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Tasha

Sono rimasta sveglia tutta la notte per la preoccupazione. E lo sapevo. C’erano tutti i segni premonitori: la difficoltà a respirare, i pensieri cupi, l’incrollabile desiderio di nascondermi.

Non posso fare niente. Niente. È una cosa che si alimenta da sola. Il mio psicologo, un comportamentista cognitivo, ha stabilito che il problema riguarda la percezione della mancanza di controllo. Mi ha insegnato ad accettare che certe cose sfuggono alla mia possibilità di intervento. E ci riesco, in una certa misura. Non mi lascio più vincere dall’ansia negli ingorghi del traffico, e non do in escandescenze quando si blocca il computer. Ma proprio non riesco a superare questa cosa. Non sapere dov’è mia figlia, se è sana e salva. Mentre al contempo so che avrei potuto essere al controllo. Bastava non andare a quella conferenza. Rimanere a casa e stare insieme a lei.

L’ultima volta che ho provato una desolazione così assoluta è stata un anno prima che Ellie nascesse. Avevamo tentato con i metodi convenzionali, poi con la fecondazione in vitro e infine non ci era rimasto più nulla. Non so neanche descrivere la sensazione. Sapere che con ogni probabilità non avrei mai partorito era devastante. Le donne lo danno quasi per scontato. Molte passano la gioventù nel tentativo di evitarlo. Ma, per me, la vita intera è finita quando ho saputo che non avrei mai partorito. Era l’ennesima cosa che non ero in grado di controllare. Qualcosa che non potevo prevedere o modificare.

È stata l’unica volta nella mia vita in cui mi sono presa un paio di giorni di permesso dal lavoro. Non riuscivo ad affrontare il mondo. Non riuscivo neanche ad aprire la porta di casa. La mia amica Emma mi consigliò di vedere uno dei medici che esercitano dove lavora lei. Io e Nick ci eravamo fatti seguire da un medico di base per un po’, per la fecondazione in vitro e le difficoltà nel concepire, ma dopo che la FIVET non aveva portato risultati Emma mi consigliò la dottoressa Mirza. Lavorando alla reception, lei poteva farci avere un appuntamento comodo per i nostri orari, e ci confidò che anche la dottoressa aveva affrontato difficoltà simili, cosa che forse la rendeva la professionista ideale alla quale rivolgersi.

Ancora ricordo quando quel pomeriggio entrammo nella sala d’attesa, cosa strana visto che tutto il resto è come una macchia sfocata, immagini che si sovrappongono e mescolano una all’altra, niente di chiaro o distinto. Ricordo la professionalità di Emma, quando registrò i miei dati e mi disse di accomodarmi. Ricordo il sorriso benevolo sul volto della dottoressa che ci accolse nel suo studio e mi fece sedere accanto alla sua scrivania. E ricordo come venne tutto fuori, un groviglio di parole, pensieri e sensazioni, mentre guardavo la dottoressa Mirza che aggrottava le sopracciglia, sorrideva e annuiva, un gesto che senza dubbio aveva provato migliaia di volte.

Ci consigliò di cercare un aiuto psicologico, mi disse che il suo studio collaborava con un’ottima struttura in grado di assistere le coppie in crisi perché non riuscivano ad avere figli. Ci presentò la possibilità di adottare. Tutti quelli coi quali parlavamo, dal primo all’ultimo, ce lo dicevano, come se noi per primi non ci avessimo già pensato. Le risposi che non volevo adottare. Che non volevo rivolgermi a nessuno psicologo. Non volevo parlare con nessuno. Punto e basta. Volevo nascondermi e dimenticare.

