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Nick

Mi sento stranamente sulle spine nel fare qualsiasi tipo di ricerca sul mio computer, ormai. La polizia mi ha già restituito l’automobile, ma nessuno si è preso la briga di farmi sapere che non avevano trovato nulla. Anche se è di nuovo qui, non riesco a non pensare che possa essere tracciata, seguita. Quindi mi infilo le scarpe ed esco di casa, decidendo di andare a piedi in città.

La prima sosta è in biblioteca. Entro e parlo con la ragazza al bancone per capire come posso servirmi dei computer pubblici. Lei mi spiega che devo fare la tessera. Sì, lo so. Uno scrittore che non ha già la tessera della biblioteca.

A quanto pare, la pratica richiede solo cinque minuti. Poi non dovrò fare altro, dice la ragazza, che inserire il mio numero identificativo e la password per usare uno dei computer. La cosa non mi convince. Non voglio che le mie attività online siano collegate al mio nome in un luogo pubblico.

Decido anche di evitare lo stesso Internet point dell’altro giorno. Non voglio che riconoscano il mio volto. Devo continuare a coprire le mie tracce. Il problema è che gli Internet point non sono più diffusi come un tempo.

So che ce n’è uno nel paese qui accanto. Almeno, c’era sei mesi fa, l’ultima volta che ci sono passato davanti in macchina. Dista più di otto chilometri, ma decido di andarci comunque a piedi.

Arrivato all’Internet point, apro la porta ed entro. Non c’è nessuno a parte un tizio, che immagino sia il proprietario, seduto dietro a un bancone in fondo al locale. Non sono particolarmente sorpreso, chi li frequenta più gli Internet point, ora che tutti hanno un computer e uno smartphone?

Vado verso il bancone e chiedo se posso prenotare del tempo su uno dei computer. Gli do i soldi e lui mi indica una delle postazioni.

Aspetto un’eternità perché Internet Explorer si avvii – è per questo che uso un Mac – e alla fine posso finalmente digitare le parole chiave della mia ricerca. Mi sembra di avere il cervello pieno di ovatta, incapace di formulare pensieri coerenti. Cerco di ricordare gli esercizi di concentrazione e meditazione imparati in passato e mi tornano alla memoria alcune tecniche, ma per quanto mi impegni non riesco a dissipare la foschia che mi annebbia la mente.

Tiro fuori un taccuino dallo zaino e comincio a scarabocchiare. Pochi minuti dopo non ho ancora scritto nulla nel computer ma ho comunque stilato una caotica lista di idee, con la parola OMICIDIO al centro della pagina, dalla quale si dipanano tutti i modi possibili di uccidere una persona. Finora ho preso in esame lo strangolamento, le scosse elettriche, ferite da corpo contundente e da coltello e “incidente”, con tanto di virgolette.

Per quanto abbia passato anni a scrivere di persone che vanno incontro a tutta una serie di morti orribili e macabre, quando si tratta di fare sul serio non riesco a ignorare il fatto che non riuscirò mai a metterlo in pratica di persona. Le idee che mi risultano più valide ruotano tutte intorno a quelli che si potrebbero definire metodi indiretti: la teoria dell’incidente sembra in particolar modo accattivante.

Giro la pagina del taccuino e continuo a scribacchiare. È per lo più un flusso di parole e pensieri quasi scollegati.

Problema meccanico all’automobile? Scomparsa inscenata. Biglietto o messaggio: deve essere perfetto, altrimenti scoprono la contraffazione. Progetti a lungo termine?

Mentre le scrivo, le parole paiono avere senso, ma pochi istanti dopo diventano assurde. Quello che so, grazie alla mia carriera di scrittore, è che il delitto perfetto richiede soprattutto una cosa: una pianificazione meticolosa. Non si può tralasciare nessun aspetto. Considerando com’è ridotta adesso la mia mente, non sono in grado di realizzarlo. Non da solo, quanto meno.