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Tasha
Per tanti versi, mi sento in colpa per questa serata. Voglio dire, chi mai può andarsene a bere un bicchiere a casa di un’amica dopo che la sua bimba di cinque anni è scomparsa? Ma poi mi ricordo che Nick ha ragione. A questo punto non possiamo fare altro che starcene fermi a casa, a lasciarci risucchiare dal terrore che sia successo il peggio. E che bene può farci?
Siamo impotenti. La polizia sta dando il massimo, e anche se devo confessare di sentirmi molto frustrata per la loro lentezza, persino gli agenti stessi ci hanno consigliato di provare a conservare almeno un minimo di normalità. Il problema è che non riesco a ricordare cosa sia la normalità. Tutto quello che c’era prima è una grande macchia sfocata: le giornate di lavoro, le ferie, le gite al parco. È un unico, grande groviglio. Potrei dire che è colpa dei farmaci, ma so che non è così. So di essere traumatizzata. È quello che succede quando vivi una tragedia del genere. Si crea un grande spartiacque tra il prima e il dopo.
Cerco di mostrarmi forte e coraggiosa, mi rendo conto, ma lo sto facendo per entrambi. Lo faccio perché in questo momento Nick è tutto quello che mi resta. E la cosa mi impensierisce. So che lui non sta gestendo bene la situazione. Chi potrebbe? Ma Nick comincia a comportarsi in modo strano, quando è sotto stress. Non è mai stato capace di affrontare problemi e difficoltà, ma le sue condizioni mi preoccupano sempre di più.
Forse mi sto facendo troppe domande, ma dubito che prima (ecco, di nuovo) avrei pensato che Nick potesse suggerirmi di andare a bere una bottiglia di vino da Emma dopo la scomparsa di nostra figlia. Quando sono tornata al lavoro dopo il parto lui ha avuto da ridire, quindi mi pare assai poco verosimile.
Ciò nonostante, credo che stare separati per qualche ora ci farà bene. Abbiamo cominciato a darci sui nervi a vicenda persino più del solito, e in un paio di circostanze abbiamo sfiorato la lite. In fondo al cuore, non posso fare a meno di sentire che sia colpa sua per quello che è successo a Ellie. Se quel mattino non fosse tornato in casa? Se per una volta nella vita si fosse organizzato bene, così da portare Ellie a scuola in orario? Se avesse tirato fuori le palle, dicendole che avrebbe portato il disegno alla signorina Williams un altro giorno? E poi comincio a biasimare me stessa. Se non fossi andata alla conferenza? Se fossi uscita di casa più tardi, facendo il mio dovere di madre e preparando io stessa Ellie per la scuola? Tutta questa storia è piena di “se” e non ci fa alcun bene.
Non sto cercando di distrarmi dal presente, ma devo evitare di impazzire, smetterla di uccidermi lentamente con rimpianti e rimorsi. Sono sicura, nell’anima, che riavremo Ellie con noi. Diciamo che è speranza. Diciamo che è disperazione. Ma ogni fibra del mio essere rimane aggrappata al momento in cui la mia bambina tornerà a casa. E, quando questo accadrà, voglio che trovi tutto com’era prima, non una casa piena di brutti sentimenti e un’atmosfera negativa.
E poi mi sento in colpa per questi pensieri. Quasi avessi il dovere di vagolare nel soggiorno e strapparmi i capelli, quasi fossi una pessima madre se non mi accascio a terra e urlo in preda all’isteria. È questo che pensa Nick di me? E la polizia? Immagino abbiano già controllato le telecamere della stazione. Parte di me lo spera, perché così sapranno che non ero assolutamente nei paraggi quando Ellie è scomparsa, ma vorrei anche che non l’avessero fatto, perché altrimenti vorrebbe dire che mi hanno sospettata di aver rapito mia figlia.
C’è un’innegabile contraddizione che non voglio riconoscere, ma che continua a mostrarmi il suo brutto volto: sono sicura che Ellie sta bene e tornerà a casa, ma al contempo non mi viene in mente nessuno che potrebbe averla rapita. Se è così, resta solo la possibilità di uno sconosciuto che ha semplicemente colto l’occasione. E perché un criminale del genere dovrebbe tenerla al sicuro e badare a lei, se vuole soltanto…
Cancello questo pensiero dalla mente. Non posso lasciarmi trascinare da certi ragionamenti. Ho le stesse, disperate preoccupazioni e i timori nauseanti che avrebbe qualsiasi madre, ma sto anche lottando con le unghie e con i denti per cacciarli via e per conservare come posso la speranza e l’ottimismo. Ma anche questi stanno rapidamente svanendo.
I farmaci allentano un po’ la tensione, ma non è granché. Se non li prendessi, non riuscirei a fare nulla. E di nuovo mi sento in colpa per quello che riesco a fare. È questo il vero effetto della cura, rallenta certi pensieri e mi permette di elaborarli. Mi tiene lontano dall’abisso.
La sensazione di torpore ha il sopravvento quando comincio ad attraversare Jubilee Park. Con la luce dei lampioni stradali che sbiadisce alle mie spalle, mi lascio consolare dalla familiare oscurità del parco. Il buio della notte e il silenzio tutto intorno sono come un’enorme barriera contro la realtà che affronto ogni giorno. Vedere persone che vanno a lavorare, portano avanti la propria vita, con ogni probabilità ignari di quello che è successo a me, mi fa sentire come in una bolla, completamente avulsa dalla realtà. Sono come il parco stesso, una massa nera circondata dal fioco bagliore delle luci di strada, che diventa sempre più buia.
Vengo strappata da questi pensieri dal crepitio di un singolo passo su foglie secche e rametti. Prima di potermi girare a guardare, sento la mente invasa dal panico e le luci mi lampeggiano davanti agli occhi, annientando il bagliore arancione dei lampioni che paiono girare e vorticare mentre sbatto con la faccia sull’asfalto.