38
Nick
Quando torno a casa scopro che Jane McKenna è già lì ad attendermi. Mi rivolge un sorriso fin troppo vivace quando entro nel soggiorno. Tasha sembra un po’ a disagio.
«Salve, Nick», mi saluta la detective, per poi finire di bere la sua tazza di tè. «Stavo appunto aggiornando Natasha sulle ricerche. Abbiamo degli agenti che passano a tappeto i boschi fino alla superstrada, e gli appelli radio presto saranno su scala nazionale. Riteniamo sempre più probabile che chiunque abbia preso Ellie la tenga ben nascosta, oppure l’ha portata molto lontano».
“Be’, questo avrei potuto dirvelo anche io”, penso. In effetti, ricordo di averglielo appunto detto, fin dall’inizio. «Tutto qua?», rispondo. «È venuta fin qui per darci la notizia che non ci sono notizie?»
«Stanno facendo tutto quello che possono, Nick», interviene Tasha. Mi chiedo perché a un tratto prenda le difese della polizia. Mi colpisce come sia più rassicurata quando è con gli agenti che con suo marito. La reazione che ha avuto per l’incidente con Derek e per la storia di Angela è stata più o meno comprensibile, eppure mi sarei aspettato che restasse dalla mia parte. Tanto per cambiare, mi sento di nuovo da solo contro il mondo. E così mi convinco ancor di più di aver intrapreso la strada giusta per sistemare questa situazione una volta per tutte.
«Non c’è problema», dice la McKenna, poggiando una mano sul ginocchio di mia moglie con fare rassicurante. A quanto pare sono diventate grandi amiche, dopo che sono uscito. «In realtà, Nick, mi stavo appunto chiedendo se posso farle un paio di domande».
Tasha capisce l’antifona prima di me. «Vado a preparare il tè».
«No, non c’è bisogno», la fermo. «Ci penso io. Possiamo parlare in cucina».
In verità credo che il tè fosse solo un pretesto, quindi non lo metto su. Mi chiudo la porta alle spalle e aspetto di capire cosa vuole da me la detective.
«Come se la passa?», mi domanda, la schiena poggiata agli armadietti, la testa piegata leggermente di lato.
«Come ci si potrebbe immaginare, date le circostanze, immagino».
«Be’, io credo che stia facendo un ottimo lavoro. È questo il problema, i genitori non possono fare granché. Immagino che lei si senta piuttosto disperato e impotente».
«Sono le parole esatte, sì», rispondo.
«Ho saputo che nell’ultimo paio di giorni ha cominciato a uscire più spesso».
Mi stanno pedinando? «Già, è così. Un cambio di panorama. Una boccata d’aria fresca e tutto il resto».
«Uno dei nostri agenti l’ha vista entrare al Talbot Arms», mi riferisce, cogliendomi alla sprovvista. Sono sicuro che abbia notato il vacillare del mio sguardo. Stronza.
«Davvero? Ah, sì, ci sono andato per bere un bicchiere al volo. Per alleggerire la mente, sa com’è. L’ha detto anche lei, non possiamo fare granché, e mi pare di starmene sempre seduto ad aspettare notizie. Mi sembra di impazzire».
«Lo immagino», risponde, con un sorriso. «Eppure ha scelto uno strano locale, non trova? Voglio dire, è dall’altra parte della città».
«Ero di passaggio», dico, senza riflettere. E se l’agente in questione mi ha seguito per l’intero tragitto? Allora sanno che sono tutte stronzate. «Non è il mio pub abituale, ma non avevo voglia di posti noti. Mi serviva un momento di fuga, immagino».
La McKenna annuisce. «Lei abita in questa città da parecchio, non è vero?»
«Da sempre», confermo.
Lei annuisce di nuovo. «Non ha mai avuto una gran nomea, quel locale. Glielo confesso, quando ero una semplice agente di pattuglia passavo gran parte dei miei turni a sedare risse al Talbot».
«Prima o poi una rissa scoppia in qualsiasi pub», osservo, con un sorriso forzato.
«Certo, ma lì capita fin troppo spesso. Quel posto non cambia mai. Né mai cambierà, sospetto. E questo mi spinge a pensare che è davvero strano scegliere di andarci a bere una pinta. Fatico a credere che i clienti del Talbot siano il tipo di persone che lei vorrebbe frequentare».
«Ripeto, era un cambio di panorama. Volevo andare in un posto dove nessuno mi conoscesse».
«Ha senso», risponde. «Quindi non ha idea di chi siano gli avventori di quel pub?».
Cerco di fissarla quanto più a lungo possibile senza esagerare, nel tentativo di capire se sa più di quanto lasci intendere.
«No, nessuna idea».
«Lieta di saperlo», dice la detective. «Perché è frequentato da diversi loschi figuri. Il tipo di individui dai quali farebbe bene a stare alla larga».
«Be’, non ci sono rimasto a lungo», rispondo.
«Lo so». Lo sguardo della McKenna dura più del dovuto. «È comunque meglio che bere a casa da soli, giusto?». Sorride e torna a mettersi dritta, allontanandosi dai mobili. «Vi terrò aggiornati se ci sono novità. Cerchi di non perdere la speranza, va bene?».
La osservo andare via e stringo i pugni fino a far sbiancare le nocche. Sento gli occhi della bambola Rosie che mi si piantano dietro la nuca, con tutto il peso della disapprovazione di mia madre. Mi giro, afferro la bambola e la metto dentro l’armadietto dei cereali, zittendo almeno per un po’ le voci nella mia testa.