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Tasha

Sto davvero impazzendo. Al momento, riprendere a lavorare è fuori discussione. La polizia ci ha consigliato di non leggere i giornali o guardare la TV. Starmene seduta ad aspettare è quanto di più simile all’inferno io possa immaginare. Trascorro gran parte della giornata al telefono, a parlare con amici e parenti e tenermi in contatto con i colleghi di lavoro. Anche se tutti mi ripetono che se ho bisogno posso chiamarli in qualsiasi momento, comincio a sentire che si annoiano un po’ a sentirmi ripetere sempre le stesse cose. Ma, ora come ora, non sono mentalmente capace di gestire altro.

Devo accettare il fatto che le persone fuori da qui stanno andando avanti. Tornano a casa dal lavoro e rivedono i figli, si siedono davanti alla TV, conducono la loro normale vita quotidiana. Mi sembra perverso e allo stesso tempo mi fa sentire furente e sola. Com’è possibile che tutti continuino come se niente fosse? So che hanno buone intenzioni e cercano di essere gentili, ma come potrebbero mai capire davvero cosa sto passando? Non possono.

Rendermi conto che gli amici cominciano a essere sempre meno pazienti e disponibili mi terrorizza. Cosa succederà adesso? Di sicuro il clamore suscitato dai media passerà, dopo un po’. È sempre così. E poi? La gente smetterà di cercare Ellie? Le indagini cesseranno? La polizia chiuderà il caso e si dedicherà al prossimo bambino scomparso? E io e Nick? Che ne sarà di noi? Come possiamo gestire la possibilità che la nostra bambina non torni mai più a casa? Perché, diciamoci la verità, più tempo passa e meno è probabile che la riavremo con noi. La gente smetterà di cercare. Smetterà di darsi da fare. E io non credo che potrei affrontare un’eventualità del genere.

Mi ritrovo ormai a segnare il passare del tempo con le tazze di tè. Un po’ mi aiuta osservare una qualche routine, un ricordo di com’era un tempo la vita. Non è molto, ma è meglio di niente. Ma poi mi sento profondamente in colpa e mi vergogno per questo tentativo di ritrovare una forma di normalità. Ma qual è il modo giusto per affrontare certe tragedie? Non ne esiste uno.

Sento suonare il campanello. D’istinto, scosto un po’ la tenda e guardo all’esterno, ma non vedo nulla. Mi alzo e vado alla porta, usando lo spioncino per capire chi è. Jane McKenna. Sblocco la serratura e apro, facendola entrare senza espormi all’aria esterna.

«Fa caldo qui dentro», commenta lei come prima cosa. «Come sta, Tasha?»

«Lei cosa crede?», ribatto, cercando invano di usare un tono gradevole. Lei ignora la mia domanda.

«Mi chiedevo solo se potevamo fare due chiacchiere. Non ci sono notizie, ma volevo chiarire alcuni punti. Posso?». Indica il soggiorno.

Annuisco e lei si avvia, con me che la seguo da presso. Ci accomodiamo su due divani separati e la detective accavalla le gambe, appoggiandosi un taccuino in grembo sul quale comincia a picchiettare con la penna.

«Come va tra lei e Nick?», domanda. «Negli ultimi giorni, intendo».

Sgrano gli occhi e sospiro. «È dura, ovviamente. Cosa si aspettava?»

«Lui è in casa?»

«Ehm, no, credo sia uscito. È tornato per un attimo, ma poi è andato via di nuovo».

«Dove?»

«Non lo so», ammetto, dopo una pausa. Mi rendo conto di quanto sembri assurdo. Una donna che non sa dove sia il marito mentre se ne sta a casa ad aspettare notizie sulla figlia rapita.

«Non ha detto nulla?», chiede Jane, con lo stesso tono che potrebbe usare un’amica preoccupata.

«Be’, no», rispondo. «La verità è che ormai non parliamo così tanto».

