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Nick
L’ambulanza va a tutto gas dal parco all’ospedale. «Una grave ferita alla testa», ha sancito il paramedico, ed è necessario trattarla con urgenza. «Una grande perdita di sangue». Mi gingillo con l’idea di chiedere che rallentino, ma non lo faccio.
Lei è quasi irriconoscibile. Ci sono già le prime tracce di gonfiore. A quanto pare i paramedici temono gli effetti di questi rigonfiamenti sul cervello, quindi hanno già prenotato gli esami di emergenza. Vedere tua moglie coperta di sangue, sapendo di essere il responsabile, è una delle cose più difficili del mondo da gestire. Ma a colpirmi è soprattutto il disgustante gorgoglio che lei emette lungo l’intero tragitto.
Quando arriviamo all’ospedale, i paramedici mi fanno allontanare dall’ambulanza, e un’infermiera mi accompagna nella sala d’attesa, mentre loro portano via mia moglie su una barella. Spariscono dietro a una doppia porta, e l’infermiera si sforza di assicurarmi che andrà tutto bene e che mia moglie è in ottime mani. Non ho modo di farle capire che non è questo che vorrei sentirmi dire.
Qualcuno mi dà un bicchiere di carta pieno di tè bollente e dolce – troppo dolce – e mi dicono che presto verrà un dottore a spiegarmi cos’è successo e ad accompagnarmi da mia moglie. Emma decide che preferisce un caffè e parte in cerca di un distributore.
È tutto molto confuso. Non mi rendo conto del passare del tempo. Sembra volare via, eppure allo stesso tempo è interminabile. Poco dopo, però, riconosco la voce familiare della McKenna. Ormai me la ritrovo sempre dietro, come l’odore di una brutta flatulenza. Mi chiedo com’è possibile che l’abbia saputo così in fretta. Mi stavano pedinando? No. Non sarebbe ragionevole. Mi dico che con ogni probabilità i dottori o gli infermieri hanno riconosciuto Tasha o sapevano chi era per via dell’esposizione mediatica. Di sicuro conoscevano il suo nome. Magari avevano anche un qualche avviso nei loro archivi e hanno allertato la polizia. Non lo so, e al momento non mi importa. So solo che non sono nelle condizioni idonee per parlare con la detective.
«Come sta?», chiede lei mentre arriva Emma con il suo caffè.
«Non lo so», rispondo in modo vago, stupito per quanto distante e roca suoni la mia stessa voce.
«Hanno stabilito cosa è successo con esattezza?», insiste la detective, spostando lo sguardo tra me ed Emma.
«Non è compito vostro questo?», ribatto, cercando di aggiungere del veleno alla voce, per poi accorgermi all’istante che mi viene naturale.
«Non possiamo parlare con lei fin quando i dottori non avranno finito di visitarla, Nick. Mi riferivo più che altro a cosa ci facesse nel parco a quell’ora, tanto per cominciare. Perché andare a piedi fino al Jubilee Park? Mi pare tutto fuorché sicuro. Poteva uscire in macchina. Prendere un taxi. Chiederle un passaggio».
Continua a fissarmi.
«A sentire i dottori, qualcuno deve averle di proposito inferto quei colpi», mi comunica, con voce neutrale. «Non aveva borsa, borsetta o cellulare, quindi possiamo solo presumere che l’assalitore glieli abbia sottratti».
«Una rapina?», chiedo.
«Così pare», mi risponde, continuando a guardarmi con sospetto. «Lei è stato a casa tutta la sera?»
«Già», dico. «Sono uscito solo quando mi ha chiamato Emma e ha detto che Tasha non era ancora arrivata a casa sua».
«Ed era da solo, immagino, giusto?».
