove concrete. E, se agisco con la dovuta attenzione, posso assicurarmi che non ne abbiano.
Ragiono su quale sia il modo migliore per contattare Mark. L’opzione più sicura sembrerebbe un telefono pubblico, o il cellulare di qualcun altro. Ma se la polizia dovesse indagare in questa direzione, potrebbe riuscire a scoprire che l’ho contattato. E a quel punto come farei a spiegare la decisione della cabina telefonica? Tutto considerato, non c’è niente di strano nel chiamarlo dal mio smartphone. Siamo andati a scuola insieme, ci teniamo in contatto tramite Facebook, non abbiamo nulla da giustificare. La polizia dovrebbe fornire dei motivi per il proprio interesse riguardo alla nostra conversazione, laddove a me basterebbe dire che ho fatto due chiacchiere con un amico. Non ne ho poi tanti, quindi perché non Mark? Usare un telefono pubblico servirebbe solo a destare sospetti. Inoltre, non sarà in ogni caso Mark l’esecutore materiale.
Senza quasi rendermene conto, sto già scorrendo la rubrica fino alla lettera M, per poi selezionare il nome di Mark. Mi porto il cellulare all’orecchio e aspetto di sentire il familiare suono di avvio della chiamata. Mark risponde al quarto squillo.
«Nick! Come butta, amico?»
«Be’, direi bene», mento. «Non proprio, in realtà. Ascolta, sei in città? Preferisco non parlare al telefono».
«Cristo santo. Mi sa che non ci sentiamo da cinque o sei anni, e adesso mi chiami per dire che non puoi parlare al telefono?». Scoppia a ridere.
«Lo so. Ti spiegherò tutto di persona. È più semplice così». Un’altra bugia. Il punto è che forse il cellulare è sotto controllo, soprattutto se la polizia mi vede come un sospettato. Sarà già abbastanza difficile spiegare perché ho contattato un criminale per la prima volta in sei anni proprio a ridosso della scomparsa di mia figlia, ma almeno per questo ho una scusa, per quanto debole. «Sono in un periodo di merda, al momento, e ho la testa per aria, così cerco di scrivere quanto più possibile, per non diventare del tutto pazzo. Ho bisogno di qualche tuo consiglio, per una ricerca. Sto mettendo su una storia ambientata in carcere e, insomma…».
«Ah ah, sì, ho capito. Nessun problema. Sono appena uscito dalla stazione. Possiamo vederci a Jubilee Park tra cinque minuti, se ti va».
Sorrido. È dove andavamo sempre dopo la scuola, per dar da mangiare alle anatre nel laghetto.
«Certo, ci vediamo lì», rispondo.