La detective mi rivolge un sorriso benevolo. «Avete parlato con l’agente che vi abbiamo assegnato? Possiamo mettervi in contatto con qualcuno che vi aiuti».

«Non abbiamo bisogno di aiuto, grazie mille. Abbiamo bisogno che troviate nostra figlia». Mi stupisco per il tono con cui mi sono espressa. «Chiedo scusa».

«Stiamo facendo tutto quello che possiamo», dice lei. «So che dalla vostra prospettiva non sembra granché, ma abbiamo un’intera squadra che lavora dietro le quinte per Ellie. Persone che sanno il fatto loro».

Annuisco.

«E gli amici di suo marito?», chiede la detective.

«Cosa?»

«C’è qualcuno che vede regolarmente? Qualcuno dal quale potrebbe essere andato anche oggi? Abbiamo solo bisogno di farci un quadro generale. Non immagina quanto possa tornare utile, in certi casi».

Ci penso per un istante. «No, nessuno. Non direi. Non c’è nessuno col quale è abituato a vedersi, o cose del genere. Per lo più, tende a starsene per i fatti suoi».

«Tasha, sa quali pub Nick frequenta di solito?», continua.

«Nick non beve. Non molto. Magari di tanto in tanto si fa un bicchiere, ma se andiamo a una festa o a un qualche evento è sempre lui quello che guida. Non gli piace esagerare con l’alcol. Da quando…». Lascio la frase a metà. Lo sappiamo entrambe perché Nick non beve più.

«Ma dove va, quando esce?», chiede ancora la McKenna, annotando tutto sul taccuino.

«Non lo so. L’hanno visto al Flag un paio di volte, con qualche amico. Credo che gli piaccia anche l’Old Red Lion. Perché?»

«E il Talbot Arms?».

Non riesco a trattenere una risata. «Ne dubito. Non è quel locale pieno di tossicodipendenti e fannulloni?».

Jane McKenna solleva un sopracciglio. Non capisco se è un cenno di assenso per la mia osservazione o un giudizio relativo alla mia scelta di parole per descrivere la clientela. «Di sicuro non è uno dei migliori pub della città, per quel che ci riguarda. Motivo per cui mi ha un po’ stupito vederci entrare Nick qualche ora fa». Mi guarda come se pensasse che ne sono al corrente. Non potrebbe essere più lontana dalla verità.

«Non ne ho idea. Perché non lo chiedete a lui?», dico.

«Lo faremmo. Ma al momento non sappiamo dove sia. Speravamo che lei potesse aiutarci in tal senso».

«Io? Se l’avete visto entrare in quel pub, di sicuro avete visto anche dov’è andato dopo, no? Lo state forse pedinando?».

La detective si esibisce in un grande, luminoso sorriso innocente. «No, niente del genere. Sono solo passata di lì per caso. Stavo andando a parlare con un’altra persona». Si vede che sta mentendo.

«E gli agenti che dovrebbero tenerci d’occhio? Controllare la casa? Dove sono?»

«In quel momento non erano presenti», risponde lei, dopo una pausa. «Dobbiamo gestire con cura le nostre risorse, e poiché non ci sono stati incidenti locali o un’eccessiva invadenza da parte dei media, abbiamo allentato un po’ la sorveglianza. Ma, quando sono qui, devono controllare la casa, come ha detto lei. Non possono seguire Nick in giro. In ogni caso, perché mai lei vorrebbe che lo pedinassimo? Ci ha detto di non avere sospetti su di lui».

Le sue parole mi gettano in un labirinto di confusione. L’invadenza dei media? La sorveglianza allentata? Sospetti su Nick? La parte razionale del cervello mi dice che la detective sta cercando di mettermi pressione per strapparmi una qualche confessione, e so che non dovrebbe farlo, ma è venuta qui da sola e mi ha colto alla sprovvista.

«Voi ci dovreste proteggere», rispondo, trattenendo le lacrime.

«Ci stiamo provando», ribatte lei, e si sporge verso di me. «Ma prima è necessario che vi proteggiate voi stessi».