Mi stringo nelle spalle e mi costringo a fare una strana specie di sorriso, come a dire: be’, purtroppo sì. So che adesso mi troverò sul filo del rasoio, con quello che sto per dire. Non ho avuto modo per organizzare a dovere la parte del piano relativa a Derek. Con tutto quello che è successo, la cosa mi è sfuggita di mano. Ma dopo che ho fatto irruzione in casa del vecchio e ripensando alla sua espressione terrorizzata, mi chiedo se questa volta le cose non andranno in maniera diversa. In ogni caso, è la sola opzione che ho. L’ultimo tiro di dadi. Decido che vale la pena provare. «In realtà, se sta chiedendo se posso dimostrare che ero in casa, sì, posso. Sono uscito in giardino pochi minuti dopo la partenza di Tasha. Derek era nel suo viale, a metter fuori l’immondizia».
«Vuole davvero usare di nuovo Derek come alibi?», chiede la detective. «Le pare una buona idea?»
«Aspetti. Alibi?», ripeto, sforzandomi di sembrare furente e sconvolto. «Pensate che sia stato io?»
«Niente affatto. Cosa glielo fa credere? Ho solo bisogno di appurare chi era dove e quando. Stabilire i fatti. Mi dica di Derek».
«Era lì», rispondo. «È l’unico ad avermi visto. Poi sono tornato in casa e non è successo nulla, fino alla telefonata di Emma».
La McKenna annuisce di nuovo. Vedo che si rende conto di quanto poco sia probabile che sia uscito di casa per andare al parco e massacrare di botte mia moglie, soprattutto visto che dopo l’appello tutti nella zona conoscono le nostre facce. Ma si rende conto anche che qualcosa non torna, è evidente. Solo che non sa cosa.
Sediamo in un silenzio tombale per qualche ora, interrotto di tanto in tanto da uno di noi che va a prendere un’altra tazza di tè o di caffè, o dalle solite frasi su come speriamo di avere presto notizie. Ci hanno dato aggiornamenti circa ogni ora. Sono sempre più positivi, ci dicono che hanno arrestato l’emorragia, hanno evitato che danneggiasse il cervello e che Tasha è di nuovo cosciente. A farmi incazzare per davvero è che la detective ha già avuto il permesso di vederla due volte, a quanto pare i medici danno precedenza alla polizia rispetto al marito.
Intorno alle sei del mattino, il dottore si profila sulla soglia e ci dice che Tasha è in condizioni stabili, ma ha riportato una grave commozione cerebrale. Ha anche perso un sacco di sangue. «È molto debole», conclude.
«Posso vederla?», chiedo, più alla McKenna che al dottore.
«A me va bene», risponde la detective, per poi girarsi verso il medico, che annuisce.
La detective mi scorta fino al reparto e sorride quando arriviamo al letto di Tasha. È stesa sulla schiena, la testa reclinata verso la finestra. Si direbbe che sta per sorgere una bella giornata di sole. È la prima volta che faccio caso al clima, da quando è scomparsa Ellie.
«Ciao», dico, con voce sommessa. Dopo un paio di secondi, Tasha si gira verso di me. È quasi come uno zombie, e giurerei che riesco a sentir crepitare il collo mentre si muove.
«Nick», sussurra, la voce roca e profonda.
Guardo la McKenna. È un buon segno, no? Mi accorgo che sono felice vedendo che è viva e mi riconosce. Non dovrei reagire così. Dovrei essere sconvolto. Sconvolto perché è sopravvissuta all’aggressione. Perché Ellie non tornerà a casa. È tutto un immenso casino.
«Come stai?», le chiedo, per poi sedermi sul bordo del letto e sistemarle una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Sono stata meglio», mi risponde.
«Hai visto chi ti ha fatto questo?».
Lei scuote lentamente il capo. «Era buio. È arrivato da dietro. Non mi ricordo niente».
«Stando ai medici, non ci sono danni permanenti», dice la McKenna. «Le hanno fratturato uno zigomo e sarà piena di lividi e contusioni per un po’, e le faranno male. Ma è un animaletto tosto, sua moglie. È una combattente».
«Lo è, di sicuro», dico io, guardando Tasha. «Di sicuro».