La dottoressa mi prescrisse una cura a base di fluoxetina e temazepam. Quest’ultimo serviva per aiutarmi a dormire, e in seguito scoprii che il nome commerciale della fluoxetina è Prozac. Tuttavia mi ricordo ancora le parole che usò la dottoressa. Disse che era un “antidepressivo, per allentare un po’ la tensione”. All’epoca, non mi importava di nulla. Il più delle volte volevo soltanto rannicchiarmi in disparte e morire, in rare occasioni desideravo invece che tutto sparisse. Allentare la tensione mi sembrò un buon inizio. Poco tempo dopo tornai al lavoro, i farmaci mi aiutavano quanto meno sotto questo aspetto. Ma non cambiò null’altro. Di sicuro non mi sentivo felice. Non provavo quasi più nulla. E poi, quattro mesi dopo, scoprii di essere incinta. Diciotto settimane e tre giorni dopo, a voler essere precisi. Feci cinque volte il test: le prime due una dopo l’altra, e poi una per ogni giorno successivo. Dovevo essere sicura. Avevamo atteso così a lungo.

Assunsi l’ultima dose di fluoxetina poche ore prima di quel primo test di gravidanza risultato positivo. Il temazepam ormai lo prendevo solo quando lo reputavo necessario, senza più seguire una cura vera e propria, e smisi anche quello non appena scoprii di essere incinta. Non volevo fare nulla che potesse mettere a repentaglio la vita di mio figlio. E non avevo bisogno di supporti chimici per arrivare a fine giornata. L’emozione e gli ormoni della gravidanza erano più che sufficienti.

Ieri sera ho contattato Emma. Mi ha detto che mi avrebbe preso un appuntamento con la dottoressa Mirza, che però al mattino era impegnata con le visite a domicilio. Le ho risposto che anche per me una visita a domicilio era l’ideale: devo restare in casa, qualora Ellie decida di tornare. Al momento, anche la sola idea di uscire mi terrorizza. Starmene seduta nella sala d’attesa di uno studio medico piena di persone, a fissare le lancette dell’orologio, è assolutamente impensabile.

Trasalisco per il rumore di una portiera che si chiude, e mi alzo per guardare fuori dalla finestra. Vedo la dottoressa Mirza che percorre il nostro viale. Vado ad aprire la porta e la invito ad accomodarsi in soggiorno. Non appena mi chiede qual è il problema, crollo e viene tutto fuori. Una lunga, confusa sfilza di parole priva di qualsiasi senso logico. È come se la storia si stesse ripetendo, con la dottoressa che aggrotta le sopracciglia mentre io ho la vista offuscata dalle lacrime e non riesco a sentire neppure la mia stessa voce.

Lei mi chiede da quanto tempo è scomparsa Ellie, cosa sta facendo la polizia, in che modo Nick sta affrontando la situazione. Rispondo come meglio posso alle sue domande. Il fatto è che tutto si riduce a una grande macchia sfocata. Non ho più alcun concetto del tempo. Non so cosa stia facendo la polizia. Non so come Nick stia affrontando la situazione. Eppure dovrei saperle, certe cose. Sono una super madre, sempre efficiente, sempre organizzata. Ma oggi non sono proprio niente di tutto ciò. Per quanto ne so, potrei anche non essere più una madre.

A quest’idea mi prende il panico, il cuore batte veloce e vado in iperventilazione. La dottoressa Mirza fa del suo meglio per rasserenarmi. «So che lei non può farci nulla, ma io non riesco a dormire», le confesso. «Non riesco a ragionare, a mangiare. Non riesco a fare più nulla».

La dottoressa mi prescrive del diazepam e mi spiega che più tardi un’infermiera verrà qui a consegnarmi le medicine. Malgrado le condizioni in cui mi ritrovo, mi rendo conto che questa non è una consuetudine. I dottori sono sempre a corto di tempo, e di rado riescono a fare visite a domicilio, figuriamoci se è possibile avere dei farmaci portati direttamente a casa. Non posso fare a meno di pensare che le esperienze personali della dottoressa Mirza abbiano influenzato questa sua decisione. Non do a vedere di esserne al corrente – non lo faccio mai – le dico invece che le sono molto grata. E così ricomincio da capo. Cerco di controllarmi, sapendo che le medicine allenteranno un po’ la tensione. Sapendo che almeno c’è qualcuno disposto a darmi una mano. Dopo tutto, l’unica persona sulla quale dovrei fare affidamento sta cadendo a pezzi.